Catherine si fa forza, ma le sembra di non farcela. È aggrappata allo smalto freddo del lavandino e solleva la testa per guardarsi allo specchio. Il viso che le restituisce lo sguardo non è lo stesso con il quale si è coricata. Lo ha già visto, quel viso, e sperava di non rivederlo più. Si osserva sotto quella nuova luce impietosa e inumidisce l’asciugamano passandoselo sulla bocca, poi se lo preme sugli occhi come se potesse, così, soffocare la paura.
«Stai bene?»
La voce del marito la coglie alla sprovvista. Sperava che continuasse a dormire. Che la lasciasse in pace.
«Sì, meglio» mente, spegnendo la luce. Ancora bugie. «Deve essere stato il take-away di ieri sera.» Si volta verso di lui, un’ombra nel cuore della notte.
«Rimettiti a dormire. Sto bene» sussurra. È ancora mezzo addormentato, ma trova comunque la forza di posarle una mano sulla spalla.
«Sicura?»
«Sì, sicurissima» risponde lei. L’unica cosa di cui è sicura è che ha bisogno di starsene un po’ da sola.
«Robert. Per favore. Torno tra un minuto.»
La sua mano indugia sulla spalla ancora un istante, poi Robert obbedisce. Catherine aspetta che si sia riaddormentato prima di tornare in camera da letto.
Adesso guarda il libro: è lì sul comodino, capovolto, aperto dove lo ha lasciato. Il libro di cui si è fidata. I primi capitoli avevano stuzzicato il suo interesse, trasmettendole qualcosa di piacevole, lasciandole solo intravedere il brivido che sarebbe arrivato, un incentivo a farla andare avanti pagina dopo pagina. Quel libro l’ha come irretita, attratta con l’inganno finché non si è accorta di essere in trappola. A quel punto le parole avevano cominciato a rimbalzarle in testa e colpirla al petto, una dopo l’altra. Era come se una folla di persone fosse saltata davanti a un treno in corsa e lei, il macchinista impotente, non avesse potuto evitare l’impatto mortale. Era troppo tardi per frenare. Non c’era modo di tornare indietro. Senza poterci fare nulla, Catherine aveva incontrato, tra le righe di quel libro, se stessa.
Qualsiasi analogia con persone, vive o scomparse... La formula del disclaimer, nella prima pagina, è barrata da una riga rossa. Se ne accorge solo ora: non ci aveva fatto caso quando ha cominciato a leggere. La somiglianza non è puramente casuale; è innegabile. È lei, Catherine. È un personaggio chiave, la protagonista. Anche se il nome è diverso, i dettagli sono inconfondibili, persino la descrizione di cosa indossava quel pomeriggio. Un frammento della sua vita che ha tenuto ben nascosto. Un segreto che non ha confessato a nessuno, nemmeno alle due persone al mondo che credono di conoscerla meglio di chiunque altro: suo marito e suo figlio. Nessuno può aver inventato quello che Catherine ha appena letto. Eppure eccolo lì, nero su bianco, sotto gli occhi di tutti. Pensava di averci messo una pietra sopra. Che fosse finita. Invece è tornato a galla. Nella sua camera da letto. Nella sua testa.
Cerca di scalzare quell’idea ripensando alla sera precedente, a prima che aprisse quel libro. La soddisfazione di essersi assestati nella nuova casa, del vino e della cena, di starsene accoccolati sul divano, a sonnecchiare davanti alla tv, e poi lei e Robert che sprofondavano nel letto. Una quieta felicità che ha dato per scontata; troppo quieta per darle conforto. Ora non riesce a dormire, perciò scende dal letto e va al piano terra.
Ce l’hanno ancora un piano terra, più o meno. Ma ora vivono in una modesta casetta, non più un villino. Hanno traslocato da appena tre settimane. Due camere anziché quattro. Due camere bastano e avanzano per lei e Robert. Una per loro. Una per gli ospiti. E hanno optato per gli spazi aperti. Niente porte. Non ne hanno più bisogno ora che Nicholas se n’è andato. Accende la luce in cucina e prende un bicchiere dalla dispensa. Niente rubinetto. Acqua fredda direttamente dal frigo nuovo, che somiglia più a un armadio. La tensione le fa sudare le mani. Scotta come se avesse la febbre e cammina con piacere sul grès freddo del pavimento. L’acqua le è di sollievo. Mentre beve, guarda dall’enorme finestra che si affaccia sul retro di quella casa ancora sconosciuta. Solo buio là fuori. Niente da vedere. Non ha ancora trovato il tempo per far montare le persiane. Si sente esposta. Osservata. Tutti possono vederla, ma lei non può vedere loro.
