A Battle Mountain avevamo smesso di battezzare le auto di famiglia perché erano dei macinini tali che, secondo Papà , non meritavano un nome. Mamma aveva detto che quando era ragazza, al ranch, non davano mai nomi al bestiame, perché sapevano che avrebbero dovuto ucciderlo. Se non davamo un nome alla macchina, non ci sarebbe dispiaciuto tanto al momento di abbandonarla.
Perciò lo Speciale Salvadanaio rimase semplicemente la Oldsmobile e non pronunciammo mai quel nome con alcun entusiasmo e neppure compassione. Quella Oldsmobile fu un rottame dal momento in cui la comprammo. La prima volta che andò in panne mancava ancora un’ora al confine del Nuovo Messico. Papà ficcò la testa sotto il cofano, armeggiò con il motore e riuscì a farla ripartire, ma si ruppe di nuovo un paio d’ore dopo. La fece ripartire – «saltare, più che altro» disse – ma non superò mai i venti o trenta chilometri all’ora. Inoltre, il cofano continuava a saltar su, perciò dovemmo assicurarlo con una corda.
Evitavamo i caselli, prendendo strade secondarie a due corsie, dove in genere dietro di noi si formava una lunga fila di automobilisti che suonavano il clacson esasperati. Quando uno dei finestrini della Oldsmobile smise di venire su, in Oklahoma, ci attaccammo dei sacchetti della spazzatura con il nastro adesivo. Dormivamo in macchina tutte le notti e una volta, dopo essere arrivati sul tardi a Muskogee e avere parcheggiato in una via vuota del centro, al risveglio ci ritrovammo circondati da un mucchio di persone, bimbetti con il naso schiacciato contro i finestrini e adulti che scuotevano la testa e sogghignavano.
Mamma fece ciao ciao con la mano a quella piccola folla. Sai di essere davvero a terra quando anche i pezzenti ridono di te. Con il nostro finestrino chiuso dai sacchi della spazzatura, il nostro cofano fissato con la corda e i materiali artistici legati sul tetto, eravamo messi peggio dei braccianti di quell’angolo di Oklahoma. Il pensiero le fece venire un attacco di ridarella.
Io mi tirai una coperta sulla testa e rifiutai di venire fuori finché non ci fummo lasciati alle spalle Muskogee. «La vita è uno spettacolo teatrale fatto di tragedia e di commedia» mi disse Mamma. «Dovresti imparare a goderti un po’ di più gli episodi comici.»
Impiegammo un mese ad attraversare il paese. Mamma continuava anche a insistere che facessimo varie deviazioni per ammirare il paesaggio e ampliare i nostri orizzonti. Arrivammo ad Alamo – «Davy Crockett e James Bowie hanno avuto quel che si meritavano» sentenziava Mamma «per aver rubato questa terra ai messicani» – e a Beaumont, dove gli impianti di trivellazione abbassavano il capo come uccelli giganteschi. In Louisiana, Mamma ci fece salire sul tetto della macchina per tirar giù ciuffi di tillandsia appesi ai rami degli alberi.
Dopo avere attraversato il Mississippi, piegammo a nord verso il Kentucky, poi a est. Invece del piatto deserto delimitato da montagne scoscese, il paesaggio prese a incresparsi e a distendersi, come un lenzuolo quando viene scosso fuori dalla finestra. Infine, arrivammo in montagna, salendo e addentrandoci sempre più nei Monti Appalachi, e fermandoci ogni tanto per consentire alla Oldsmobile di riprendere fiato su quelle strade ripide e tortuose. Era novembre. Le foglie erano diventate marroni e cadevano dagli alberi; una nebbia fredda avvolgeva le montagne. Ovunque c’erano torrenti e ruscelli, anziché i canali d’irrigazione che si vedevano nell’Ovest, e l’aria era diversa. Era immobile, più pesante e più spessa, in un certo senso più scura. Per qualche ragione, tra noi calò il silenzio.
