La sposa bambina
eBook - ePub

La sposa bambina

Io, Nojoud, dieci anni, divorziata

  1. 180 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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La sposa bambina

Io, Nojoud, dieci anni, divorziata

Informazioni su questo libro

Nojoud viene dallo Yemen. Nojoud ha solo dieci anni. Nojoud non è che una bambina. Una bambina divorziata. Perché anche se ha un lieto fine, questa non è una favola. È la storia di una battaglia, invece. La storia di una bambina che, in un paese in cui le donne sono spesso schiave inermi, ha saputo combattere con il cuore e il coraggio di una leonessa. È stata costretta a sposare un uomo che non aveva mai visto. Un uomo di trent'anni. Lei non ne aveva che otto. È stata picchiata. È stata obbligata a rinnegare la sua infanzia. Nojoud aveva paura. Nojoud voleva giocare. Voleva andare a scuola. Nojoud non è che una bambina. Ha pianto così tanto, ma nessuno la ascoltava. Ha supplicato suo padre, sua madre, sua zia. "Non possiamo fare niente. Se vuoi, vai in tribunale da sola" le hanno risposto. Così, una mattina, Nojoud è scappata dalla sua casa-prigione. Si è incamminata da sola verso il tribunale di Sana'a. Si è ribellata alla legge degli uomini. Ha chiesto il divorzio. In un paese in cui oltre la metà delle spose sono bambine tra gli otto e i dieci anni, Nojoud ha trovato il coraggio di dire no.

