'O Mae' - Storia di Judo e di camorra
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'O Mae' - Storia di Judo e di camorra

  1. 256 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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'O Mae' - Storia di Judo e di camorra

Informazioni su questo libro

Filippoha quattordici anni e undestino segnato. Abita a Scampia, dove il futuro gli dà una sola possibilità: entrare nel Sistema, la camorra.Suo fratello Carmine, infatti, èaffiliato al clan del boss Toni Hollywoode lui lavora come sentinella.Un pomeriggio, però, suo zio glichiede di accompagnarlo alla palestradi judo di Gianni Maddaloni.A Filippo quei ragazzi checombattono in "pigiama" all'iniziosembrano ridicoli. Con il tempo, però, il judo gli insegna a guardarele cose in modo nuovo, e prestoil ragazzo sarà costretto a sceglieretra il clan di Toni Hollywood equello dei Maddaloni. Tra la vascadi marmo nero a forma di conchigliache ha visto nella villa del bosse i fenicotteri che un tempo popolavanoil parco e che i "guerrieri inpigiama" promettono di riportarea Scampia.

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Informazioni

Print ISBN
9788856620627
eBook ISBN
9788858513651

1

ZIO BIANCO

Tutto cominciò il giorno di settembre in cui zio Bianco venne a prendermi a scuola per farmi conoscere ’o Maé. Ma a scuola non c’ero perché non ci andavo quasi mai. Quella mattina facevo il turno ai Sette Palazzi. La sentinella. E, se vogliamo dirla tutta, zio Bianco non si chiamava neppure zio Bianco, ma Antonio. Lo chiamavo così perché teneva sempre la farina addosso.
A zio Bianco piaceva faticare, aveva un forno in via Baku. Impastava tutta la notte e di giorno se ne stava sul gradino a parlare con la gente che passava, in canottiera anche quando si gelava, una bustina in testa e un velo di farina addosso. Non dormiva mai.
Aveva sempre un panino in mano da sgranocchiare che poteva durargli anche cinque ore perché gli dava dei morsi piccoli, delle beccate da piccione, come se soffrisse a finirlo. Gli piaceva sentirselo in mano. Infatti me lo ripeteva sempre: «Filippo, ricordati, devi trovarti un lavoro che ti lasci in mano qualcosa».
«I soldi» dicevo io.
«Non i soldi, una cosa. I soldi non sono una cosa. Sei uomo solamente se puoi prendere in mano la fatica del tuo lavoro. Io tutte le mattine all’alba che respiro il mio pane appena uscito dal forno, sono felice. Facessero un dopobarba al pane Cafone, mi raderei ogni cinque minuti.»
E lo diceva con un sorriso da zombie delle Vele.
A Scampia lo pensavano tutti: zio Bianco era un brav’uomo. Il bello è che lo dicevano con una frase che stava addosso a zio Bianco come il vestito su misura di un sarto di via Filangieri a Chiaia: un pezzo di pane.
L’ho detto: Scampia, Napoli nord. E abito alle Vele. Ok, scatenatevi pure… «Poverino… Come fa un bambino a crescere in quell’inferno?» Ve lo siete già chiesti, vero? E vi saranno già esplose in testa le solite immagini: degrado, case allo sfascio, tubi che perdono, topi che corrono sulle siringhe, monnezza, e poi naturalmente gli zombie nelle cantine che hanno paura della luce come i vampiri e si ammazzano di sogni. E gli sbirri che saltano giù dalle auto in corsa, vestiti normali per non sembrare sbirri, e cercano di arrestare quelli che vendono i sogni e che diventano ricchi come calciatori.
Quante volte l’avete visto in televisione questo film?
Ogni cinque minuti qui da noi arriva qualcuno con una telecamera in groppa e si diverte come fosse a Disneyland. La Disneyland dello schifo (abbiamo pure delle case basse che chiamano “case dei Puffi”). Più schifo possono riprendere, più si divertono. Pagano anche il biglietto d’ingresso. Ci sborsano un bel po’ di euro per avere il permesso di filmare. Noi gli facciamo vedere i tubi che perdono, i topi che corrono sulle siringhe, i palazzi a pezzi, ’a monnezza, qualche zombie che si droga, i portoni d’acciaio anti-retata che blindano i palazzi, e loro sono tutti contenti.
Ma Scampia non fa schifo. È il mio quartiere, è la mia terra, è la mia gente. Io la amo più di Disneyland che è finta e non vale niente. Dalla mia casa alle Vele io non me ne voglio andare, anche se sono diventate l’attrazione numero uno di Disneyland, il monumento allo Schifo.