Mi sentivo in colpa per quello che era successo, davvero. Dopotutto era solo un bambino di sette anni. E io ero, per così dire, l’adulto responsabile, anche se sapevo benissimo che a nessuno dei genitori piaceva l’idea che io lo fossi. In quel periodo ero decisamente caduto in basso: Stephen Brigstocke, l’insegnante più odiato della scuola. Indubbiamente il più odiato dagli studenti, anche se non da tutti i genitori: anzi, mi auguro che almeno qualcuno si sia ricordato di com’ero prima di allora, quando insegnavo ai loro figli maggiori. A ogni modo non mi ero sorpreso quando Justin mi aveva convocato nel suo ufficio. Me l’aspettavo. Ci aveva messo più del previsto, ma è così che funzionano le scuole private. Sono dei piccoli feudi. I genitori si illudono di comandare perché pagano, in realtà non è così. Insomma, prendete me: ero stato assunto senza neanche aver fatto un colloquio. Io e Justin eravamo andati a Cambridge insieme; io avevo bisogno di soldi e lui di un coordinatore per l’inglese. Sapete, le scuole private pagano più di quelle pubbliche e avevo già alle spalle anni di esperienza in una scuola unificata. Povero Justin, doveva essere stata dura per lui sollevarmi dall’incarico. Quantomeno imbarazzante. Perché si era trattato più di una civile interruzione del rapporto di lavoro che di un licenziamento in tronco. Era stato gentile da parte sua, e io l’avevo molto apprezzato. Non potevo permettermi di perdere i contributi ed ero vicino alla pensione, perciò Justin aveva semplicemente accelerato il decorso naturale della mia carriera. In effetti eravamo entrambi vicini al pensionamento, ma la sua uscita di scena era stata ben diversa dalla mia. Avevo sentito dire che alcuni studenti si erano perfino commossi. Figuriamoci se avrebbero pianto per me. Be’, perché avrebbero dovuto farlo? Non meritavo quelle lacrime.
Non voglio che vi facciate un’idea sbagliata: non sono un pedofilo. Quel bambino non l’ho mai sfiorato, nemmeno con un dito. Ci mancherebbe altro, io non ho mai toccato i miei studenti. Il problema è che li trovavo di una noia mortale. È così terribile da dirsi di un bambino di sette anni? Immagino di sì, se detto da un insegnante. Ero stufo di leggere i temi barbosi che probabilmente alcuni scrivevano con impegno, ma soprattutto ero stufo della percezione che avevano di loro stessi, del fatto che, accidenti, credessero di avere pensieri interessanti da esprimere. E così una sera la goccia aveva fatto traboccare il vaso. La catarsi della penna rossa non funzionava più e, quando ero arrivato al tema di questo bambino di cui non ricordo il nome, avevo scritto un giudizio critico molto dettagliato sui motivi per cui non me ne importava un benemerito cazzo della sua vacanza nel sud dell’India dove aveva soggiornato insieme agli abitanti del posto. Sai che onore per quella povera gente! Ovviamente ci era rimasto male. Ovviamente, e mi dispiaceva. E ovviamente lo aveva raccontato ai genitori, e non mi dispiaceva affatto. Aveva accelerato il mio allontanamento e non c’è dubbio che avessi bisogno di staccare la spina, tanto per il loro quanto per il mio bene.
E così eccomi a casa con un sacco di tempo libero. Un insegnante d’inglese in pensione. Vedovo. Probabilmente sono stato fin troppo schietto: quello che ho detto sinora potrebbe risultare fuorviante. Potrebbe farmi apparire come un uomo crudele. E quello che ho fatto al bambino è stato crudele, lo ammetto. Ma normalmente non sono una persona cattiva. Tuttavia da quando è morta Nancy, ho lasciato che alcune cose mi sfuggissero di mano. Be’, molte cose, a dire il vero.
