Fulvia Dolcinia si alzò a sedere sulla paglia, trasse un profondo sospiro e si stropicciò gli occhi. Rimase un momento ferma, con i gomiti sulle ginocchia e le mani affondate tra i capelli arruffati. Accanto a lei, Uro e Clusivio ronfavano ancora. Un raggio di sole che filtrava tra le grate di una finestra posta in alto, sopra il portone d’ingresso del fienile, fendeva l’oscurità e scendeva a illuminare i muli nello stabbiolo. Gli uccelli cantavano allegramente, là fuori, e ciò significava che aveva finalmente smesso di piovere. Era meglio non perdere tempo, allora. Si alzò stiracchiandosi e battendosi qua e là le brache con le mani per liberarsi dei fuscelli di paglia; poi, avvicinatasi alla grande porta, tolse il paletto e gettò un’occhiata all’esterno.
Davvero, quella si annunciava come una splendida giornata. Dopo le piogge dei giorni precedenti, il cielo era terso: solo pochi cirri bianchi e sfilacciati dal vento si allontanavano verso levante. La luce dorata del mattino accarezzava il paesaggio restituendogli i colori della primavera. I ciliegi e i mandorli che il proprietario della fattoria – fuggito chissà dove per paura della guerra – aveva piantato nei prati vicini erano entrati in piena fioritura e l’erba dei prati, alta perché sfuggita alla falce del bifolco, risplendeva di un verde opulento, reso brillante dalla pioggia recente. E il verde trionfava, ormai, anche nei boschi che intervallavano la campagna e rivestivano le basse colline all’orizzonte. Da ogni zolla, da ogni radice, da ogni pozza sembrava salire un incontenibile flusso di vita.
Uscì all’esterno, le mani sui fianchi, e respirò l’aria fresca a pieni polmoni. Diede un’occhiata in giro e, poiché tutto sembrava tranquillo, raggiunse la cisterna piena d’acqua, attingendo alla quale si sciacquò il viso più volte; infine, con passo rapido, rientrò nel fienile. Sferrò un calcio al vecchio Uro, che si svegliò bofonchiando e si alzò lentamente a sedere, con i palmi delle mani piantati nel giaciglio, i capelli corti e ricci pieni di pagliuzze. Clusivio, investito in pieno dal riquadro di luce del portone spalancato, si accartocciò invece ancor di più sotto la coperta.
«Forza, poltroni! Io sono in piedi già da un pezzo, sapete! Datevi una lavata là fuori e poi aggiogate i muli.»
Uro si alzò in piedi sbadigliando, mentre il suo compagno, indispettito, allontanava rabbiosamente la coperta.
«Non piove più?»
«No, finalmente. E dobbiamo approfittarne per recuperare; dobbiamo farci una bella sgroppata, perciò cercate di non perdere tempo. Stasera non voglio dormire ancora per terra.»
«Va bene, va bene» borbottò Uro, mettendo in moto il suo enorme corpo verso l’esterno. Si trovavano ormai a una quindicina di miglia da Mogontiacum, che avrebbero già raggiunto dal giorno prima se lei, lasciato il borgo fortificato di Bingium, non avesse voluto allungare il percorso per visitare un paio di villaggi dell’interno, allontanandosi dalla strada militare percorsa all’andata. L’avrebbero comunque ripresa nel pomeriggio, raggiungendo la città prima di sera.
Mentre faceva pipì accoccolata dietro un corniolo, la rossa osservava tra i rami i suoi servi, intenti a mettere i due muli sotto il basto. Uro non era certo un fulmine d’intelligenza, ed era vecchio, ormai; ma l’aveva protetta fin da bambina: la metà delle molte cicatrici che segnavano il suo volto ottuso ne costituivano la testimonianza. Per questo lei continuava a portarselo dietro come uomo di fatica e guardia del corpo. Quanto allo smilzo Clusivio, la seguiva principalmente per avere la sua razione giornaliera di birra. Muto com’era (il suo precedente padrone gli aveva fatto strappare la lingua da ragazzo, ma lei non aveva mai capito bene il perché), non le era di alcun aiuto nel trattare con i suoi clienti, valeva poco come uomo di fatica e ancor meno sarebbe risultato utile in caso di pericolo. In compenso, conosceva perfettamente i sentieri di quei boschi e, particolare non trascurabile, nessuno, barbaro o romano, avrebbe mai potuto farlo parlare dei suoi traffici, non sempre conformi alle leggi di Roma. Del resto, aveva preferito portare con sé quei due, che conosceva sotto ogni aspetto, piuttosto che affidarsi a un paio di giovani schiavi che avrebbero potuto approfittare dell’occasione per prendere la fuga o farsi venire strane idee, soprattutto di notte.
