Diario dell'anno della peste
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Diario dell'anno della peste

  1. 352 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Diario dell'anno della peste

Informazioni su questo libro

Un vivido resoconto della peste di Londra del 1665, redatto dallo scrittore che aveva assistito alla grande tragedia ancora bambino. Un racconto di grande precisione documentaria basato su documenti ufficiali e reso emozionante dalla capacità di rievocazione e dall'abilità narrativa del grande scrittore.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2016
Print ISBN
9788804484875
eBook ISBN
9788852072567
Argomento
Letteratura
Categoria
Classici

Diario dell’anno della peste

Intorno al principio di settembre del 1664 io e i miei vicini udimmo che la peste era comparsa nuovamente in Olanda; giacché colà era stata molto violenta, specie ad Amsterdam e a Rotterdam, nell’anno 1663, portata, dicevano alcuni, dall’Italia, altri dal Levante, fra merci trasportate nei Paesi Bassi dalla flotta turca; altri dicevano ch’era stata portata da Candia; altri da Cipro. Di dove venisse, non aveva importanza; ma tutti convenivano che era arrivata di nuovo in Olanda.
In quei giorni non avevamo giornali stampati1 che diffondessero voci e notizie sugli avvenimenti, e le ampliassero con l’inventiva propria degli uomini, come vissi poi abbastanza per veder fare in seguito; ma fatti del genere erano spigolati dalle lettere dei mercanti, e da altri che tenevano corrispondenza con l’estero, e ciò veniva propalato da essi solo verbalmente; cosicché le notizie degli avvenimenti non si diffondevano subito per tutta la nazione, come adesso. Pare tuttavia che il governo avesse ragguaglio esatto di tutto ciò, e si tennero diverse riunioni circa le misure a cui ricorrere per impedire all’epidemia di giungere sin qui; ma tutto fu tenuto ben segreto. Accadde quindi che la voce a poco a poco si estinse, e la gente cominciò a scordarsene, come di cosa che ci riguardava ben poco, e che noi speravamo non fosse vera; e ciò sino alla fine del novembre, o all’inizio del dicembre 1664, quando due uomini, che si diceva fossero francesi, morirono di peste a Long Acre, o meglio nell’ultimo tratto di Drury Lane. La famiglia presso cui alloggiavano si sforzò di tenere la cosa nascosta il più possibile; ma poiché era trapelata nei discorsi dei vicini, i segretari di Stato ne vennero a conoscenza. E considerando compito loro di svolgere un’inchiesta in merito, con lo scopo di appurare la verità, due medici e un chirurgo furono incaricati di recarsi all’alloggio e di fare un’ispezione. La fecero; e trovando su ambedue i cadaveri segni evidenti della malattia, espressero pubblicamente il parere che fossero morti di peste; della qual cosa fu informato l’ufficiale della parrocchia, ed egli pure fece uguale rapporto al municipio; e come di consueto, si stampò sul bollettino settimanale delle mortalità:
Peste, 2. Parrocchie infette, 1.
La gente manifestò grande preoccupazione per questo, e cominciò a mettersi in allarme nell’intera città, tanto più che nell’ultima settimana del dicembre 1664 morì un altro uomo nella medesima casa, e della medesima malattia; poi rimanemmo di nuovo tranquilli per circa sei settimane, allorché, non essendo morto alcuno con i segni del male, si disse che l’epidemia era passata; ma dopo di ciò (penso che fosse circa il 12 febbraio) ne morì un altro in un’altra casa, ma nella stessa parrocchia, e allo stesso modo.
Ciò fece volgere un po’ di più gli occhi della gente verso la periferia della città; e mostrando i bollettini settimanali un aumento di seppellimenti maggiore del solito nella parrocchia di St Giles, si cominciò a sospettare che la peste fosse proprio tra la popolazione di quella parte della città e che ne fossero morti assai, sebbene si fosse avuta cura di non farlo sapere al pubblico. Ciò ossessionò moltissimo la mente della gente, e pochi avevano voglia di passare per Drury Lane o per altre strade sospette, a meno che non avessero affari straordinari che li obbligassero a farlo.
