La singolarità di ciascun monaco
Nonostante la Regola di un ordine monastico sia la stessa, ogni monastero ha caratteristiche proprie sia come realtà architettonica e storica sia per l’ambiente geografico in cui è collocato. Anche se al suo interno i monaci hanno un’identica vocazione e missione da compiere, ciascuno è diverso dall’altro, poiché permane un’individualità legata all’età, alla biologia (la carne), di cui anche il monaco più spiritualista è fatto. Il corpo cambia con le fasi della vita, con l’esercizio, con le disposizioni individuali.
Occorre vincere l’impressione che la stessa tonaca, i sandali, la maniera con cui li si indossa, siano indice di una uniformità e che, pertanto, i monaci vadano considerati come un gregge e non come un insieme, fatto però di tante pecore (il termine è qui preso nel senso del Vangelo e nella metafora del pastore).
Oltre alla singolarità del corpo c’è quella, ancor più individuale, della personalità che in gran parte si lega alle esperienze, e a come vengono vissute. Sottolineare chiaramente questa grande diversità, che non distingue certo una comunità monastica rispetto a una qualsiasi altra comunità al di fuori dei monasteri, è importante per mostrare che il monastero non seleziona una tipologia di uomini o di donne, con l’idea che sia un luogo esclusivo. Invece, al suo interno, possono entrare tutti gli uomini e tutte le donne con la propria personalità, anche se il percorso che il monastero segue è lo stesso per tutti. Sarebbe preoccupante dover ammettere che la vita in monastero escluda parte degli esseri viventi, come se la “chiamata” a questa vita fosse preclusa a molti.
Il “come” la vita monastica viene vissuta da un monaco è diverso da quello di un altro. È forse utile ricordare il principio psicologico per cui un fatto concreto può essere “vissuto” non solo in modo diverso, ma addirittura contrapposto. Ciò sta a indicare che, persino all’interno di un rigido regolamento esistenziale, il vissuto è vario dentro una stessa comunità. Nel monastero entrano persone che hanno una propria fisionomia fisica e mentale e che, pur seguendo lo stesso percorso, rimangono una diversa dall’altra.
La Regola diventa una guida per forgiare una visione dell’uomo e del mondo che sia comune, ma non è certo comune la maniera con la quale i monaci la seguono.
A me pare che questo principio vada tenuto presente, perché attribuisce al monachesimo la dimensione umana e garantisce che tutti gli uomini e le donne, con la propria individualità, possano seguire questa via e realizzarla. E ciò è coerente con uno degli assunti del cristianesimo secondo cui la resurrezione dei corpi è la garanzia che, anche nell’eterno, si manterrà la propria individualità.
Il monastero è il luogo in cui si svolge una relazione d’amore con Dio, e una relazione è sempre qualcosa di diverso e in nessun modo è la ripetizione di un’altra, proprio perché è un continuum, non un’istantanea. Non ha nulla a che fare con un selfie, è un legame nel tempo che muta colui che lo vive. Queste note vogliono subito sottolineare che l’individualità non viene uccisa dalla Regola, semmai la Regola dimostra che ciascuno può attendere a quei comportamenti che riguardano l’organizzazione di un insieme di persone.
L’abate, quale responsabile dell’andamento della comunità, non può certo pretendere di imporsi sulle singole personalità, poiché ognuna di esse è prima di tutto legata a Dio. L’abate non ha, e non può avere, un rapporto d’amore con i propri monaci: questo spetta a Dio. Egli è semplicemente il direttore d’orchestra che deve creare un’armonia tra i violini, i corni, le trombe, pur senza saper suonare uno strumento e mancando delle singole abilità. Si distingue probabilmente da un comune direttore d’orchestra poiché deve interpretare una composizione sacra, un concerto che deve piacere a Dio.
Sarebbe un errore interpretare la figura dell’abate come quella del piccolo dittatore, di un odioso Hitler da monastero, che si impone su ciascuno. Seguendo il catechismo cristiano, risulta che persino Dio rispetta (non è facile dire come) la libertà dell’uomo. Forse l’unico che potrebbe fare il dittatore è il Padreterno e non certo un uomo arrogante, che rimarrebbe arrogante sia indossando la tonaca di san Benedetto o la divisa delle SS.
È probabile che la moda sia nata con il monachesimo. Ogni fondatore di un ordine monastico ha pensato a quale divisa far indossare ai propri seguaci.
Certamente la divisa è importante. Si è affermata nell’esercito, nelle scuole, e nelle professioni: il camice bianco dei medici, l’ermellino per i giudici. Molto più tardi giungerà a rappresentare una sorta di decorazione della bellezza femminile e maschile. Sarebbe un errore ritenere che la divisa rappresenti un annullamento della individualità, al contrario, essa indica che tutti coloro che la portano hanno una stessa missione da compiere e che vi contribuiscono nel rispetto della loro singolarità e del loro ruolo. Poiché si tratta di ruoli, è richiesto, ed è giusto, che vengano identificati da tutti, che siano chiaramente riconosciuti.
