PARTE SECONDA
Innocenza sepolta
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ASSESTAMENTI
Contatto (Dimensione Italia)
Il Contatto va a prendersi una boccata di gas fuori da Dimensione Italia.
Lo scenario internazionale è sempre più confuso. Non si può più fare una guerra in santa pace. Bisogna giustificarsi, per dare un aiutino agli amici dell’ONU, e prestare la nostra forzalavoro. Occorre motivare la democrazia, piazzare uranio e armi di distruzione di massa nelle grotte del Medio Oriente. Bisogna sacrificare qualche testa. Occorre concedere supporto informatico, tattico, logistico agli interessi superiori, agli interessi dei superiori. È necessario eiaculare militari, pomparli di risoluzioni ONU e riempirli di stelline sulle spalle.
Il petrolio sta finendo e la richiesta d’oppio si è fatta più corposa: occorre democratizzare d’urgenza i paesi produttori.
L’aria sta finendo, non si respira più.
I ghiacci si sciolgono, l’ecosistema è fregato.
L’ecomafia è arrivata prima, come sempre.
Ci sono balene nei fiumi delle città e meduse in Norvegia. I pinguini si strappano la pelle, l’orso polare è solo un ologramma di Walt Disney.
Le lobby mondiali si uniscono tra loro, devono spartire le royalty con i gerenti di armi, fabbricati, telecomunicazioni, droga e religioni.
I cinesi? Inutile affrontarli: sono un miliardo e mezzo di potenziali kamikaze. Il mondo finirà coi musi gialli, tra non molto. L’ultimo cinese sulla faccia della terra dirà: abbiamo sbagliato tutto. I cinesi sono invincibili, sono di un altro pianeta. Sono alieni, ospiti nel globo sotterraneo, piccoli per autodifesa, quasi invisibili. Sotto terra, nei loro magazzini sporchi, dietro nomi con desinenze occidentali, dentro tutto il sistema bancario e immobiliare mondiale. I cinesi? Lasciamoli perdere. Guerra persa in partenza.
I nostri programmi sono meno ambiziosi.
I nostri programmi sono: meglio fottere oggi che carezzarci domani dividendo le briciole.
L’Islam? Un altro casino, un altro grosso bluff: dietro ci sono i soliti giganteschi fondi monetari. Dietro c’è il petrolio, ancora, e quegli sterminati campi d’oppio che facciamo finta di distruggere. È un gran buon motivo per continuare a far finta di baccagliare. È sempre un buon alibi per mantenerci stretti le nostre fasulle sovranità. Per mostrare la nostra faccia pulita, quella senza burqa.
L’Africa? L’Oceania? Chi se ne fotte! Sub-gente. Sub-problemi. Sub-appalti. Vedremo col tempo.
In Italia l’ordine è: facciamoci i cazzi nostri.
Gestiamo il nostro programmino massonico. Politica/mala/affari. Malapolitica, malaffare, in scala ridotta. Gestioni provinciali, contadine. Questo siamo, altro che impero.
I nostri limiti sono stati aggiornati, ridimensionati. Non confiniamo più con nulla di inadeguato.
Avanti così, impuniti.
Intoccabili, nel nostro infimo vivaio.
Il Contatto si è fatto nostalgico: rimpiange le minacce atomiche, le lotte armate, le stravaganti idee rivoluzionarie.
Roberto Bianchi (Roma)
È tempo di bilanci.
I numeri della superprocura si ammassano sulla sua scrivania. I numeri sono valori indiscutibili. Questi numeri lo hanno innalzato a un tale livello di popolarità da renderlo il traguardo dell’invidia di Rodolfo Adani e di Renato Rosi.
Qualcosa si spacca sempre, tirando le corde dell’ambizione, sta pensando Roberto Bianchi.
Anche tra amici, soprattutto tra soci.
Rodolfo Adani, in particolare, ha iniziato a sbracciare in maniera troppo disinvolta, a pretendere, a ostentare brame potestative.
Il Contatto era stato chiaro, fin dall’inizio: non cadete nel tranello della competizione, accontentatevi.
Rodolfo Adani no, non si era fatto bastare né impunità reiterate, né affari da decine di miliardi di euro. Mirava all’espansione, reclamava anche il ruolo di Pablo Gutierrez.
Roberto Bianchi aveva trovato la soluzione, partendo dalle priorità.
Infognare le indagini che riguardano Adani per non esporre nessun affiliato della consorteria ai tribunali e all’indignazione pubblica.