Come già il giorno prima, salì a cassetta del carro, mentre Clusivio, sul suo cavallo germanico, prese la testa del gruppo andando in avanscoperta. Uno schiocco di frusta nell’aria e i muli partirono decisi, imboccando il largo sentiero fangoso. Distanziato di un centinaio di passi, Uro chiudeva il corteo montando il robusto frisone della sua padrona. Dolcinia teneva le redini dei suoi muli, godendosi il vento fresco sul viso e ritrovando, per un momento, il genuino piacere che sempre, fin da bambina, aveva provato scorrazzando per quei luoghi da un villaggio all’altro: a quei tempi, ogni volta che le ruote del carro si mettevano in moto era per lei l’inizio di una nuova avventura.
Era impaziente di ritornare. Quello era stato il suo primo viaggio nell’interno dopo l’inizio della guerra, e non era stato dei più proficui. Aveva raggiunto tutti i villaggi tra Mogontiacum e Treveri, fermandosi diversi giorni nella capitale della Belgica con l’intento di riallacciare i suoi rapporti di commercio, che la guerra aveva sconvolto, ma aveva incontrato difficoltà enormi. Come ogni anno aveva portato ambra, pellicce e sale, comprati già da tempo dai frisoni del Delta. Se aveva potuto vendere a prezzi altissimi il sale, per l’ambra e le pelli aveva trovato pochi clienti; a Treveri aveva potuto fare incetta a basso prezzo di argenteria e vasellame di pregio, svenduti da gente sull’orlo della disperazione, ma per la lana, i tessuti, le porcellane e svariati altri articoli non aveva trovato fornitori. Se non avesse portato da lì alcune anfore di vino della Mosella, il suo grande carro sarebbe tornato semivuoto, questo era un fatto.
Dopo l’uragano che l’aveva attraversata in ottobre, la regione faticava a risollevarsi, anche perché il pericolo non era stato per nulla debellato e l’inverno aveva soltanto portato una tregua. Gli Alamanni erano andati a svernare più oltre, in Sequania e nella valle del Rodano, taglieggiando le popolazioni presso le quali si erano fermati. Ne era derivato un flusso di profughi affamati e disperati, non sempre bene accolti dalle popolazioni trincerate nei borghi fortificati, gelose delle proprie riserve granarie. Era un dramma di dimensioni gigantesche, del quale nessuno intravedeva la fine, anche perché le infiltrazioni dei barbari erano continuate anche nei mesi invernali. Nella primavera ormai in pieno rigoglio, anche in quella zona relativamente sicura c’era il rischio di incontrare piccole bande, spesso composte di guerrieri giovanissimi, che venivano a unirsi alle orde di Childebert e Ulderich, o gruppi che, all’opposto, avevano già preso la via del ritorno e rubavano nei piccoli villaggi o assalivano i viandanti isolati, sfuggendo quasi sempre alle pattuglie della cavalleria romana. Dunque, non erano molti coloro che osavano mettersi per strada per spostarsi da una città all’altra, ma lei era fra questi, poiché nessuno sarebbe riuscito a tenerla inchiodata nella sua locanda, impedendole di curare i suoi affari. Preoccupata per l’interruzione dei suoi commerci, aveva deciso di fare personalmente un giro esplorativo in quella regione che conosceva in ogni anfratto: tutte le strade, tutte le piste e le scorciatoie, tutti i guadi e tutti i ponti, tutte le stazioni di posta e tutti i villaggi fortificati, tutti i covi di fuorilegge.