Ho sempre indossato il camice bianco per mostrare che eseguivo una funzione sociale attivata per la salute di tutti gli uomini e tutte le donne, ma il “come” svolgevo quell’azione era una caratteristica della mia personalità e della conoscenza della disciplina scientifica a cui mi ero dedicato. Per questo non ho mai capito la decisione di togliere la tonaca sacerdotale e indossare al suo posto un banale blue jeans e una maglietta, più adatti alla curva sud di uno stadio di calcio. Per questo mi piacciono le divise, mi pare che ordinino di più la società e sono convinto che la forma faccia parte del contenuto, e vi incida. Un’anfora minoica contiene l’acqua come una bacinella, ma l’uso dell’una o dell’altra incide persino nello stabilire un diverso valore al loro contenuto, all’acqua stessa.
Sembrerà che queste considerazioni non si adattino al monastero, quantomeno alla clausura rigida, all’interno della quale non è possibile uscire nella società. Giustamente, invece, la tonaca monacale è mantenuta, e deve essere sempre in ordine, come segno di un’equazione tra l’apparenza e l’impegno a perseguire il significato simbolico che la veste caratterizza. Come a dire che, se ami il tuo ruolo, indossi con piacere la tua tonaca e vuoi che sia perfetta. Anche il monastero è una comunità ed è importante che, incontrando un confratello, si veda dalla sua tonaca che è una persona che svolge il tuo stesso compito e che merita la comprensione e il rispetto che gli altri devono a te, proprio per il compito che hai assunto. Del resto, la santità insegna che i grandi esempi della vita cristiana sono “speciali” sul piano della loro storia individuale e della loro personalità, pur avendo tutti i monaci raggiunto un traguardo esemplare.
Il monachesimo ha l’impronta umana e ciò comporta che un’individualità va messa vicino alle altre per raggiungere una missione comune.
Ritorna la metafora dell’orchestra. Mi rendo conto che forse avrei dovuto usare, in questo caso, come riferimento concreto il coro. Non conosco monasteri e ordini monastici che non prevedano il coro: il luogo dove la voce di ciascun monaco o monaca cerca le tonalità per cantare le lodi del Signore. Lo strumento è dato dalle corde vocali, dalla cavità della bocca, che fa da cassa armonica. E nessuno è escluso, poiché è come se una voce che si fa coro assuma quell’armonia che sale in cielo e si unisce, forse, ai cori angelici.
Il coro è l’immagine più straordinaria di un monastero, perché ciascuna voce, diversa dall’altra, è usata con lo stesso significato. Viene in mente il canto gregoriano che talora, assomiglia più a una recita che però si fa suono monodico, per cui tutte le voci diventano una voce sola. Tuttavia non si pensi a una deminutio della individualità, poiché subito nel gregoriano antico si alza la voce sola a richiamare la parola di Dio o di un profeta, a cui seguono le acclamazioni del coro. È un esempio di come una voce tenore, un dono che scaturisce dal corpo e che è dato da Dio, si alzi sopra il coro per poi subito confondersi nella voce monodica.
È giustificato dedicare un po’ di attenzione alla personalità e alle doti del monaco come individuo. Lo abbiamo fatto non certo per un atteggiamento che richiami le esagerazioni, che talvolta ci sono nei comportamenti dell’abate, ma per mostrare il gioco tra io e noi, tra individuo e comunità. Questo gioco è una caratteristica del monachesimo necessaria a svolgere, in maniera più ricca, la missione assunta nella cristianità, e al contempo nella società.
Subito, parlando di interno del monastero, si pone la questione di quale sia il significato del monachesimo dentro una società. La clausura che significa “chiusura” all’interno di un luogo che si uniforma al Cielo sia pure sulla Terra, può far sorgere il dubbio che non meriti di essere ritenuta parte della società degli uomini, da cui si è distaccata. Se contribuire alla società significasse farne parte, è chiaro che al monaco, comunque lo si consideri, non si potrebbe attribuire questa funzione.
La formula benedettina dell’ora et labora dovrebbe condurre a precisare che quel labora rientra in una dimensione utile al monaco, al suo corpo che deve muoversi, fare, mentre l’ora richiede semmai di stare inginocchiati, di “dimenticare” il corpo per dare maggiore espressione allo spirito. Una visione che considera il lavoro del monaco una modalità di pregare.
