Erano passate da pochi giorni le Calende di ottobre. Se per gli abitanti delle Gallie e delle due Germanie romane i mesi precedenti non avevano fornito motivi di rimpianto, quelli a venire si annunciavano ancora più dolorosi. I cittadini di Mogontiacum, in particolare, avevano piena consapevolezza che l’inverno imminente, il secondo di guerra sanguinosa, avrebbe portato con sé gravissime privazioni, per via della carenza di generi alimentari che affliggeva la Germania superior dopo un anno di saccheggi e devastazioni. Anche se la campagna estiva che Metronio Stabiano aveva felicemente condotto a termine contro i Turingi aveva consentito di respingere oltre il Reno un’ultima ondata d’invasione, costringendo i barbari a garantire la tregua con la consegna di ostaggi, una parte non piccola dei raccolti era andata perduta, non solo per le razzie e gli incendi, ma soprattutto per la mancanza di manodopera, a causa della fuga di molti schiavi dalle tenute agricole e dalle stesse terre demaniali. Enormi erano state anche, nelle campagne sconvolte, le perdite di bestiame, razziato in massa dai barbari fin dal settembre dell’anno precedente. Con le piogge autunnali era arrivata dunque la carestia. Nelle città sovraffollate delle Gallie e delle due Germanie il caos era tale da rendere praticamente impossibile qualunque forma efficace di razionamento delle poche riserve alimentari disponibili, delle quali, là dove era presente, l’esercito si prendeva la parte del leone. Inutili, naturalmente, i tentativi di calmierare i prezzi delle merci.
A Mogontiacum, la situazione era aggravata dall’afflusso di migliaia di rifugiati provenienti dalle campagne e dai villaggi devastati, gente che non aveva più nulla e che per lo più viveva ora, in condizioni di estrema indigenza, nei quartieri lungo il fiume e attorno al porto, scarsamente aiutata dalle elargizioni pubbliche e dalla beneficenza privata. Ne era derivato un incremento esponenziale di mendicità, furti e prostituzione, con serie conseguenze per l’ordine pubblico. Le possibilità di approvvigionamento in altre provincie erano scarse, perché la strada militare verso il meridione, dalla quale si diramava anche quella per Lugdunum, rimaneva insicura, in quanto l’impossibilità di contrastare efficacemente gli sbarchi di bande di barbari di qua dal fiume rendeva estremamente pericoloso il trasporto dei rifornimenti, che avrebbe imposto l’adozione di scorte militari sproporzionate, mentre quella verso Treveri era bensì aperta, ma praticamente senza traffico di merci, poiché il territorio devastato della Belgica non forniva nemmeno derrate sufficienti per la propria popolazione. Anche la via fluviale era poco praticabile, dal momento che i battelli sul Reno potevano facilmente essere abbordati dagli Alamanni, che controllavano la riva destra e la foce del Neckar.
Dal punto di vista militare, dunque, la situazione non era granché migliorata rispetto all’autunno precedente. Gli scontri con gruppi di scorridori erano frequenti, e nulla sarebbe cambiato finché i barbari avessero potuto fare assegnamento sulla scarsità delle forze romane e su una serie di punti d’appoggio di qua dal Reno. Legionari e ausiliari della Ventiduesima lavoravano intensamente alla costruzione di una rete di avamposti e torri di avvistamento sul territorio, con ridotti presidi di soldati ausiliari, mentre le poche navi di Emilio Aziano – tutto ciò che rimaneva della flotta fluviale dopo che i Franchi avevano praticamente accerchiato e isolato Colonia Agrippina – facevano il possibile per pattugliare il fiume e impedire o contrastare nuovi sbarchi. Di più non era possibile fare, non essendovi forze sufficienti né per un’azione oltre il fiume né per una marcia verso occidente nel tentativo di liberare le Gallie, percorse in lungo e in largo da decine di migliaia di barbari che la facevano da padroni. Il nuovo imperatore Aurelio Probo, impegnato in oriente in una interminabile guerra con i Goti, aveva promesso il suo soccorso per la primavera, ma pochi confidavano nella sua capacità di tenere fede a tale impegno.