Al crepuscolo arrivammo in prossimità di una curva dove cartelli scritti a mano con la pubblicità di autoriparazioni e rivendite di carbone erano stati inchiodati ai tronchi degli alberi sul lato della strada. Oltre la curva, ci ritrovammo in una profonda vallata. Case di legno e piccoli edifici di mattoni si allineavano lungo il fiume e sorgevano in gruppi sparsi su entrambi i fianchi della montagna.
«Benvenuti a Welch!» esclamò Mamma.
Proseguimmo lungo buie strade tortuose, poi ci fermammo davanti a una grande casa di legno. Era più in basso rispetto alla strada e dovemmo scendere dei gradini per arrivarci. Al rumore dei nostri passi sul portico, una donna aprì la porta. Era enorme, pallida e con il triplo mento. I capelli grigi, dritti e opachi, erano tenuti indietro con delle forcine e una sigaretta le pendeva dalle labbra.
«Benvenuto a casa, figliolo» disse e diede a Papà un lungo abbraccio. Si rivolse a Mamma: «Carino da parte tua farmi vedere i miei nipoti prima di morire» osservò, e non sorrise.
Senza togliersi la sigaretta di bocca, diede a ciascuno di noi un abbraccio rapido e rigido. La sua guancia era appiccicosa di sudore.
«Piacere di conoscerti, Nonna» dissi.
«Non mi chiamare Nonna» ribatté secca. «Il mio nome è Erma.»
«Non le piace niente essere chiamata così, perché la fa sembrare vecchia» disse un uomo, apparso alle sue spalle. Aveva un aspetto fragile, con i capelli bianchi tagliati a spazzola. La sua voce era un biascichio confuso che stentai a comprendere, non so se per il suo accento o perché, forse, non aveva la dentiera. «Io sono Ted, ma potete chiamarmi Nonno» continuò. «Non mi disturba niente, a me, essere un nonno.»
Dietro Nonno c’era un uomo dal volto rubicondo, con un turbinio di capelli rossi che spuntava da sotto un berretto da baseball con il logo Maytag. Portava un giaccone scozzese rosso e nero ma sotto non aveva la camicia. Continuò a ripetere che era nostro zio Stanley e non la smetteva di abbracciarmi e baciarmi, come se fossi qualcuno a cui voleva davvero molto bene e che non vedeva da secoli. Aveva l’alito che puzzava di whisky e, quando parlava, si vedevano le creste rosa delle gengive sdentate.
Guardai fissamente Erma e Stanley e Nonno, cercando qualche caratteristica che mi ricordasse Papà , ma non ne vidi nessuna. Forse era uno dei soliti scherzi di mio padre, pensai. Doveva avere fatto in modo che le persone più strambe della zona si facessero passare per la sua famiglia. Tra qualche minuto sarebbe scoppiato a ridere e ci avrebbe detto dove vivevano i suoi veri genitori, ci saremmo andati e una donna sorridente dai capelli profumati ci avrebbe dato il benvenuto e servito ciotole fumanti di crema di frumento. Guardai Papà . Non stava sorridendo affatto e continuava a tirarsi la pelle del collo come se gli grattasse.
Seguimmo Erma e Stanley e Nonno all’interno della casa. Dentro faceva freddo e l’aria sapeva di muffa e sigaretta e panni da lavare. Ci stringemmo intorno a una panciuta stufa di ghisa nel mezzo del soggiorno e stendemmo le mani per scaldarcele. Erma tirò fuori una bottiglia di whisky dalla tasca del suo vestito da casa e Papà sembrò felice per la prima volta da quando avevamo lasciato Phoenix.
Poi Erma ci accompagnò in cucina, dove stava preparando la cena. Dal soffitto pendeva una lampadina che gettava una luce cruda sulle pareti ingiallite, ricoperte da una sottile patina d’unto. Infilò una manopola curva d’acciaio in un disco metallico sulla vecchia cucina a carbone, lo sollevò e, con l’altra mano, afferrò un attizzatoio dalla parete e rovistò tra i rossi carboni ardenti all’interno. Rimestò una pentola di fagioli verdi che cuocevano a fuoco lento nel lardo e ci versò una grossa manciata di sale. Poi mise sul tavolo della cucina un vassoio di biscotti Pillsbury e scodellò un piatto di fagioli per ciascuno di noi ragazzi.
