Mantova, 21 marzo 1046
Il sole stava tramontando dietro un ampio cerchio di vette innevate, e sui ghiacci scintillanti si riflettevano sfumature che andavano dall’arancione al rosso fuoco. La battaglia infuriava e il campo era ricoperto di corpi straziati, mentre uomini con pesanti armature si battevano brandendo lance, mazze e spade. Bandiere e vessilli sventolavano su entrambi i fronti e si incrociavano tra loro quando i cavalieri si trovavano a duellare; spade e lance rilucevano nella tenue luce del tramonto e il tappeto di erba appena spuntata era interamente intriso di rivoli rossastri. I soldati colpiti si abbattevano in pozze di sangue, mentre i cavalieri tentavano di annientare quanti più nemici possibile. Da ambo le parti le perdite erano incalcolabili, e mentre il sole calava dietro i monti portando con sé la luce del giorno, le schiere con un ultimo, estremo sforzo, cercavano di conquistare la vittoria.
Grida spaventose risuonavano nell’aria satura di sudore e sangue, coperte a tratti dallo stridio delle lame quando, nel furore della mischia, un cavaliere emerse tra gli altri. Roteava la lancia e con affondi precisi si gettava sui nemici uccidendone un gran numero, proteggendosi con un pesante scudo. Dinanzi a lui gli avversari cedevano e dopo alcuni minuti di lotta feroce, quando l’eroico soldato raggiunse il portabandiera nemico, con un fendente fulmineo gli mozzò la testa, che cadde rotolando sull’erba insieme al vessillo. Echeggiò un urlo, quasi un ruggito, e, mentre gli ultimi superstiti della parte avversa tentavano invano di fuggire, il cavaliere si portò la mano destra alla fronte e si fece il segno della croce. Subito attorniato dai suoi fedeli esultanti per la vittoria, volse intorno lo sguardo, si tolse l’elmo e una folta chioma di capelli rossi, lunghi e ricciuti ricadde sull’armatura argentea.
Era una donna: bella, imperiosa, dallo sguardo impenetrabile. Se ne stava ferma, immobile e silenziosa, mentre i soldati inneggiavano a lei e alla vittoria, quando un vento improvviso le scompigliò i capelli e lei sorrise guardando i suoi fedeli che le rendevano omaggio.
Beatrice aprì gli occhi di scatto, madida di sudore, e sentì che il suo cuore batteva a tonfi sordi. Era stato tutto un sogno: il campo di battaglia, i morti, i combattenti. Ma quella donna chi era? Era così fiera, bella, osannata da tutti, con il portamento di una regina, ma si era fatta il segno della croce, quindi riconosceva che il suo potere le era stato concesso da Dio. Beatrice si accorse di avere la fronte imperlata di sudore e istintivamente si toccò la pancia. Sapeva che ormai era tempo, il bambino che portava in grembo sarebbe nato da un momento all’altro. Sperava solo che tutto andasse bene e che suo figlio fosse sano.
Guardò Bonifacio che giaceva addormentato accanto a lei nel grande talamo di noce, intarsiato di madreperla ed ebano, e sul viso le si disegnò un sorriso. Suo marito non aveva un carattere facile, era burbero, arrogante, alle volte aveva dei modi rozzi, ma con lei era diverso. Con lei era sempre dolce, non si arrabbiava mai, le sorrideva sempre, e Beatrice apprezzava molto i sacrifici che faceva, cercando di modificare la sua natura: erano una grande prova d’amore. Ricordava ancora la prima volta che l’aveva incontrato, quando nella sua mente non c’era certo l’intenzione di maritarsi: lei avrebbe voluto andare in convento e farsi monaca, ma quando Bonifacio era comparso nella sua vita, innamorandosi perdutamente di lei, sposarlo era sembrata la scelta perfetta. Un’unione voluta dal destino. Lei preferiva pensare che fosse un’unione voluta da Dio, più che dal destino e dalle loro famiglie. Con il tempo aveva imparato ad amare quell’uomo di un amore diverso da quello che provava nei confronti di Dio, ma aveva scoperto che le due cose non erano incompatibili.