Uno di costoro era Valerio Metronio Stabiano. Avendo combattuto in oriente sotto Probo, allora soltanto comandante di legione, aveva avuto modo di conoscerlo abbastanza per sapere che era uomo da mantenere le proprie promesse. Da lui, in effetti, aveva imparato molto, e a lui doveva anche molto: era stato proprio Probo, durante la guerra di Palmira, a fargli ottenere il grado di centurione, dando l’avvio all’ultima, fortunata fase della sua carriera militare, che lo aveva visto, dopo il trasferimento nella Germania superior, diventare primo tribuno e comandante vicario della Ventiduesima Legione. Ancora da Probo, ormai imperatore, Stabiano aveva infine ricevuto in agosto, mentre ancora si combatteva, la designazione a prefetto di legione e legato imperiale pro tempore nella provincia, in sostituzione del legato Cecilio Balbieno, caduto in battaglia: indubbiamente un bel salto nel suo cursus honorum, considerata la modestia delle sue origini. A causa delle vicende della guerra, il suo insediamento formale al Pretorio di Mogontiacum aveva avuto luogo soltanto ai primi di ottobre, lo stesso giorno in cui, finalmente riunita nel castrum a ranghi completi, la Ventiduesima Legione aveva giurato fedeltà al nuovo imperatore. Quella sua affermazione personale non era stata salutata da tutti con gioia, ma lui non se n’era stupito, essendo pienamente consapevole di essere, agli occhi dei clarissimi della provincia, un homo novus, venuto dalla gavetta e dunque libero da debiti di qualunque genere nei loro confronti. Effettivamente, non furono molti coloro che, nei giorni seguenti, si recarono a fargli visita al palazzo Pretorio per presentargli personalmente le proprie felicitazioni. Due, comunque, non avrebbero potuto farne a meno: il prefetto dell’Erario Plauzio Tanfilio, che teneva nelle sue mani tutta l’amministrazione civile della provincia, e il decano dei giureconsulti, Galerio Prisco, che aveva fra le proprie incombenze, non essendo stato assegnato un pretore alla città, anche l’istruzione dei processi civili e penali. Entrambi lo fecero nella stessa mattinata.
Tanfilio fu ricevuto per primo. Annunciato da Didico, entrò nell’ufficio di Valerio col passo leggero di uno sciacallo. Subito, invitato ad accomodarsi sulla sedia posta davanti alla scrivania, si sedette e sfoggiò tutta l’affabilità di cui era capace, senza minimamente accennare ai loro precedenti contrasti. Al contrario, dopo essersi felicitato con Valerio, gli offrì la sua completa collaborazione e quella dei funzionari civili a lui sottoposti. Il colloquio veleggiò lungamente su temi generici, anche se tutt’altro che di secondaria importanza, date le gravi difficoltà dell’Erario nel riscuotere le imposte nelle drammatiche circostanze che la provincia stava attraversando. Quando Valerio credeva che Tanfilio fosse ormai sul punto di prendere congedo, questi assunse un’aria pensosa e, aggiustandosi i panneggi della toga, osservò: «Del resto, l’assenza di un governatore si è fatta sentire anche sotto altri aspetti, in questi mesi, e non senza turbamenti per la pubblica opinione».
«A cosa ti riferisci?» domandò Valerio facendosi più attento.
Il prefetto dell’Erario fece un cenno rassicurante con la mano e proseguì: «Oh, niente di particolarmente grave, intendiamoci; solo… come dire, degli attriti fra i pubblici poteri».
«Sarebbe a dire?»
Le aristocratiche sopracciglia di Tanfilio si sollevarono sulla fronte eburnea, a significare il suo stupore. «Mi sorprende che tu sia del tutto all’oscuro. Pensavo che al campo ti fosse pervenuto un rapporto.» Vedendo che il legato non rispondeva, aggiunse: «Ma sì, mi riferisco al processo per peculato che è stata intentato nei confronti di Cecilio Favonio».