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1

IN TRIBUNALE

2 aprile 2008

Mi gira la testa. Mai vista così tanta gente in tutta la mia vita. Nel cortile che porta all’edificio principale del tribunale c’è una vera e propria folla che va avanti e indietro. Uomini in completo e cravatta, che portano sotto il braccio faldoni ingialliti. Altri che indossano la zanna, la lunga tunica tradizionale tipica dei villaggi dello Yemen del Nord. E poi ci sono le donne, che gridano e piangono con un clamore assordante. Mi piacerebbe leggere sulle loro labbra cosa stanno cercando di dire, ma i neqab1, intonati alle lunghe tuniche nere, nascondono loro i visi, lasciando scorgere solo i grandi occhi spalancati. Sembrano granate, pronte a esplodere. Hanno l’aria furibonda, come se un tornado avesse appena distrutto le loro case. Tendo le orecchie.
Mi arriva solo qualche parola di ciò che dicono: “custodia dei bambini”, “giustizia”, “diritti dell’uomo”… Non capisco bene cosa vogliono dire. Vicino a me, un gigante con le spalle larghe, un turbante piazzato in testa e in mano una borsa di plastica piena di documenti, racconta a chi vuol stare a sentirlo che è venuto a cercare di recuperare le terre che gli hanno rubato. Ahi! Mi ha pestato i piedi, questo qui, a furia di correre avanti e indietro come un’anima in pena.
Che confusione! Mi fa venire in mente la piazza Al-Qa, quella degli operai disoccupati, proprio nel centro di Sana’a, di cui parla spesso Aba2. Ognuno per sé, ognuno in lotta per essere il primo che ottiene un lavoro per l’intero giorno, fin dai primi raggi del sole, appena dopo l’azan, la chiamata alla preghiera del mattino. Hanno talmente fame da avere una pietra al posto del cuore. E non hanno il tempo per impietosirsi per la sorte degli altri. Eppure vorrei tanto che qualcuno mi prendesse per mano, che uno sguardo affettuoso si posasse su di me. Che qualcuno mi ascoltasse, per una volta! In pratica, è come se fossi invisibile. Nessuno mi vede. Sono troppo piccola, per loro. Gli arrivo appena all’altezza della vita. Ho solo dieci anni, forse meno, chi lo sa?
Mi ero fatta un’idea diversa del tribunale, quella di un posto calmo e ordinato. La grande casa del Bene contro il Male, dove si possono risolvere tutti i problemi della Terra. Alla televisione, a casa dei nostri vicini, ne avevo già visti, di tribunali, con i giudici in abito lungo. Dicono che sono loro quelli che possono aiutare le persone che ne hanno bisogno. Devo trovarne uno, per raccontargli la mia storia. Sono stanca. Ho caldo, sotto il velo. Provo vergogna e ho mal di testa, troverò la forza di continuare? No. Sì. Forse. Mi dico che è troppo tardi per fare dietrofront. Il peggio è passato. Bisogna andare avanti.
Nell’uscire dalla casa dei miei, stamattina, mi sono ripromessa di non rimetterci piede prima di aver ottenuto quello che volevo. Erano le dieci in punto.
«Vai a comprare del pane per la colazione» mi ha detto mia madre, dandomi 150 riyal3.
Con un gesto istintivo, mi sono legata i capelli, scuri e ricci, sotto il foulard nero e ho indossato una tunica dello stesso colore – è la tenuta normale delle donne yemenite quando escono di casa. Ho camminato tutta tremante per qualche metro, poi ho preso il primo minibus che passava sul grande viale che porta verso il centro. Sono scesa al capolinea. E ho superato le mie paure salendo da sola, per la prima volta nella mia vita, su un taxi giallo.
Nel cortile, l’attesa è interminabile. A chi posso rivolgermi? Di colpo, scorgo tra la folla qualche sguardo complice, inaspettato. Laggiù, vicino alla scala che porta all’ingresso del grande fabbricato di cemento grigio, tre ragazzi che portano sandali di plastica mi squadrano da capo a piedi. Le loro guance sono scure di polvere. Mi sembrano i miei fratellini.
«Vuoi sapere il tuo peso? Solo 10 riyal» grida uno di loro, mostrandomi una vecchia bilancia ammaccata.
«Hai sete? Bevi un po’ di tè!» propone un altro, esibendo un piccolo cesto colmo di bicchieri fumanti.
«Un succo di carote fresco?» suggerisce il terzo con un gran sorrisone, intanto che allunga la destra, sperando di vedervi cadere una monetina.
No, grazie, non ho sete. E francamente non mi importa nulla, al momento, di sapere quanto peso! Se solo sapessero perché sono qui…
Smarrita, alzo di nuovo la testa verso le facce di tutti questi grandi che si agitano intorno a me. Le donne, con quei loro veli lunghi, si somigliano tutte. Ombre nere, che mi fanno paura, più che attirarmi.
Ma in che vespaio mi sono cacciata? To’, ecco, quell’uomo in completo nero e camicia bianca che viene nella mia direzione. Un giudice, forse… o un avvocato? Coraggio, devo tentare la fortuna.
«Mi scusi, signore, voglio vedere il giudice.»
«Il giudice? È da quella parte, in cima alle scale» mi risponde lui, dandomi un’occhiata di sfuggita, prima di essere di nuovo inghiottito dalla folla.
Non ho più scelta. Adesso ce l’ho di fronte, la scala, e devo affrontarla. È la mia sola e ultima speranza di uscire da questa situazione. Mi sento sporca. Devo salire questi gradini uno per uno, per andare a raccontare la mia storia, attraversare questa marea umana che monta sempre più man mano che mi avvicino al grande atrio all’entrata. Per poco non cado. Mi riprendo. Ho pianto troppo, i miei occhi non hanno più lacrime. Non ne posso più. Sento i piedi che pesano, quando finalmente li poso sul pavimento in marmo, ma non posso crollare. Non adesso.
Sulle pareti, bianche come quelle di un ospedale, ci sono delle scritte in caratteri arabi. Nonostante i miei sforzi, non riesco a leggerle. Mi hanno costretto a smettere di andare a scuola al secondo anno delle elementari, appena prima che la mia vita diventasse un incubo, e a parte il mio nome, Nojoud, non so scrivere quasi nient’altro. Mi sento in imbarazzo. Mi guardo in giro e gli occhi mi cadono su un gruppo di uomini in uniforme color verde oliva, un chepì piantato sul capo. Sicuramente sono dei poliziotti. O forse dei soldati? Uno di loro porta a tracolla un kalashnikov.
Mi viene un brivido. Se mi vedono, magari mi arrestano. Una bambina scappata da casa, non va bene per niente. Tremante, mi aggrappo al primo velo che passa, sperando di attirare l’attenzione della sconosciuta che vi si nasconde dietro. “Coraggio, Nojoud!” mi ordina una vocina interiore. “Sei una bambina, è vero, ma sei anche una donna! Una donna vera, anche se fatichi ancora ad accettarlo.”
«Voglio parlare al giudice!»
Due grandi occhi orlati di nero mi fissano con stupore. La signora di fronte a me non mi ha nemmeno visto arrivare.
«Come?»
«Voglio parlare al giudice!»
Lo fa apposta, a fingere di non aver capito, per potermi ignorare più facilmente, come gli altri? «Come si chiama, questo giudice?»
«Non lo so, voglio solo parlare a un giudice, e basta!»
«Ma ce ne sono tanti, qui in tribunale…»
«Mi porti da un giudice, uno qualsiasi!»
Tace, sorpresa dalla mia determinazione. A meno che non sia stato il mio grido lacerante, a paralizzarla.
Sono solo una semplice contadina che vive nella capitale, e mi sono sempre piegata agli ordini degli uomini della mia famiglia. Ho imparato subito a dire “sì” a tutto. Oggi ho deciso di dire no. Mi sento sudicia dentro. È come se mi avessero rubato una parte di me. Ma nessuno ha il diritto di impedirmi di rivolgermi alla giustizia. È la mia ultima possibilità, non ci rinuncerò tanto facilmente. E non sarà certo questo sguardo stupito, freddo come il marmo del grande atrio in cui l’eco del mio grido si è messo a risuonare in un modo bizzarro, che mi farà tacere. È mezzogiorno passato. Sono più di tre ore che vago come una disperata nel labirinto di questo tribunale. Voglio vedere il giudice!
«Vieni con me» mi dice, dopo un attimo, facendomi cenno di seguirla.
La porta si apre su una stanza dall’atmosfera ovattata, con il pavimento ricoperto di moquette scura, e piena di gente. In fondo, seduto a una scrivania, un uomo baffuto, dai lineamenti delicati, si ingegna a rispondere a un diluvio di domande che lo assalgono da ogni parte. È il giudice! Finalmente! C’è un costante brusio di sottofondo, ma l’effetto è rassicurante. E infatti mi sento al sicuro. Sulla parete principale riconosco la foto incorniciata di Amma Alì, “lo zio Alì” – è così che a scuola mi hanno insegnato a parlare del presidente del nostro paese, Alì Abdallah al-Salih, eletto più di trent’anni fa. Alcuni dicono che è un dittatore, altri lo accusano di corruzione. A me poco importa, io sono qui per vedere il giudice, punto e basta. Prendo posto, come gli altri, su una delle sedie marroni disposte lungo la parete. Fuori, il muezzin chiama alla preghiera del mezzogiorno. Intorno a me intravedo volti familiari, o meglio occhi familiari, in cui mi sono imbattuta prima, giù in cortile. Alcuni volti si chinano su di me, come incuriositi. Vuoi vedere che si sono resi conto che esisto anch’io? Era ora. Confortata, mi lascio andare contro lo schienale e aspetto con pazienza il mio turno.
Se Dio esiste, mi dico tra me e me, che venga a salvarmi, allora. Ho sempre pregato da buona credente, cinque volte al giorno. Durante l’Eid al-Fitr, la festa che chiude il Ramadan, ho sempre aiutato mia madre e le mie sorelle a preparare i cibi. Sono una bambina assennata, in generale. Che Dio abbia pietà di me… Immagini sfocate turbinano nella mia testa. Sto nuotando in mare, in acque calme. Poi cominciano ad alzarsi le onde. Vedo in lontananza mio fratello Fares, ma non riesco a raggiungerlo. Lo chiamo, ma non mi sente. Allora comincio a gridare il suo nome, ma le raffiche di vento mi fanno arretrare e mi spingono in direzione della baia. Faccio resistenza, agitando le braccia come eliche. Neanche a pensarci, di ritornare al punto di partenza. Le onde si schiantano con fragore. La baia adesso è così vicina… Ho perso di vista Fares. Aiuto! Non voglio tornare a Kharji, no e poi no, non ci voglio tornare!
«Che cosa posso fare per te?»
Una voce maschile, che mi scuote dal mio vago torpore. È stranamente gentile. Non ha bisogno di alzare il tono, per attirare la mia attenzione. Gli è bastato sussurrare qualche parola: «Che cosa posso fare per te…». Finalmente qualcuno che viene in mio aiuto.
Mi strofino gli occhi per riprendermi e subito lo vedo, dritto in piedi davanti a me. Lo riconosco, è il giudice con i baffi. La folla si è dispersa, gli occhi sono spariti, e la stanza è quasi vuota. Di fronte al mio silenzio, l’uomo riformula la domanda: «Allora, posso sapere cosa vuoi?».
La risposta, questa volta, non si fa attendere: «Il divorzio!».
  1 . Il neqab è un velo che copre tutto il volto, fatta eccezione per gli occhi, indossato dalle donne musulmane nello Yemen e in altri paesi del Golfo (Arabia Saudita, Bahrein, Qatar…)
  2. In arabo, “padre”.
  3. La somma di 150 riyal corrisponde a poco più di 50 centesimi di euro (1 euro = 277,7 riyal yemeniti.)
2