All’improvviso sentì un tuono, un fragore assordante, e un tonfo che la spaventò a morte, tanto che si strinse al marito e lui, avvertendo il suo corpo così vicino, si riscosse dal sonno e nel dormiveglia le chiese: «Stai bene?».
«Ho sentito un rumore terribile.»
«Non ti preoccupare,» bofonchiò lui insonnolito «è un temporale, sta piovendo. Senti?»
Beatrice udì lo scroscio dell’acqua e immaginò la pioggia che cadeva, inondando il castello. Fu contenta di essere al caldo, nel suo letto. Chiuse di nuovo gli occhi e si concentrò sul rumore della pioggia: la rilassava, le conciliava il sonno. Stava per riaddormentarsi quando si accorse di essersi talmente immedesimata in quell’acqua scrosciante da sentirsi addirittura bagnata. Provava un senso di calore umido all’altezza dell’inguine, ma pensò che fosse solo un’impressione. Dopo poco, però, una fitta dolorosa le attraversò il ventre. Fu allora che capì che non si trattava di immaginazione: il travaglio era cominciato.
«Bonifacio! Bonifacio, svegliati!»
Ancora assonnato, il marito le chiese brusco: «Adesso cosa succede? Perché non dormi?».
E fece per girarsi su un fianco dandole le spalle, quando sentì sua moglie che diceva: «Tuo figlio sta per nascere».
A quelle parole lui spalancò gli occhi, improvvisamente sveglio. Scattò a sedere sul letto ed esclamò: «Cosa? Sei sicura?».
«Chiama subito la levatrice, la mia nutrice, il medico e le ancelle! Svelto!»
Lui si alzò senza perdere tempo, spalancò la porta della stanza e urlò con quanta voce aveva in corpo: «Svegliatevi! Venite, presto! La contessa sta per partorire. Nutrice! Levatrice! Presto, correte!».
In meno di cinque minuti il palazzo era in fermento. Le torce e i candelabri erano stati accesi e la stanza degli sposi era piena di gente, tra cui spiccava la nutrice di Beatrice, che l’aveva vista nascere, la fedele Edvige, e la levatrice che l’aveva già aiutata nei parti precedenti. La contessa, nonostante i dolori, parlava a bassa voce con Edvige, rivolgendosi a lei in tedesco.
«Ho fatto uno strano sogno, e quando mi sono svegliata mi si sono rotte le acque. Pensi che possa avere un significato?»
«Schatzie, tesoro, i sogni sono sempre premonitori. Non dimenticare che sono i messaggi di Dio.»
«E allora che cosa vuol dire il mio?»
«Non pensarci adesso. Ne parleremo domani con il confessore. Adesso pensa solo a far nascere tuo figlio.»
«Sto soffrendo, Edvige. Non è la prima volta che metto al mondo dei figli, ma...»
Non riuscì a terminare la frase, perché fu travolta da un’altra ondata di dolore.
«Coraggio, bambina mia» le disse Edvige. «Spingi e sopporta, vedrai che presto tutto sarà finito.»
«Ti stai comportando bene, contessa» aggiunse la levatrice. «Continua così. Avanti, spingi!»
Beatrice pensava che i dolori le avrebbero spaccato in due il ventre, ma resisteva e tentava di non urlare. Chiese a Edvige con uno sguardo implorante di metterle un pezzo di stoffa tra i denti, qualcosa da poter mordere. Edvige annuì, aveva già visto quello sguardo in altre occasioni, e fece come Beatrice le aveva tacitamente ordinato, ammirandola ancora una volta per la sua grande forza. Le asciugò il sudore dal viso e le prese la mano, che la contessa strinse fino a farle male. Le contrazioni continuavano, sempre più frequenti, e le grida della partoriente coprivano il rumoreggiare del temporale.