Il termine lavoro non può essere avvicinato all’attività che l’uomo e la donna svolgono nell’ambito sociale, dove diventa una fatica, una necessità, ed è finalizzato agli scopi della società: alla produttività, ad attivare servizi utili a tutta la popolazione, ad esempio la sanità. In questo confronto si potrebbe addirittura consigliare di usare un termine differente. Anche se il lavoro fosse utile alla comunità monastica, si rivolgerebbe a un’unità inutile per la società in generale.
Riporta alla distinzione tra privato e pubblico. Esistono attività che mobilitano il corpo, lo sottopongono a fatiche muscolari notevoli all’interno di un’attività sportiva, di un club in cui si faccia ginnastica oppure si giochi a golf. Non può trattarsi di un lavoro, poiché non ha riflessi diretti sulla vita sociale.
Il monachesimo potrebbe essere considerato uno stile di vita che risponde alle esigenze di un gruppo che, nel praticarlo, non dà alcun apporto alla società.
Esistono valutazioni più radicali di questa, e portano a dire che il monachesimo occupa una posizione parassitaria, nel senso che non dà utili sociali mentre riceve molti vantaggi, a partire dai servizi di cui il monastero necessita, per gli alimenti che non sarebbero possibili senza la società, per servizi a cui i monaci talora devono ricorrere e che non è possibile siano erogati all’interno.
La differenza tra società cristiana e società civile ha notevole importanza. A darne un riferimento estremo basterebbe ricordare che dopo la rivoluzione del 1917 in Russia, con la vittoria del bolscevismo e la caduta dello zar, i monasteri erano considerati non solo inutili ma addirittura un peso per la società socialista, e vennero chiusi e utilizzati come abitazioni, ospedali… luoghi, cioè di significato sociale. Così è accaduto per le chiese che, distrutte nella loro identità, sono state adattate a case del popolo oppure a caserme. Il regime comunista aveva rispettato alcuni monasteri dell’“Anello d’oro”, considerando che il proletariato non era ancora formato per capire un intervento distruttivo di luoghi simbolo che, per secoli, erano stati ritenuti importanti. Era prudente aspettare, ma al contempo, all’interno di ogni monastero, c’era un funzionario del partito comunista che controllava l’attività dei monaci e che schedava tutti coloro che entravano, seguendo la tradizione e non l’apporto della rivoluzione.
Senza giungere a questi estremi che si legano alla visione della religione, che Marx e ancor prima Feuerbach definivano l’“oppio dei popoli” e che Freud aveva diagnosticato come nevrosi collettiva, diventa comprensibile chiedersi quale sia il significato che, almeno oggi, nella nostra società abbia il monastero. Interrogarsi sul significato della società prima e delle istituzioni che ne fanno parte poi, è un criterio auspicabile soprattutto per società che si caratterizzano per la sovrabbondanza, per l’inutile e per lo spreco. È auspicabile però che nella società domini un principio di libertà e di tolleranza e dunque anche di rispetto verso organizzazioni che, sul piano personale, possono essere non apprezzate e considerate inutili. In una società vivace e mutevole questo diventa un principio di grande significato umano. Per farlo risaltare è sempre utile ricordare periodi storici in cui l’intolleranza è diventata lotta e persecuzione.
Posso capire che un ateo non consideri un monaco – ma anche un sacerdote che gira per le strade – una persona utile, ma vorrei fosse consapevole che, simmetricamente, un religioso possa pensare e anche esprimere la propria opinione su chi nega la presenza del trascendente e di Dio nella storia dell’uomo. Il fondamento della tolleranza è l’umiltà, o almeno la mancanza o il controllo dell’arroganza e della superbia. In una società che, sempre più, diventa cosmopolita, apprezzo maggiormente l’atteggiamento di chi, di fronte a un monastero cristiano si chieda il perché non se ne trovi nello stesso contesto anche uno buddista e un altro di fede indù.
Credo che, al di là dell’appartenenza a un qualsiasi credo religioso, il monachesimo rientri dentro l’umano e che, come abbiamo in altra parte già affermato, dell’umanesimo facciano parte la sacralità e, come già sosteneva Platone, anche gli dèi. Si tratta di espressioni che richiamano il mistero e il limite della mente umana a dare risposte ai quesiti che essa stessa si pone.
Anche per chi, come me, crede che la ragione – che l’illuminismo ha voluto mettere a fondamento dell’organizzazione sociale – rappresenti la soluzione più idonea per regolare una società, sarebbe un grave errore però limitarla ai princìpi razionali e negare dimora e senso al mistero, che è lo spazio entro cui si collocano il “credo” e la fede.
Quando la storia ha cancellato questa dimensione, ha innalzato la ragione a Dio (la dea Ragione) e quando l’uomo ha negato la fede in Dio, ha proclamato la fede nell’uomo in quanto dio.
E l’uomo dio è un orrore.
La mia personale posizione è espressa per la simpatia che ho verso i presbiteri, i religiosi e i monaci, di qualsiasi fede...