I vostri tubi magari non piangono, ma vivete dentro palazzi che sembrano pacchetti di sigarette e non andrete mai da nessuna parte, il mio invece ha la forma di una vela e punta il cielo, basta rimetterlo a posto e un giorno prenderà vento, attraverserà il Golfo di Napoli, solcherà l’oceano e arriverà fino alla Statua della Libertà.
Erano sette le Vele, ne hanno abbattute quattro, ne sono rimaste tre. Come le caravelle.
Anche Scampia basta rimetterla a posto. Alla televisione non dicono mai che abbiamo un parco urbano che è il più grosso di tutto il Sud e che lì un tempo c’erano laghetti bellissimi, giochi d’acqua, perfino una cascata e ci venivano a bere i fenicotteri. Eravamo il giardino di Napoli. Basta rimettere tutto a posto. Mio papà allevava un falco sul tetto della nostra Vela. Quando apriva le braccia tra le antenne e il falco gli volava sul braccio, sembrava dio.
Poi gli sbirri hanno liberato il falco e messo in gabbia papà. A stare a sentire i giornali sono figlio del diavolo. Faceva così paura che non si fidavano del carcere di Poggioreale e lo hanno rinchiuso al di là del mare, in Sardegna. Così non posso neppure portargli il pacco delle cose. Ci scriviamo. All’inizio di questa storia, non lo vedevo da sette anni.
Strano quel giorno di settembre perché zio Bianco non aveva un filo di farina addosso, ma una cravatta che gli si arricciava sotto la gola come la carta delle uova di Pasqua. Io avevo appena staccato ai Sette Palazzi.
– Matrimonio o funerale? – domandai.
Né l’uno né l’altro. Era semplicemente la sua nuova divisa da lavoro. Un lavoro di “direzione e controllo”, mi spiegò restando molto sul vago.
– Cosa puoi prendere in mano con un lavoro di direzione e controllo? – gli chiesi subito.
– Solo soldi – mi rispose con la tristezza di uno sconfitto. – Ma nella vita non sempre puoi fare quello che ti piace.
Mio fratello mi avrebbe chiarito le idee.
Zio Bianco aveva sposato una ragazza bellissima che mi aveva sempre colpito per le unghie rosse. A qualsiasi ora la incontravi, pareva che se le fosse appena dipinte. Nei giorni di sole la riconoscevi da lontano per il bagliore delle mani. Zio Bianco e zia Rossa. Lui l’amava come il pane. Si vedeva. A casa, invece, si parlava sempre del loro matrimonio storcendo il naso e ogni volta saltava fuori mia madre a dire: «Troppo giovane».
Comunque, la famiglia di zia Rossa era di quelle che contavano parecchio nel Sistema. Per le nozze, a zio Bianco arrivò in dono la panetteria e mi sembrava l’uomo più felice del mondo. Poi però il Sistema si è presentato a dirgli: ascolta, Antonio, smettila di giocare con il pane Cafone, datti una spolverata e vieni a lavorare che c’è bisogno. Cos’era successo? Gli sbirri avevano fatto una bella retata a Scampia e dintorni e molti della famiglia di zia Rossa erano finiti in gabbia a Poggioreale. Servivano pezzi di ricambio. Una panetteria puoi farla andare avanti con un semplice garzone, ma per un lavoro di “direzione e controllo” il Sistema aveva bisogno di persone fidate, meglio se legate dal sangue.
È come nei film quando ti arriva la cartolina per andare in guerra e non puoi dire di no. Il guaio è che zio Bianco non era fatto per la guerra. E neppure per dire di no.
Era il fratello minore di mio padre, si assomigliavano per quel naso storto da becco della doccia che ho anche io ma, come diceva mia madre: uno nero come il carbone, l’altro bianco come la farina.
Mentre papà era al di là del mare, zio Bianco mi è stato dietro e mi ha detto tutte quelle cose che ho sentito anche dal prete e da Raul Ponzoni, il maestro di musica. Probabilmente aveva capito che il lavoro di “direzione e controllo” non gli avrebbe più consentito di farmi da papà di scorta e neppure di farsi vedere troppo in giro. Così ha cercato un aiuto. Come portarmi al doposcuola.
Davanti al cancello nero di viale della Resistenza c’ero passato mille volte, ma non avevo mai sentito il bisogno di entrarci. Il cartello blu accanto alla porta diceva: MADDALONI Scuola di judo e avviamento allo sport - Napoli - Scampia.
Non andavo alla scuola vera, perché mai avrei dovuto andare a una finta, di judo?
Ma quel giorno di settembre zio Bianco mi sembrava così triste con la cravatta da uovo di Pasqua che feci finta di avere ricevuto una cartolina anch’io: – Ok, vengo a darci un’occhiata.
«Solo un’occhiata» promisi a me stesso.
Due cose mi incuriosirono appena misi piede in palestra: un rumore e una scena.
Il rumore era quello di ragazzi e ragazze che si allenavano sulla materassina verde e rossa. Quando cadevano tiravano delle pesanti manate al tatami, come se gli rimproverassero di averli sgambettati. La palestra rimbombava per i colpi.