Questo aumento della mortalità si presentava così: il numero consueto di seppellimenti settimanali, nelle parrocchie di St Giles in the Fields e di St Andrew a Holborn, era suppergiù da 12 a 17 o 19 per ciascuna parrocchia; ma da quando era cominciata l’epidemia nella parrocchia di St Giles, si osservò che i seppellimenti ordinari aumentavano in quantità considerevole. Per esempio:
dal 27 dicembre al 3 gennaio, 16 morti a St Giles e 17 a St Andrew;
dal 3 gennaio al 10 gennaio, 12 morti a St Giles e 25 a St Andrew;
dal 10 gennaio al 17 gennaio, 18 morti a St Giles e 18 a St Andrew;
dal 17 gennaio al 24 gennaio, 23 morti a St Giles e 16 a St Andrew;
dal 24 gennaio al 31 gennaio, 24 morti a St Giles e 15 a St Andrew;
dal 31 gennaio al 7 febbraio, 21 morti a St Giles e 23 a St Andrew;
dal 7 febbraio al 14 febbraio, 24 morti a St Giles, di cui uno di peste.
Il medesimo aumento di mortalità fu rilevato nella parrocchia di St Bride, adiacente, da un lato, alla parrocchia di Holborn, e nella parrocchia di St James a Clarkenwell, adiacente, dall’altro lato, a quella di Holborn; e in tutt’e due le parrocchie il numero solito di morti per settimana era da 4 a 6 o ad 8, mentre a quel tempo era aumentato come segue:
dal 20 dicembre al 27 dicembre, 0 morti a St Bride e 8 morti a St James;
dal 27 dicembre al 3 gennaio, 6 morti a St Bride e 9 morti a St James;
dal 3 gennaio al 10 gennaio, 11 morti a St Bride e 7 morti a St James;
dal 10 gennaio al 17 gennaio, 12 morti a St Bride e 9 morti a St James;
dal 17 gennaio al 24 gennaio, 9 morti a St Bride e 15 morti a St James;
dal 24 gennaio al 31 gennaio, 8 morti a St Bride e 12 morti a St James;
dal 31 gennaio al 7 febbraio, 13 morti a St Bride e 5 morti a St James;
dal 7 febbraio al 14 febbraio, 12 morti a St Bride e 6 morti a St James.
Oltre a ciò fu notato con grande apprensione che le cifre dei bollettini settimanali aumentavano generalmente moltissimo durante queste settimane, sebbene si fosse in un periodo dell’anno in cui di solito la mortalità era assai modesta.
Il numero consueto di seppellimenti era settimanalmente, nei bollettini della mortalità, da circa 240 a 300. L’ultimo fu considerato un bollettino con una cifra abbastanza elevata; ma dopo di questo ci avvedemmo che i bollettini aumentavano successivamente come segue:
dal 20 dicembre al 27 dicembre, 291 morti;
dal 27 dicembre al 3 gennaio, 349 morti, aumentati 58 morti;
dal 3 gennaio al 10 gennaio, 349 morti, aumentati 45 morti;
dal 10 gennaio al 17 gennaio, 415 morti, aumentati 21 morti;
dal 17 gennaio al 24 gennaio, 474 morti, aumentati 59 morti.
Quest’ultima cifra apparve veramente paurosa, dando un numero più alto di quello che si era registrato in una sola settimana dalla precedente epidemia del 1656.