Valerio rammentò: di quella faccenda gli aveva scritto al campo il vecchio Prisco, circa due settimane prima. Favonio, un liberto di Cecilio Balbieno al quale era stata affidata la cura degli approvvigionamenti di pellami e calzature per l’esercito, era accusato di essersi appropriato, falsificando la documentazione, di una parte delle scorte, e di averle rivendute in proprio con non poco profitto.
«Dal campo non mi era possibile seguire minutamente quanto avveniva in città. Fino a ieri, del resto, avevo soltanto il comando della Legione. Sapevo che Favonio era sotto indagine, non che fosse già stato avviato il giudizio.»
«Purtroppo è così, invece. Giusto per dopodomani è prevista l’estrazione a sorte del giudice.»
«Capisco» si limitò a dire Valerio.
Tanfilio si mosse sulla sedia. «Oh, naturalmente, i nostri giudici sono tutti uomini di specchiata onestà e profonda competenza giuridica, tuttavia…»
«Tuttavia?»
«Be’, intendimi bene, Valerio Metronio. Non è mia intenzione contrastare in alcun modo l’esercizio della giustizia. Il fatto è che, come ricorderai, Favonio è un liberto del tuo defunto predecessore, e i sospetti su di lui potrebbero facilmente gettare un’ombra sulla memoria del valoroso Balbieno.» Lisciandosi il mento con la mano inanellata, e fissando attentamente Valerio, il prefetto concluse: «Non credi che sarebbe opportuno evitare che questo accada?».
Corrugando la fronte, Valerio si domandava quale fosse il vero intento di Tanfilio: la sua preoccupazione per la memoria di Balbieno – in sé lodevole – gli appariva sospetta, poiché non era in linea con la sua indole individualista e rapace. Colto di sorpresa, si strinse nelle spalle. «Prima di tutto, non è detto che Favonio sarà condannato.»
Tanfilio fece con il capo un cenno di condiscendenza. «Questo è vero: le accuse nei suoi confronti sono fondate solo sulla testimonianza di artigiani esclusi dalle forniture, e su poco d’altro; tuttavia, il clima generale non gli è favorevole. In città si va cianciando di corruzione con una leggerezza preoccupante. In realtà, nella cupezza dei tempi che viviamo, si registra un incremento della criminalità, un aumento dei processi penali e un generale degrado della convivenza, e a mio modesto avviso l’ordine pubblico non può trarre alcun vantaggio da processi contro pubblici funzionari.»
La risposta di Valerio fu prudente: «Certo, una condanna di Favonio sarebbe un fatto spiacevole. Tuttavia… tu comprendi: le leggi di Roma devono essere rispettate ovunque nell’impero, e l’autonomia dei giudici…».
Assumendo un’espressione allarmata, Tanfilio lo fermò con un pronto gesto della mano: «Non fraintendermi, Valerio Metronio. Non intendevo certo sollecitarti a fare pressione sui giudici. Questo è fuori discussione. Tuttavia…».
«Tuttavia…? Tu sei uomo navigato e giurista esperto. Cosa consigli?»
«Tu mi onori al di là dei miei meriti, Valerio Metronio! Non mi avventurerò certo nel fornirti consigli in materia di giurisdizione penale. So, però, che la supervisione sulle cause penali spetta al proconsole, e che quest’ultimo ha facoltà di nominare un collegio giudicante specifico, con apposita procedura. È una soluzione già adottata più volte, in passato.»
«Ciò avrebbe l’effetto di attribuire ancora più importanza al processo.»
«È vero, ma in compenso ti consentirebbe di scegliere giudici, diciamo così… di provata ragionevolezza, mi spiego?»