I fagioli erano così scotti che si disfacevano quando ci infilavo la forchetta e così salati che a stento riuscivo a forzarmi a inghiottire. Mi pinzai il naso con le dita, come Mamma mi aveva insegnato a fare per mandar giù le cose un po’ passate. Erma mi vide e mi scostò la mano con una sberla: «Chi mendica non può scegliere» disse.
Di sopra c’erano tre camere da letto, spiegò, ma nessuno saliva al secondo piano da quasi dieci anni, perché le assi del pavimento erano marcite all’interno. Zio Stanley si offrì di cederci la sua camera nel seminterrato e di dormire su una branda nell’atrio fintanto che eravamo lì. «Rimarremo solo qualche giorno» disse Papà . «Il tempo di trovare un posto tutto per noi.»
Dopo cena, scendemmo con Mamma nel seminterrato. Era uno stanzone freddo e umido, con muri in calcestruzzo economico e un pavimento di linoleum verde. C’erano un’altra stufa a carbone, un letto, un divano letto dove potevano dormire Papà e Mamma e un cassettone verniciato di rosso fiammante. Conteneva centinaia di giornaletti pieni di orecchie – Little Lulu, Richie Rich, Beetle Bailey, Archie e Jughead – che Zio Stanley aveva raccolto negli anni. Sotto il cassettone c’erano bottiglioni di autentico distillato clandestino.
Noi ragazzi ci arrampicammo sul letto di Stanley. Per dividerci meglio lo spazio, Lori e io ci mettemmo testa-piedi con Brian e Maureen. Avevo i piedi di Brian in faccia, così gli afferrai le caviglie e iniziai a mordicchiargli le dita. Lui rise e scalciò e, per vendicarsi, cominciò a sua volta a mordicchiare le mie, facendo ridere anche me. Sentimmo un forte tump tump tump provenire da sopra.
«Che cos’è?» chiese Lori.
«Forse gli scarafaggi qui sono più grossi che a Phoenix» disse Brian. Ridemmo tutti e sentimmo di nuovo il tump tump tump. Mamma andò su a indagare, poi tornò giù e spiegò che Erma stava battendo sul pavimento con il manico di una scopa per segnalare che stavamo facendo troppo baccano. «Ha chiesto che voi bambini evitiate di ridere finché siete in casa sua» spiegò Mamma.«Le dà ai nervi.»
«Mi sa che non le piacciamo molto» osservai.
«È solo una vecchia che ha avuto una vita dura» disse Mamma.
«Sono tutti un po’ strambi» replicò Lori.
«Ci adatteremo» concluse Mamma.
O leveremo le tende, pensai.
Il giorno dopo era domenica. Quando ci alzammo, Zio Stanley era appoggiato al frigorifero e fissava attonito la radio, che emetteva strani rumori, non interferenze dovute ai disturbi atmosferici, ma una combinazione di strilli e lamenti. «Che razza di modo di parlare» disse. «Solo Dio ci capisce.»
Il predicatore cominciò a parlare in inglese. Più o meno. Aveva un accento da montanaro così marcato che era quasi altrettanto difficile da comprendere del linguaggio di prima. Domandò a tutta quella brava gente là fuori che era stata aiutata da «questa medesima canalizzazione dello spirito del Signore» di inviare un contributo. Papà entrò in cucina e stette ad ascoltare. «È il genere di vudù agghiacciante che ha fatto di me un ateo» spiegò.