Trasferire tutti i fascicoli di pertinenza al suo ufficio, da ogni Procura di Dimensione Italia, avvalendosi dei suoi sacri numeri e dei solidi agganci politici.
Eseguire l’operazione di trasferimento allontanando le trombe della stampa.
Tenere sospesa una sola, e circostanziata, trattazione a carico di Adani, per farlo calmare. Puntargli qualche ipotesi di reato nelle tempie.
Sfruttare il competente carrierista in ascesa: il procuratore Cavezzi.
Il Contatto non ne era entusiasta, ma aveva avallato la strategia. Secondo lui non era necessario tenere Adani troppo in tensione. Secondo lui avrebbero dovuto comunicargli molto presto anche la dismissione dell’ultimo pericolo giudiziario, perché invece di ridimensionarsi Adani tendeva a scaldarsi troppo.
Roberto Bianchi si sta tormentando. Qualcosa non ha funzionato: secondo lui Adani potrebbe aver intuito la strategia alle sue spalle e potrebbe prendere in considerazione l’ipotesi di lanciare una stupida e avventata controffensiva.
Colpa mia, colpa mia! Si ripete Bianchi tra sé, perfettamente consapevole della responsabilità che graverebbe su di lui.
Meglio non riferire al Contatto, meglio aspettare.
Qualcosa si sporca sempre, trascinando le corde dell’ambizione.
Soprattutto quando le tattiche sono così polverose, quando il concetto di multiproprietà affonda in arroganti aspirazioni personali.
Roberto Bianchi scaccia via questi pensieri con una folata di fumo. Slega la cravatta, si distende sulla poltrona e torna ai suoi numeri leggendari.
Nei prospetti che gli hanno preparato i suoi assistenti è riportato il censimento del suo trionfo. I dati dei sequestri, degli arresti e degli interventi si coagulano nelle prime pagine dei giornali e nei servizi di telegiornali e talk show.
Numeri guerrieri, che combattono e abbattono il crimine.
Numeri mercenari, che razziano e rendono il crimine istituzionalizzato, all’insaputa della plebaglia.
Mercificazione di illusioni da snocciolare alla cittadinanza: Roberto Bianchi si punta uno specchio in faccia e inizia a recitare il discorso che dovrà tenere alla prossima conferenza stampa.
Globalia (Pioltello)
Sono immensa, impertinente, egocentrica.
Hanno chiuso tutti i dieci cinema e i quarantasette negozi del circondario, hanno chiuso i due centri commerciali presenti nel raggio di trenta chilometri. Al mio cospetto, apparivano come un paio di vecchie ciabatte.
Io divoro, anniento.
page_no="261" Io, Globalia, oggetto cult per banchieri e progettisti visionari, per investitori e stilisti, per tesi di laurea in sociologia urbana.
Sono esageratamente vigorosa, sono mostruosamente imponente.
Ho appena qualche acciacco d’acciaio e qualche insignificante rottura sulle mie groppe di cemento armato e colonnati di acciaio, dopo le ultime notti insonni.
Ma evito di farlo notare, ho quello stampo di orgoglio brevettato Calatrava.
Gli “apparati” dicono che sono immortale, indistruttibile, che posso sopportare qualunque disastro. Fanno anche alcuni esempi: un terremoto dell’ottavo grado della scala Mercalli, aggettivato da Wikipedia come rovinoso, mi farebbe il solletico. Col nono grado, disastroso, potrei avvertire leggeri brividi e col decimo forse mi si spezzerebbe un’unghia, cioè, secondo gli “apparati”, perderei le insegne all’ingresso. Un uragano al massimo mi scappellerebbe un po’, e forse ci rimetterei una letterina. Un incendio mi provocherebbe solo una marginale abrasione, senza considerare che ho a disposizione una folla di globuli rossi, estintori li chiamano gli “apparati”, appostati come guerriglieri e pronti a intervenire all’istante. Ho superato i crash test per gli attacchi terroristici, potrei cavarmela perfino in caso di assalto della Magistratura. Su questa ipotesi, uno degli “apparati” ha detto che il mio crollo sarebbe meno probabile di una rivoluzione e un altro apparato lo ha contraddetto rispondendo che i due eventi sarebbero strettamente collegati.
I “custodi sotterranei”, altri figuri così definiti dagli “apparati”, continuano a tormentarmi tutta la notte. Tecnicamente mi provocano gastrite, ulcera, colite.