Nondimeno, a poco a poco, tutto questo finì nuovamente, e la stagione facendosi fredda, e continuando assai rigido il gelo, che era cominciato in dicembre, fin quasi alla fine di febbraio, accompagnato da venti moderati ma aspri, la mortalità decrebbe di nuovo, la City risanò, e ciascuno prese a considerare il pericolo già passato; solo che a St Giles i funerali seguitarono a essere ancora numerosi; in particolare, dall’inizio di aprile essi mantennero la media di 25 per settimana, fino alla settimana dal 18 al 25, in cui nella parrocchia di St Giles si seppellirono 30 persone, delle quali 2 morte di peste, e 8 di tifo petecchiale,2 che erano credute la medesima cosa; similmente crebbe il numero complessivo di coloro che erano morti di tifo petecchiale, e cioè 8 la settimana precedente, e 12 la settimana di cui s’è detto.
Questo ci mise tutti in allarme un’altra volta, e fra la gente c’era terribile ansietà, specie perché ora il tempo cambiava, e stava tornando caldo, e l’estate era alle porte; tuttavia la settimana successiva ci fu ancora, a quanto parve, qualche speranza, e la mortalità fu bassa, il numero dei morti toccando i 388 in tutto; e non ce ne fu alcuno di peste, e unicamente 4 di tifo petecchiale.
Ma la settimana seguente il morbo ricomparve e si estese a due o tre parrocchie, cioè a St Andrew a Holborn, a St Clement Danes, e, con grande cordoglio della City, ne morì uno entro le mura, nella parrocchia di St Mary Woolchurch, cioè a Bearbinder Lane, vicino a Stocks-Market; in tutto ci furono 9 morti di peste, e 6 di tifo petecchiale. Si scoperse per altro, in seguito a un’inchiesta, che questo francese morto a Bearbinder Lane era uno che, essendo vissuto a Long Acre, vicino alle case infette, si era trasferito per timore della peste, ignorando di esserne già colpito.
Questo fu all’inizio di maggio; ma la stagione era temperata, variabile, e abbastanza fresca, e la popolazione nutriva ancora qualche speranza. Ciò che la rinfrancava era il fatto che la City era sana, e che tutte le 97 parrocchie seppellirono solo 54 persone; e noi cominciammo a sperare che la peste, essendo principalmente tra la popolazione alla periferia della città, non avrebbe avuto la possibilità di estendersi ulteriormente; tanto più in vista del fatto che la settimana successiva, dal 9 al 16 maggio, ne morirono solo 3, di cui nessuno entro l’intera City, o le Liberties,3 mentre la parrocchia di St Andrew seppellì appena 15 persone, che è cifra molto bassa: è vero che la parrocchia di St Giles ebbe 32 morti, ma poiché ve ne fu uno solo di peste, la gente recuperò ancora la tranquillità; anche il bollettino delle morti dava cifre molto basse, perché la settimana prima esso raggiungeva il numero di 347, e la settimana di cui s’è detto non superava quello di 343: noi continuammo a sperare per alcuni giorni, ma solo per pochi; la popolazione non poteva più essere ingannata a quel modo; si ispezionarono le case e si scoperse che in realtà la peste s’era diffusa dappertutto, e che molti morivano quotidianamente di essa; sicché fallì ogni tentativo di sminuire il pericolo della cosa, né si poté più passarla sotto silenzio; anzi, fu ben presto evidente che il contagio s’era esteso ad onta di tutte le speranze di estinzione, che nella parrocchia di St Giles aveva raggiunto diverse strade, e che numerose famiglie erano a letto ammalate tutte insieme. Stando al bollettino della settimana successiva, la cosa appariva manifesta; furono registrati, è vero, solamente 14 morti di peste, ma era tutta mistificazione e tacita connivenza, perché nella parrocchia di St Giles ne seppellirono complessivamente 40, la maggior parte dei quali era certo morta di peste, anche se erano stati denunciati come vittime di altre malattie; e sebbene il numero di tutti i seppellimenti non fosse salito oltre i 32, e l’intero bollettino ne registrasse solo 385, tuttavia c’erano 14 morti di tifo petecchiale, e altrettanti di peste; e in complesso non avemmo alcun dubbio che di peste, in quella settimana, ne erano morti 50.