È difficile credere che, un tempo, fossi stato eletto Miglior Professore dell’Anno. Non dagli studenti della scuola privata, ma da quelli della pubblica in cui avevo insegnato prima. E non era successo una sola volta: avevo ricevuto il titolo per diversi anni di fila. In un caso, credo fosse il 1982, io e mia moglie Nancy avevamo ottenuto tutti e due il premio dalle nostre rispettive scuole.
Avevo iniziato a insegnare seguendo Nancy. Lei insegnava ai bambini dai cinque ai sette anni nella scuola di Jonathan, nostro figlio, mentre a me erano stati assegnati gli adolescenti tra i quindici e i sedici anni nella scuola in fondo alla strada. So che alcuni docenti la reputano una fascia d’età difficile, ma a me piaceva. L’adolescenza non è certo una passeggiata, perciò la mia idea era di dare tregua a quei poveri cristi. Non li ho mai costretti a leggere un libro se non volevano farlo. Una storia è sempre una storia. Non importa leggerla in un libro. Un film, uno sceneggiato televisivo, una commedia sono comunque racconti da seguire, interpretare, gustare. A quei tempi ci mettevo passione. Mi importava. A quei tempi. Ma ora non insegno più. Sono in pensione. Sono vedovo.
Catherine inciampa dando la colpa ai tacchi alti, ma sa che è perché ha bevuto troppo. Robert l’afferra appena in tempo per impedirle di cadere all’indietro sui gradini di cemento. Con l’altra mano gira la chiave e apre la porta d’ingresso, tenendola stretta per il braccio mentre la conduce all’interno. Lei calcia via le scarpe e cerca di dirigersi in cucina con un’andatura quantomeno dignitosa.
«Sono fiero di te» le dice Robert raggiungendola da dietro e cingendola con le braccia. Le bacia la pelle nel punto in cui collo e schiena si incontrano. Lei rovescia la testa all’indietro.
«Grazie» gli dice chiudendo gli occhi. Ma poi quell’istante di felicità si volatilizza. È notte. Sono a casa. E lei non vorrebbe andare a dormire nonostante sia esausta. Sa che non dormirà. Non dorme bene da una settimana. Robert non lo sa. Catherine finge che sia tutto a posto ed è riuscita a tenerlo all’oscuro. Finge di dormire distesa accanto a lui, nella solitudine dei propri pensieri. Dovrà inventarsi una scusa per spiegargli come mai non andrà subito a letto con lui.
«Tu va’ pure» gli dice. «Arrivo tra un minuto. Prima voglio controllare le e-mail.» Sorride con aria incoraggiante, ma non ce n’è bisogno. Robert deve alzarsi presto il giorno dopo, ecco perché Catherine apprezza ancora di più il fatto che quella sera lui si sia dimostrato felice di ricoprire il ruolo dell’accompagnatore silenzioso e sorridente, e di lasciare a lei il centro dell’attenzione. Non ha mai insistito per andare via. No, le ha concesso la libertà di godersi quel momento di gloria. Naturalmente anche lei lo ha fatto in molte occasioni per lui, ma Robert ha comunque recitato il suo ruolo con una certa grazia.
«Ti porto su un bicchiere d’acqua» le dice.
Sono appena rientrati dal ricevimento organizzato dopo la cerimonia di un prestigioso premio televisivo. Un premio per la televisione impegnata. Non soap opera. Non fiction. Televisione vera. Catherine ha vinto con un documentario sullo sfruttamento sessuale minorile. Bambini che nessuno si prende la briga di difendere, che nessuno degna di attenzione. La giuria ha trovato il suo film coraggioso. Anche lei è stata definita coraggiosa. Non ne hanno idea. Non hanno idea della persona che è. Non è stato coraggio. È stata determinazione nel raggiungimento dell’obiettivo. E probabilmente, sì, anche un po’ di coraggio. Riprese nascoste. Uomini senza scrupoli. Non adesso, però. Adesso è a casa. E, anche con le persiane nuove, teme di essere spiata.