Aveva percorso quelle strade per quasi vent’anni, portando sui suoi carri ogni sorta di mercanzia. Conosceva bene anche la riva destra del Reno e la regione del delta e parlava perfettamente diversi dialetti germanici. Era sempre ben accolta nei villaggi barbari, perfino in tempo di guerra, e aveva un innamorato o un amante in ciascuno di essi. Le autorità romane, periodicamente, erano colte dal dubbio che facesse dello spionaggio a favore dei barbari; d’altro canto, ogni volta che le avevano chiesto di passare informazioni su ciò che avveniva dall’altra parte del grande fiume, avevano sempre ottenuto poco o niente. La verità era che Dolcinia si interessava di politica internazionale solo nei limiti in cui essa poteva influenzare i suoi commerci, ma per il resto badava solo ai propri affari, trattando con gli esseri umani, e amandoli, se capitava, senza alcun preconcetto e con assoluta e disinvolta equanimità.
Conosceva tutti i segreti della frontiera. Ne aveva fatto un intenso apprendistato da bambina, seguendo il carro di suo padre, e quando poi questi era stato ucciso in una rissa aveva preso lei le redini dei suoi commerci. In pochi anni aveva moltiplicato i capitali ed era riuscita ad aprire uno spaccio e una locanda a Mogontiacum, associandosi con uno sciocco birraio che aveva poi sposato, benché l’uomo avesse quasi vent’anni più di lei. Con sollievo di molti uomini della Renania il birraio, che del resto non aveva mai goduto del monopolio delle grazie di quella rossa incontenibile, si era ammalato presto di fegato e, morendo, l’aveva lasciata padrona della locanda e di una fiorente impresa commerciale, che lei gestiva personalmente con impegno infaticabile, poiché non sapeva privarsi del piacere della contrattazione e dell’imprevisto delegando ad altri i propri affari. Se non fosse stato così, non si sarebbe trovata, a quasi trent’anni, a caracollare ancora su un grosso carro cigolante su una pista infangata, in compagnia di due balordi, in quel territorio pieno di pericoli.
Il terzetto fece una sosta verso metà mattinata, trovando riparo in una macchia, per fare riposare i muli, poi ripartì verso mezzogiorno. I muli trottavano giudiziosamente, sollevando schizzi di fango dalla stradicciola che si inoltrava tra le querce. Guardando davanti a sé sulla pista, che discendeva tortuosa verso una radura già visibile dall’alto, Dolcinia teneva d’occhio Clusivio, che con il suo brocco faceva da battistrada, e intanto si chiedeva per l’ennesima volta se non fosse ora per lei di smetterla di comportarsi da scavezzacollo. Ormai avrebbe potuto benissimo assumere degli intendenti e riposarsi un po’. Anzi, a ben vedere, avrebbe anche potuto permettersi di vivere da signora, se solo lo avesse voluto. Da anni stava accarezzando l’idea di comprare una bella residenza in campagna, e con la guerra non le sarebbe stato difficile rilevarne una a buon prezzo da qualche patrizio fuggito in città con armi e bagagli e bisognoso di denaro. A quel punto si sarebbe ritirata, per godere il suo otium come una vera matrona, una vedova romana. Vedova, del resto, lo era davvero. Quanto poi all’essere signora... be’, su quel fronte – doveva riconoscerlo – i suoi trascorsi erano alquanto turbolenti, per non parlare del suo albero genealogico, che era veramente impresentabile. Eh, quelle belle dominae romane con la pelle liscia e le mani delicate che spesso si servivano da lei per tappeti, vasellame, profumi e monili non si erano certo trovate orfane a tredici anni, senza casa e con un vecchio carro sgangherato pieno di vino avariato e un mulo decrepito come unica ricchezza. Non sapevano, loro, cosa volesse dire coricarsi d’abitudine la notte, nelle stalle, a pancia vuota, con un occhio aperto e lo stiletto alla cintola per tenere lontane le zampacce dei carrettieri...
Certo, da allora ne aveva fatta di strada, quella mocciosa piena di lentiggini, e ora, a ben vedere, era finalmente arrivato il momento di godersi i frutti di una vita di fatiche e di avventure d’ogni genere. Sì, quello sarebbe stato l’ultimo viaggio. D’ora in avanti...