Il bollettino seguente fu dal 23 al 30 maggio, quando si ebbero 17 morti di peste; ma i funerali a St Giles furono 53: una cifra paurosa. Di essi ne vennero dichiarati 9 come morti d’epidemia: ma in seguito a un esame più rigoroso ad opera dei giudici di pace, e a richiesta del sindaco, si scoperse che c’erano altre 20 persone, le quali erano in realtà morte di peste, in quella parrocchia, ma che erano state denunciate come affette da tifo petecchiale o da altre malattie, oltre ad altre morti tenute nascoste.
Ma queste erano cose da nulla a paragone di quanto seguì immediatamente dopo; perché ora la stagione s’era fatta calda, e a partire dalla prima settimana di giugno il contagio si propagò in modo spaventoso, e i bollettini salirono di molto, i paragrafi “tifo petecchiale”, “febbre”, “denti”4 prendendo ad occupare più spazio: perché tutti coloro che potevano tener nascoste le loro malattie, lo facevano per impedire che i vicini li evitassero e si rifiutassero di conversare con loro; ed anche per far sì che l’autorità non chiudesse le loro abitazioni, il che, se non veniva ancora messo in pratica, pur tuttavia lo si minacciava, e la gente, al pensarci, ne rimaneva grandemente impaurita.
La seconda settimana di giugno, la parrocchia di St Giles, su cui gravava allora il peso del contagio, seppellì 120 abitanti, dei quali, sebbene solo 68 venissero registrati dai bollettini come appestati, ognuno diceva che c’erano state per lo meno 100 vittime, calcolando ciò in base al numero solito di funerali in quella parrocchia, come abbiamo detto prima.
Fino a questa settimana la City continuò a rimanere incolume, non essendo morto nessuno in tutte le 97 parrocchie, a eccezione di quel francese che ho menzionato prima. Ora ne morirono quattro entro la City, uno in Wood Street, uno in Fenchurch Street e due in Crooked Lane: la zona di Southwark rimase completamente immune, non essendo morto alcuno su quella sponda del Tamigi.
Io abitavo fuori di Aldgate, a circa metà strada fra Aldgate Church e Whitechapel Bars, a mano sinistra e dal lato nord della strada; e poiché il morbo non aveva raggiunto quella parte della City, il nostro quartiere continuava a vivere assai tranquillo: ma dall’altra parte della città, grandissima era la costernazione degli abitanti: e la gente più facoltosa, specialmente i nobili e i gentiluomini, si trasferivano in folla fuori città dalla zona occidentale della City, con famiglia e servitù, in maniera inusitata; e questo fenomeno si poteva osservare più particolarmente in Whitechapel, vale a dire nella grande strada dove abitavo io; e in verità non si vedeva altro che carri e carrozze con merci, donne, servitori, bambini, ecc. Comparivano diligenze stipate di gente del più alto lignaggio, con cavalieri al loro seguito, e tutti se ne andavano via in fretta; poi comparivano vetture vuote, e carri, e cavalli di riserva con servitori che evidentemente erano di ritorno o venivano mandati dalle campagne a prendere altra gente ancora; inoltre innumerevoli quantità di uomini a cavallo, alcuni isolati, altri con domestici, e, in generale, tutti carichi di bagagli e bene attrezzati per viaggiare, come si poteva notare dal loro aspetto.
Era una cosa tristissima e terribile a vedersi; e poiché costituiva uno spettacolo che non si poteva fare a meno di guardare dalla mattina alla sera, non essendoci in verità nient’altro d’importante da vedere, mi riempiva la mente di pensieri molto seri sulla calamità che stava per abbattersi sulla City, e sull’infelice situazione di coloro che nella City sarebbero rimasti.