Da qualche giorno, Catherine riempie le sue serate con una serie di distrazioni per impedirsi di pensare al momento inevitabile in cui dovrà distendersi nel letto, sveglia, al buio. È riuscita a ingannare Robert, pensa. È persino riuscita a giustificare le vampate e il sudore che si manifestano all’avvicinarsi della sera come un effetto indesiderato della menopausa. Ha altri effetti per adesso, certo, ma non le vampate. Anche se Catherine lo ha invitato ad andare subito a letto, non appena Robert è salito di sopra si è resa conto che avrebbe preferito averlo lì con sé. Vorrebbe avere il coraggio di dirgli tutto. Vorrebbe aver avuto il coraggio di dirglielo allora. Ma non lo ha fatto. E ormai è troppo tardi. È successo vent’anni fa. Se glielo dicesse adesso lui non capirebbe. Si lascerebbe accecare dal fatto che lei glielo ha tenuto nascosto per tutto quel tempo. Che ha omesso di dirgli una verità che aveva tutto il diritto di conoscere. È nostro figlio, santo cielo, lo sente esclamare.
Non ha bisogno di leggere uno stramaledetto libro per sapere che cosa è successo. Ricorda tutto nei minimi particolari. Suo figlio avrebbe potuto morire. Per tutti quegli anni lei ha protetto Nicholas. Lo ha protetto dalla verità. Gli ha permesso di vivere in una beata ignoranza. Non sa che per poco la sua piccola vita ha rischiato di spezzarsi. E se avesse serbato qualche ricordo dell’accaduto? Le cose sarebbero diverse? Lui sarebbe diverso? E il loro rapporto? È assolutamente sicura che non ricordi niente. Perlomeno niente che lo avrebbe portato vicino alla realtà dei fatti. Per Nicholas era un pomeriggio come un altro della sua infanzia. È anche possibile che lo ricordi come un giorno felice, suppone Catherine.
Se ci fosse stato anche Robert, sarebbe stato diverso. È naturale che sarebbe stato diverso. Non sarebbe successo niente. Solo che lui non c’era. E così lei non glielo aveva detto perché non ce n’era bisogno: non l’avrebbe mai scoperto. Ed era meglio così. È meglio così.
Apre il portatile e digita il nome dell’autore. Ormai è diventata un’abitudine. Lo ha già fatto nella speranza di scoprire qualcosa. Un indizio. Ma non ha trovato niente. Solo un nome: E.J. Preston. Quasi sicuramente uno pseudonimo. «Un perfetto sconosciuto, il primo e probabilmente l’ultimo romanzo di E.J. Preston.» Non si capisce nemmeno se sia un uomo o una donna. La casa editrice si chiama Ramnusia e, quando Catherine ha controllato, i suoi sospetti hanno trovato conferma, ossia il libro è autopubblicato. Prima non conosceva il significato di Ramnusia. Adesso sì. La dea della vendetta, Nemesi.
È un indizio, no? Forse per il sesso dell’autore. Ma è impossibile. Non può essere. E poi nessun altro, oltre a lei, conosceva i dettagli dell’accaduto. Nessuno che sia ancora in vita. Cerca qualche recensione. Non ne trova. Forse lei è l’unica ad averlo letto. E anche se ci fossero altri lettori, non immaginerebbero mai che è lei la donna al centro della storia. Invece qualcuno sì. Qualcuno lo sa.
Come accidenti ci è arrivato quel libro in casa sua? Non ricorda di averlo comprato. È semplicemente apparso in mezzo ai volumi sulla mensola accanto al letto. E comunque il trasloco è stato un caos. Scatoloni e scatoloni di libri ancora in attesa di essere riordinati. Forse ce lo ha messo lei. Lo ha preso da una scatola, affascinata dalla copertina. O forse era di Robert. Ha una marea di libri che lei non ha mai letto e che non riconoscerebbe mai. Libri vecchi di anni e anni. Lo immagina curiosare su Amazon, imbattersi in quel titolo accattivante e ordinarlo online. Per puro caso. Una sinistra coincidenza.
Ma un’altra possibilità inizia a prendere forma nella sua mente e Catherine comincia a credere che ce l’abbia messo qualcuno. Che qualcuno si sia introdotto nella loro abitazione, in quel posto che non riesce ancora a chiamare «casa». Che uno sconosciuto sia entrato in camera. Che abbia lasciato il libro sulla mensola accanto al letto. Con cautela. Senza toccare altro. Dal suo lato del letto. Ben sapendo qual è, il suo lato del letto. Dando l’impressione che ci sia finito da solo. I pensieri si assommano scontrand...