La scena era quella di un ragazzino che combatteva contro un compagno molto più grande. All’improvviso, il piccoletto afferrò il braccio dell’avversario, si girò di schiena e lo fece volare oltre le sue spalle, come accade di solito nei cartoni di Tom e Jerry quando il topo stende il gatto. Uah, nu mostr’!
– È lui? – chiese Gianni Maddaloni, il Maestro, ’o Maé.
– È lui – confermò zio Bianco spingendomi avanti.
Mi squadrò. Naturalmente intuivo cosa volesse sapere, anche se non faceva domande.
– Sono caduto dalle scale.
Ma ’o Maé mi sgamò subito: – Quanto erano grosse quelle scale?
– Troppo – risposi.
– Non esiste troppo. La sua forza, è la tua forza. Lo imparerai – promise misteriosamente il Maestro Maddaloni. – Hai visto quel bambino?
– Sì, l’ho visto.
Tenevo un grosso cerotto bianco sul naso storto e due enormi lividi viola attorno agli occhi che mi facevano tanto Banda Bassotti.
Al Maestro non raccontai nulla. A voi sì.
Arrivarono al parco urbano e puntarono dritti su di noi. Sembrava che ci cercassero. Erano in tre, avevano almeno diciassette anni. Non li avevo mai visti prima. Potevo dirlo con certezza perché agli occhi di una sentinella, allenata a tenere a mente decine di targhe d’auto, non sfugge un volto e tanto meno una mano senza medio e anulare. Il razzo che gli era esploso tra le dita lo aveva condannato a fare le corna in eterno con la destra. E a diventare Gigi Cuorna. Ma lo avrei scoperto solo più tardi.
Non era strano che io non conoscessi lui. Era strano che lui non conoscesse me, a Scampia. Ci voleva del fegato ad appiccicarsi con il figlio del Falco, il fratello di Carmine “Ninja”.
Armando ci stava sfidando a imbucare con il pallone il tubo di uno scivolo da una distanza di venti metri. Io e Pasquale non chiedevamo altro. Neppure suo padre era orgoglioso del talento del figlio come lo eravamo noi.
Armando era nato per il calcio. Capitava che ci fermassimo a chiacchierare su un muretto, si distraeva e i suoi piedi cominciavano a palleggiare per conto loro, da seduto. Se gli sparavi un pallone a bruciapelo, lui lo stoppava con qualsiasi parte del corpo e quel pallone diventava immediatamente una parte di lui, un braccio in più, una gamba in più. Più che stopparlo, lo assorbiva dentro di sé.
A cronometrargli i cinquanta metri con o senza palla, non trovavi differenza. Il pallone non lo frenava, se lo portava dietro con la naturalezza con cui noi ci portiamo dietro una caviglia. Le stesse sensazioni me le davano solo i vecchi filmati di Diego Armando Maradona.
Naturalmente Armando era Armando per via del Pibe, di cui suo padre, ex capopolo in curva B, era devoto. Il fratellino di Armando si chiama Edinson, come Cavani, e dato che la mamma è ancora incinta, di una femmina stavolta, non mi meraviglierei se venisse al mondo una Pipita, che è il soprannome di Higuaín.
Armando giocava negli allievi del Napoli. Io e Pasquale ci divertivamo a immaginarci con lui sull’aereo della squadra in una trasferta di Champions, oppure in piazza Plebiscito per la festa scudetto a cantare con lui: O mamma mamma mamma, sai perché mi batte il corazon?
Nessuno dubitava che sarebbe successo. Ci voleva solo pazienza. Nell’attesa, io e Pasquale scortavamo Armando come guardie del corpo lungo il rettilineo che portava dal sogno alla realizzazione del sogno, attenti che qualcuno non si avvicinasse a guastarcelo.
Non gli concedevamo di venire con noi in scooter a scippare, anche perché guidava da cani, e neppure di mescolarsi alle nostre partite in strada che erano pretesti di rissa. Lo tenevamo lontano dai rischi, eravamo i guardiani del suo talento. Presto Maurizio Compagnoni di Sky lo avrebbe chiamato “il talento di Scampia”, così come Cassano è il “talento di Bari Vecchia” e, a ogni gol al San Paolo, avrebbe urlato con il suo vocione: «Rete! Rete! Rete!».
Per questo, appena Gigi Cuorna propose il tre contro tre con il nostro pallone, io dissi subito di no. E lo dissi come può dirlo il figlio del Falco a uno straniero di Scampia.
– Non c’era il punto di domanda. Era un ordine – precisò lui muovendosi verso Armando che aveva il pallone tra i piedi.
Io gli tagliai la strada per proteggere il nostro Pibe.
Ha ragione Raul Ponzoni, il maestro di musica, quando dice che tengo il Vesuvio dentro. Se mi sale il fuoco alla testa, esplodo.