Questa fuga della gente fu tale, per alcune settimane, che non si arrivava alla porta del sindaco senza grandissima difficoltà tanta era la folla che vi faceva ressa, per ottenere passaporti, e certificati di buona salute da parte di coloro che andavano all’estero; giacché senza di questi non era consentito passare per le città lungo la strada maestra, o alloggiare in qualsiasi locanda. Ora, non essendoci stato, in tutto questo tempo, alcun morto nella City, il sindaco dava certificati di buona salute senza alcuna difficoltà a tutti coloro che abitavano nelle 97 parrocchie, e, per un po’ di tempo, anche a quelli che abitavano entro il quartiere detto Liberties.
Questa fuga, come dico, continuò per alcune settimane, vale a dire tutto il mese di maggio e di giugno, tanto più che correva voce di un imminente ordine, da parte del Governo, di collocare cancelli e barriere sulla strada per impedire alla gente di viaggiare, e che le città sulla strada maestra non avrebbero dato via libera alle persone provenienti da Londra, per timore che portassero con sé il contagio lungo la via, quantunque nessuna di tali voci avesse fondamento se non nell’immaginazione, specie all’inizio.
Ora io cominciai seriamente a pensare a me stesso e a quanto concerneva il caso mio, e a come disporre di me stesso: vale a dire se risolvere di rimanere a Londra o chiuder casa e fuggire come facevano molti miei vicini. Mi sono diffuso così a lungo su questo particolare perché so che può essere importante per quelli che vengono dopo di me, se càpita loro di trovarsi nel medesimo frangente e di dover fare una scelta nello stesso modo; e perciò desidero che questa relazione passi ad essi come un suggerimento in base al quale agire, piuttosto che come una storia di quello ch’io feci, considerato che per essi può non valere un quattrino il sapere quel che è stato di me.
Due alternative importanti avevo di fronte: l’una era di mandare avanti bottega e commercio, ch’era considerevole, avendo investito in esso tutti i beni ch’io avevo al mondo; l’altra era la salvezza della mia vita in una calamità così spaventosa quale vedevo manifestamente sopraggiungere su tutta la City; e che, per quanto grande fosse, i terrori miei, come probabilmente quelli degli altri, immaginavano molto maggiore di quanto non potesse mai essere.
La prima considerazione era di grande importanza per me; il mio mestiere era quello del sellaio, e poiché i miei rapporti d’interesse erano principalmente non in bottega o con la clientela casuale, ma con i mercanti che commerciavano con le colonie inglesi in America, così i miei guadagni erano in massima parte nelle mani di costoro.
Ero scapolo, è vero, ma avevo una famiglia di servitori per la mia attività, avevo casa, bottega e magazzini pieni di mercanzie; e, per farla breve, abbandonare tutto come le cose, in un caso del genere, devono essere abbandonate, vale a dire senz’alcun sorvegliante o persona idonea a prendere in custodia tutto ciò, sarebbe equivalso a rischiare la perdita non solo del mio commercio, ma dei miei beni, e in verità di tutto ciò che possedevo al mondo.
A Londra, nel medesimo periodo, avevo un fratello più anziano, ritornato non molto tempo prima dal Portogallo; e consultandomi con lui, la sua risposta fu, in quattro parole, la medesima che venne data in un’altra situazione completamente diversa, e cioè: «Signore, salva te stesso».5 In una parola, egli era per il mio ritiro in campagna, com’egli stesso aveva stabilito di fare insieme con la sua famiglia, dicendomi ciò che, a quanto pare, aveva udito all’estero: che il miglior antidoto contro la peste era correre lontano da essa. Quanto alla mia obiezione che avrei perduto il mio commercio e i miei beni, o crediti, mi confutò completamente: mi disse la stessa cosa che io avevo sostenuto come argomento a...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Introduzione di Anna Banti
  4. Cronologia a cura di Giuseppe Gaetano Castorina
  5. DIARIO DELL’ANNO DELLA PESTE
  6. Note a cura di Giuseppe Gaetano Castorina
  7. Copyright