Più tardi, quel giorno, salimmo sulla Oldsmobile e Mamma e Papà ci portarono a fare il giro della città . Welch era circondata da ogni parte da montagne così ripide che ti sentivi come se stessi guardando su dal fondo di una tazza. Papà disse che quei monti erano troppo ripidi perché ci si potesse coltivare qualcosa in modo redditizio. Non ci potevi allevare un gregge decente di pecore o di mucche, non ci potevi nemmeno seminare, se non forse per quel tanto che bastava a sfamare la tua famiglia. Così, quella parte del mondo era rimasta perlopiù indisturbata fino circa all’inizio del secolo, quando degli avidi imprenditori del Nord avevano costruito una linea ferroviaria nella zona, facendo arrivare manodopera a buon mercato per portare alla luce gli enormi giacimenti di carbone.
Ci fermammo sotto un ponte ferroviario e scendemmo dall’auto per ammirare il fiume che attraversava la città . Scorreva pigramente, increspandosi appena. Si chiamava Tug, disse Papà . «Forse in estate potremo andarci a pescare e a nuotare» proposi io. Scosse la testa. Nella zona non c’era alcun sistema fognario, ci spiegò, perciò, quando la gente tirava l’acqua nel gabinetto, lo scarico andava a finire direttamente nel Tug. A volte l’acqua straripava e arrivava all’altezza della cima degli alberi. Papà indicò la carta igienica sui rami lungo le rive. Il Tug, disse, aveva il più alto livello di batteri fecali di qualunque altro fiume del Nordamerica.
«Che cosa vuol dire fecale?» domandai.
Papà guardò il fiume. «Della merda» disse.
Ci guidò attraverso la città , lungo la strada principale. Era stretta, con vecchi edifici di mattoni addossati gli uni agli altri su entrambi i lati. Negozi, insegne, marciapiedi, auto erano tutti coperti da uno strato di polvere di carbone, che conferiva alla città un aspetto quasi monocromatico, come una vecchia fotografia colorata a mano. Welch era logora e cadente, ma si capiva che una volta era stata un centro in ascesa. In cima a una collina sorgeva il grande palazzo di giustizia in pietra calcarea, con un’imponente torre dell’orologio. Di fronte, c’era il bell’edificio di una banca, con finestre ad arco e un cancello in ferro battuto.
Si capiva anche che gli abitanti di Welch cercavano ancora di conservare un qualche orgoglio locale. Un cartello vicino all’unica luce rossa di stop della città annunciava che Welch era il capoluogo della contea di McDowell e che per anni era stato estratto più carbone nella contea di McDowell che in qualunque altro posto al mondo. Accanto, un altro cartello attribuiva a Welch il più grande parcheggio comunale scoperto del Nordamerica.
Ma le allegre scritte pubblicitarie dipinte sulle fiancate degli edifici, come RISTORANTE TIC TOC e CINEMA POCAHONTAS, erano sbiadite e quasi illeggibili. Papà disse che i tempi duri erano arrivati negli anni Cinquanta. C’era stato un tracollo e la città non si era più ripresa. Il presidente John F. Kennedy era venuto a Welch poco dopo essere stato eletto e aveva consegnato personalmente i primi buoni alimentari di assistenza della nazione qui in McDowell Street, per dimostrare che – per quanto l’americano medio potesse trovarlo difficile da credere – esistevano gravi situazioni di povertà nel suo stesso paese.
La strada che attraversava Welch, ci spiegò Papà , portava soltanto più su sulle umide, impervie montagne e, più avanti, ad altre moribonde città minerarie. Pochi stranieri passavano da Welch, ormai, e quasi tutti quelli che ci arrivavano, venivano a infliggere una nuova forma di miseria: licenziavano operai, chiudevano una miniera, impedivano il riscatto di una casa, tentavano di accaparrarsi le rare occasioni di lavoro. La gente del posto non era entusiasta di accogliere visitatori.
Le strade erano perlopiù silenziose e deserte quella mattina, ma ogni tanto passavamo accanto a una donna con i bigodini in testa, o a un gruppo di uomini in magliette con decalcomanie della Motor Oil, che oziavano sulla porta di casa. Cercai di incrociare il loro sguardo, di fare un cenno di saluto e un sorriso per mostrare che avevamo solo buone intenzioni, ma non risposero, non dissero una parola e nemmeno guardarono verso di noi. Non appena passavamo, però, sentivo i loro occ...