Superata una svolta, stava entrando nella radura quando intuì, più che vedere, qualcosa fendere con un fischio l’aria davanti a lei, e subito vide Clusivio sobbalzare sulla sella portandosi le mani alla testa e poi scivolare mollemente sul sentiero, quasi al centro della radura. D’istinto tirò le redini, rallentando la corsa dei muli e guardando ansiosamente attorno a sé, mentre il cuore cominciava a batterle a mille.
«Clusivio!» chiamò più volte, ma il suo servo non accennava a risollevarsi. Poi vi fu un rumore di rami spezzati e due cavalieri, a destra e a sinistra del carro, uscirono dalla macchia e galopparono nella sua direzione.
«Uurooo!» chiamò, gridando a pieni polmoni.
Un centinaio di passi più indietro, l’enorme arverno, che non aveva potuto veder nulla, trasalì e diede di sprone, afferrando l’accetta che teneva appesa all’arcione. Mentre il suo cappellaccio volava chissà dove, sbucò al galoppo dall’ultima svolta del sentiero e non ebbe nemmeno il tempo di vedere il giovane che, uscendo da dietro un albero, lo colpì con un ramo nodoso in piena fronte. Per una frazione di secondo ebbe la sensazione di avere sbattuto contro un muro: disarcionato, cadde impigliandosi nelle redini e trascinando il cavallo nel fango del sentiero. Dal nitrito dell’animale, Dolcinia intuì che qualcosa era accaduto alle sue spalle. I due cavalieri erano ormai a pochi passi da lei: vestiti di pelli di montone, impugnavano minacciosamente le loro lance. Sembravano giovanissimi; quello alla sua sinistra le parve anzi poco più che un bambino, ma certo non venivano per giocare.
Lei, però, non era tipo da arrendersi senza lotta. Non c’era più tempo per ridare slancio ai muli. Non poteva nemmeno più prendere la frusta ai suoi piedi; cercò allora il badile che teneva dietro lo schienale, lo impugnò e sferrò una tremenda piattonata sul muso del cavallo del ragazzino, che si impennò con un nitrito di dolore disarcionando il suo cavaliere. Dolcinia cercò di prenderlo per le redini mentre saltava dal carro, ma mancò la presa e ruzzolò nel fango. Si rialzò subito imprecando, giusto per vedere che adesso gli avversari erano tre: due, a cavallo, le caracollavano attorno sospingendola all’indietro, mentre il ragazzo disarcionato cercava ancora nella mota la propria arma. Cadde nuovamente, sul sedere questa volta, e prima che potesse rialzarsi si vide tre lance puntate alla gola. Erano smontati tutti, ora, e stavano di fronte a lei.
“Stavolta è finita’’ pensò, e li guardò uno per uno, nello spazio di un attimo. Erano giovanissimi, senza un pelo di barba; dal ciuffo di capelli che portavano dedusse che erano svevi. La fissavano con il braccio levato, brandendo le lance pronte a colpire, ma esitavano. Rilevò una notevole somiglianza tra i due più grandi: dovevano essere fratelli, gemelli forse. Chi aveva conosciuto, anni prima, che aveva due figli gemelli? Purtroppo, non c’era tempo per spremere la memoria. Arretrò nel fango, strisciando sui gomiti e ansimando, mentre i ragazzi avanzavano ancora, senza però sapersi decidere a finirla. Intravedendo un barlume di speranza, parlò loro in dialetto alamanno: «Bene, ragazzi, me l’avete fatta, eh? Ma forse... non era necessario arrivare a questo... Capite quello che vi dico? Siete svevi, no?».
I tre si scambiarono uno sguardo perplesso, ma non mutarono il loro atteggiamento. Spiando attraverso la barriera delle loro gambe, la rossa vide che, a circa cinquanta passi, Uro si stava lentamente rialzando: doveva continuare a parlare, doveva guadagnare tempo. «Insomma: possiamo ancora trovare un accordo, credo» disse sforzandosi di sorridere e cercando di non guardare più in quella direzione. «In fondo, il carro è lì, no? È pieno di roba, sapete? C’è anche del vino, e...»
«Quella...