KHARJI

A Kharji, il villaggio in cui sono nata, alle donne non si insegna a scegliere e decidere. Laggiù sono gli uomini ad avere l’ultima parola. All’età di circa sedici anni Shoya, mia madre, ha sposato mio padre, Mohammad al-Ahdel, senza protestare. E quando lui decise, quattro anni dopo, di allargare la famiglia, scegliendosi una seconda moglie, lei si piegò docilmente ai voleri del marito. È con la stessa rassegnazione che io ho accettato il mio matrimonio, senza rendermi conto di cosa voleva dire. Alla mia età, non ci si fanno troppe domande.
«Come si fa, a fare i bambini?» avevo chiesto un giorno, innocentemente, a Umm1.
«Lo saprai quando sarai grande» mi aveva risposto, accantonando la mia domanda con un cenno della mano.
Quella volta mi ero limitata a tenere a bada la mia curiosità infantile e a tornare a giocare con i miei fratelli e le mie sorelle. Il nostro passatempo favorito era giocare a nascondino. La valle di Hajja, nel Nord del paese, dove io sono nata, racchiude una miriade di nascondigli dove potevamo facilmente rifugiarci: tronchi d’albero, grandi rocce, grotte scavate dal tempo.
Quando eravamo senza fiato per aver corso troppo, ci lasciavamo cadere a testa in giù nell’...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. La sposa bambina
  4. Introduzione
  5. 1. In tribunale
  6. 2. Kharji
  7. 3. Dal giudice
  8. 4. Il matrimonio
  9. 5. Shada
  10. 6. La fuga
  11. 7. Il divorzio
  12. 8. Il compleanno
  13. 9. Mona
  14. 10. Il ritorno di Fares
  15. 11. Quando sarò un avvocato…
  16. Epilogo
  17. Ringraziamenti
  18. Copyright