Bonifacio intanto attendeva nella sala delle udienze, seduto sul suo scranno imbottito di pelle e ornato di pietre preziose. Lo circondavano i dignitari di corte, subito accorsi. Le ancelle portarono del vino in coppe d’argento, che il conte prese e ingollò d’un fiato. Gli veniva sempre voglia di bere quando sua moglie stava partorendo. Non riusciva a concepire la vita senza la bella e dolce Beatrice.
Quando l’aveva incontrata la prima volta, a Nimega, in Germania, in occasione delle nozze di Enrico III, figlio dell’imperatore Corrado, aveva visto in quella giovane nobile diciannovenne, discendente dalla stirpe di Carlo Magno e figlia di Federico di Svevia, tutto quello che desiderava da sempre, e che con la prima moglie non aveva mai avuto. Appena aveva posato gli occhi su di lei, notando la pelle nivea, gli occhi azzurri come il cielo e i lunghi capelli biondi, aveva capito che prima di allora non aveva mai amato veramente. C’erano donne che aveva desiderato, anche intensamente, ma non si era trattato di amore. Quella creatura doveva essere sua, ma non per una notte, non per un giorno: per tutta la vita. Fu quello che le disse quando riuscì a strapparle un ballo, mentre volteggiavano per la sala. Lui aveva le vertigini stringendola fra le braccia, e le sussurrò in un orecchio: «Ti voglio, Beatrice, per sempre. Sposami».
E adesso eccolo lì, ad aspettare che sua moglie partorisse il loro terzo figlio. Ricordava la notte in cui l’avevano concepito: quella sera aveva bevuto, ma non era ubriaco, e sua moglie era più incantevole che mai. L’aveva cercata sotto la folta pelliccia di lupo che ricopriva il loro letto, e lei, appoggiando la testa sul suo petto, gli aveva sussurrato: «Stasera hai bevuto, Bonifacio».
«Sì, ma non sono ubriaco. E tu sei bellissima.»
Lei gli aveva risposto con un sorriso, baciandolo teneramente sulle labbra, lui l’aveva stretta forte a sé, ma prima che il desiderio divampasse, lei gli aveva bisbigliato: «Per favore, con dolcezza».
Lui le aveva risposto con voce rauca, ormai annebbiato dal desiderio: «Non ti farei mai del male».
Dopo di che era affondato in lei, ed erano diventati una cosa sola. Quando qualche mese dopo Beatrice capì di essere incinta, gli disse: «La tua dolcezza è stata premiata».
«Cosa vuoi dire?» le domandò lui mentre esaminava una pergamena.
«Quella notte, ti ricordi? Quella in cui mi trovavi bellissima...»
«Sei sempre bellissima» rispose Bonifacio in tono burbero.
«Sono incinta.»
«Cosa?» chiese lui alzando gli occhi di scatto.
«Ti darò un altro figlio.»
«Oh, moglie adorata, non potevi farmi un regalo più bello.»
«Non sono l’unica che devi ringraziare, Bonifacio.»
«Hai ragione.»
Si fece il segno della croce e disse: «Grazie, Signore».
Dopo di che prese per mano la moglie e insieme andarono nella loro cappella a pregare e ringraziare per quel dono prezioso.
Fu riscosso da questi ricordi, quando un dignitario lo chiamò dicendogli: «Mio signore...»
«Che vuoi?» sbottò lui in tono duro. «Ho altro per la testa.»
«Il temporale è finito. Fuori sta albeggiando, guarda!»