Qui Tanfilio si interruppe e si alzò dalla sedia. Sistemandosi di nuovo con scrupolo la toga, concluse con un soave sorriso: «A ogni modo, com’è giusto, lascio a te tali preoccupazioni».
Valerio, alzandosi a sua volta, puntualizzò seccamente: «Credo che tu non possa fare niente di meglio. In ogni caso, apprezzo il tuo avvertimento: nessuno più di me, in questa provincia, è devoto alla memoria di Cecilio Balbieno. Comunque, niente sarà fatto contro il volere delle leggi».
Tanfilio abbozzò. «Sono certo che deciderai per il meglio. È importante non sovraeccitare la pubblica opinione. Converrai con me che, in tempi di guerra come questi, l’ordine è la principale necessità da salvaguardare. Tra l’altro» soggiunse guardandosi le unghie ben curate «già si odono le solite mormorazioni contro l’esosità dei tributi, la pretesa ingiustizia delle requisizioni, i privilegi dell’esercito e, tanto per cambiare, presunti imboscamenti e speculazioni. La gente non si rende conto di quanto siano gravi le difficoltà degli approvvigionamenti e indirizza il suo livore contro i funzionari pubblici e le persone di rango.»
Valerio, che si stava ancora interrogando su tutto quanto il Prefetto gli aveva detto fino a quel momento, si mosse per accompagnarlo alla porta. Quell’ultima perorazione aveva fatto affacciare nella sua mente l’intuizione che Tanfilio fosse preoccupato per qualcosa che lo riguardava molto più da vicino. Sapendolo largamente cointeressato, attraverso alcuni suoi liberti, nel commercio dei grani nella regione, si rendeva conto che in quel momento non gli stava parlando come magistrato, ma come affarista. Nel rassicurarlo, volle dargli un avvertimento: «Tu hai ragione, Tanfilio, e dunque è doppiamente necessario che, in queste gravi circostanze, la gestione degli ammassi risulti efficiente. Sono certo che i tuoi funzionari sapranno accortamente vigilare sulla situazione annonaria, reprimendo imboscamenti e immotivati aumenti dei prezzi. Da parte sua l’esercito, in questi mesi, ha fatto ogni sforzo nelle requisizioni e per assicurare la sua protezione ai convogli dei rifornimenti, ma sta’ pur certo che saprà punire severamente, all’occorrenza, sia i fomentatori di disordini sia gli appaltatori che si mostrassero disonesti o, diciamo così, troppo furbi. Nessuno in città deve ignorare che la provincia intera è sotto la legge marziale».
A quelle parole il prefetto non batté ciglio, tuttavia preferì non insistere sull’argomento e, dopo essersi detto completamente d’accordo con Valerio, lo salutò. Quando la porta dell’ufficio si fu richiusa dietro di lui, il legato preferì aprire la finestra, per liberare la stanza dall’acuto profumo che quell’uomo vi aveva lasciato.
La visita di Galerio Prisco gli riuscì più gradita. Afflitto dall’artrosi, il vecchio senatore si muoveva lentamente e un po’ rattrappito, ma i suoi occhi erano vivi e attenti. «Mi è stato detto che hai rinunciato agli usuali riti di insediamento» esordì, appena Valerio lo ebbe fatto accomodare di fronte a sé.
«Sì, ho rinunciato a quasi tutte le formalità: la mia nomina è solo temporanea. Inoltre, nelle circostanze eccezionali nelle quali ci troviamo, non sarebbe davvero il caso di indulgere in festeggiamenti ed elargizioni. Comunque, non mancherò certo di offrire i sacrifici propiziatori d’uso.»
Prisco assentì: «Certo, e spero proprio che gli dèi patri ti siano propizi, perché avrai bisogno di tutto il loro sostegno.»
«Già, la guerra sarà ancora lunga, purtroppo.»
«Non mi riferisco solo alla situazione militare, Valerio.»
«Che vuoi dire?»
«Be’, penso alla nobilitas di origine gallica. Tu sai, immagino, che Tanfilio e la sua congrega non ti ...