2

IL NINJA

In genere io partivo con la testa, mirando l’attaccatura del naso alla fronte, caricando il peso del corpo per dare forza alla capata. Ma Gigi Cuorna era troppo alto. Pensai di sterzare su una testata al petto, alla Zidane, per togliergli il fiato e squilibrarlo, solo che lui mi anticipò e mi venne addosso proprio mentre avevo mosso il primo passo e tenevo a terra un piede solo.
Pesava il doppio di me, provai a reggere l’urto, ma me lo trovai tutto addosso. Riuscì a piantarmi subito un ginocchio tra le costole e, al primo pugno in faccia, scese il sipario. Ricordo solo il rumore del naso che scricchiolò come la carta di una caramella e il fiume caldo del sangue in bocca. Gli mancavano due dita, ma le nocche ce le aveva tutte.
’O Maé mi raccontò che da ragazzo aveva conosciuto mio padre, che non erano amici, ma che si rispettavano. E che aveva allenato zio Bianco.
– Era una buona cintura marrone. Con più passione avrebbe potuto anche fare risultati – ricordò il Maestro Maddaloni. – Ottime tecniche di proiezione. Ma dopo che ribaltava l’avversario, s’inteneriva e non chiudeva con le prese a terra…
Buono come...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. O'Maè. Storia di judo e di camorra
  3. Benvenuti a Scampia
  4. Ritsu Rei
  5. 1. Zio Bianco
  6. 2. Il Ninja
  7. 3. Raul Ponzoni
  8. 4. Ginevra Ponzoni
  9. 5. Toni Hollywood
  10. 6. Omero
  11. 7. Habib
  12. 8. Ciro Munnezza
  13. 9. Achille
  14. 10. Chantal
  15. 11. Filippon
  16. 12. Gualtiero
  17. 13. Jigoro Kano
  18. 14. Ettore
  19. 15. Santiago
  20. 16. Vincenzo
  21. 17. Il Ragno di Modena
  22. 18. Armando
  23. 19. Gigi Cuorna
  24. 20. Capri
  25. 21. Il Veronese
  26. 22. Il Falco
  27. Hajime!
  28. Ringraziamenti
  29. Da Sydney a Scampia
  30. Copyright