Scostò le pesanti cortine da un’alta finestra e il conte ammirò uno spettacolo davvero incantevole, anche per un guerriero rude come lui. Il cielo ancora scuro si stava sgombrando dai tenebrosi nuvoloni della notte, e una luce tenue color rosa sorgeva a est, tingendo con pennellate chiare l’orizzonte. Il fiume scorreva impetuoso, carico delle acque della notte, rumoreggiando a poca distanza dal castello, e mentre Bonifacio si avvicinava alla finestra, la luce faceva brillare le cime degli alberi e i prati rivestiti di una tenera erba primaverile. Il conte ricordò che quello era il giorno dell’equinozio di primavera, e si chiese se una tale coincidenza avesse un qualche significato. Chiamò a sé l’astrologo e lo interrogò: «Cirillo, dimmi: mio figlio sta per nascere oggi, equinozio di primavera. Che segno è questo? Che cosa significa?».
«Mio signore, questo figlio porterà una nuova primavera nella tua casata e nel mondo intero. Sarà forte, perché ha sconfitto il duro inverno, e sarà dolce come il profumo dei fiori appena spuntati. Inoltre il temporale di questa notte è cessato per far posto a un giorno sereno, e anche questo è un segnale favorevole. Il responso è positivo, Bonifacio. Questi segni sono di buon auspicio. La tua casata godrà di fortuna e di successo, un successo che questo tuo figlio conquisterà a duro prezzo e con grandi sacrifici.»
Intanto Beatrice, allo stremo delle forze, diceva alla nutrice: «Non ce la faccio, non ce la faccio più».
«Sì che ce la fai!» la incitava Edvige. «Ancora un ultimo sforzo e sarà finito.»
«Vedo la testa!» esclamò la levatrice.
«Hai sentito?» le ripeté Edvige. «È l’ultimo sforzo. Avanti!»
Con un grido quasi animalesco Beatrice spinse con tutte le forze che le restavano, dopo di che si abbandonò esausta sui cuscini, mentre la stanza risuonava degli strilli acuti del neonato. La madre era stanchissima, ma sentiva il pianto e ne era felice. Chiese con voce debole: «Come sta?».
La levatrice disse: «Mia signora, hai una bambina bellissima, è sana e forte. Guarda!».
Gliela accostò al viso, e la contessa poté ammirare quella creatura imbrattata di sangue, con il cordone ombelicale ancora attaccato, che strillava con una forza che nessuno dei suoi figli aveva mai avuto prima. Guardandole la testolina vide dei ciuffi di capelli rossi e improvvisamente, in un angolo remoto della sua mente, si ricordò del sogno: quella donna dai capelli fulvi in mezzo alla battaglia era forse la sua bambina? Non ebbe tempo di pensare oltre perché, esausta e stremata, dopo aver dato alla piccola un ultimo sguardo, si appisolò, consapevole di essere diventata ancora una volta madre. Aveva una figlia, di cui aveva già scelto il nome. Essendo di nascita più nobile del marito, toccava a lei dare i nomi ai loro figli. Bonifacio non si sarebbe opposto, e quel nome avrebbe sempre protetto la sua piccola e le avrebbe dato forza. Con questa sicurezza e con l’immagine di sua figlia davanti agli occhi, scivolò nel sonno.
Intanto Bonifacio, che era stato avvertito da un servo, entrò precipitosamente nella stanza, vide Beatrice pallida e con gli occhi chiusi, e lanciò un’occhiata preoccupata a Edvige che lo rassicurò: «Si è solo appisolata. Sta bene».
Il conte tirò un lungo sospiro di sollievo e sorrise di gratitudine alla nutrice di sua moglie, dopo di che andò a vedere sua figlia. La stavano pulendo, e Edvige, che aveva già preparato la veste candida e ricamata, gliela infilò e presentò la piccola a Bonifacio, dicendogli: «Tua figlia, mio signore».
Lui la prese in braccio con orgoglio, ammirò la sua bellezza in miniatura, il visino paffuto e gli occhi vispi: era perfetta, sembrava una bambola. La piccola gli strinse il pollice nel pugno minuscolo, e lui avvertì il contatto con la pelle morbida e vellutata, la guardò con affetto e il suo cuore ebbe un moto di profonda commozione. Alzandola in alto sopra il s...