Sono resistente, paziente, tollerante. Ci rido sopra, mi alzano il volume, mi fanno luccicare i denti, mi rendono presentabile, fanno partire a tutta velocità il trenino che mi attraversa in larghezza.
So bene che laggiù, nel mio grembo, succede qualcosa che potrebbe nuocere alla mia salute, alla mia tranquillità. Questo non l’hanno detto, gli “apparati”, ma l’ho capito da sola; si cresce in fretta, con genitori come i miei; s’impara subito, con i procreatori che ho avuto.
Nascondere il male, dicono.
È opportuno tenersi tutto dentro, ripetono in continuazione.
Pablo Gutierrez, Manuele Garuti
(carcere di Busto Arsizio)
Ha davanti lo stesso avvocato che gli spiegava come sistemare il denaro dei suoi profitti e renderlo irrintracciabile. Pablo Gutierrez non ha ancora perso la verve del leader ma quando gli urla contro: «Dove sono i miei soldi?» oppure: «Ti do cinque minuti per farmi uscire!» l’avvocato replica: «Abbassi il tono o le mando il mio assistente».
Pablo Gutierrez aveva colto i segnali dell’isolamento di cui era stato vittima, ma non era stato reattivo. Avrebbe dovuto organizzare la fuga, ma come sospettarlo, in così poco tempo? Con una spada e un giuramento tanto solenne, tra l’altro? Pablo Gutierrez si lancia nel suo flashback fissando le labbra scarne del suo avvocato.
Colombia: all’inizio era sempre un passo indietro rispetto ai colonnelli del boss. La morte di sua madre e il desiderio di raggiungerla presto lo spinsero a esagerare con assunzioni di droga e operazioni di terrorismo urbano. Non riuscì a morire e la sua progressione criminale lo portò a scalare posizioni all’interno delle gerarchie criminali, fino ad arrivare al cospetto dei leader. Nel frattempo, continuava a scaricare colpi di mitragliatori Sopmod M4 sui rivali e sui governanti, concludendo ottimi affari con la coca.
«Prendiamoci tutto» gli aveva consigliato il suo braccio destro, Ramirez. «Se tagliamo la testa al re e garantiamo al suo entourage un miglioramento economico, sarà una guerra lampo che ci consegnerà il potere.»
page_no="263" La decisione di Pablo era rimasta in bilico, ma lui era troppo distratto dalle putas, dalle giovanissime putas. Aveva ormai consolidato la sua posizione ai vertici e aveva la fiducia dei boss. Era ormai in prima fila, a trattare coca col mondo intero. Gli avevano poi affidato un incarico di responsabilità, l’Europa, dicendogli: «Andiamo a pulire gli sporchi liquidi con lo straccio italiano».
Pablo ci era cascato. Era stato soggiogato dagli altri boss colombiani, quelli più influenti di lui, che in patria lo temevano. In Italia era stato manipolato, prima lusingato e quindi frodato, dai suoi avvocati e da Alvaro Villaron.
Ma per quale motivo? Per prendersi il know-how del suo mercato, i suoi collegamenti, il suo denaro? Per liberarsi di lui?
Possibile, col placet della cupola colombiana, in accordo con la mala italiana, e sfruttando la sua piccina debolezza per non far saltare i consolidati circuiti del traffico di droga e i co-protagonisti implicati.
Pablo indirizza un labile pensiero a Bianca, una puta di gran classe. Solo un attimo, però, perché le labbra sottili del suo avvocato stanno strisciando per dire: «Ce ne stiamo tranquilli qualche giorno, qui dentro».
Dire tutto? Confessare? Portarseli dietro?
Mai, nessuno gli darebbe credito e il livello di corruzione è elevatissimo.
Mai, sarebbe muerte.
Pablo sa che sta per arrivare la loro offerta, attraverso le parole di quell’avvocato, che intanto con voce stridula dice: «Sarà fuori molto presto».
Restare in silenzio e attendere, questo è quanto c’è da fare.
Ma ora Pablo sa che l’avvocato parlerà.
Infatti: «Bocca chiusa o morte».
«Claro.»
«Evasione e sistemazione.»
«Mi dinero?»
«Certo, tutto.»
page_no="264" «Dónde?»
«Australia.»
«Bueno.»
«Ci si vede, signor Gutierrez.»
«En infierno, maricon.»
L’avvocato stringe la sua ventiquattrore. Sta per varcare il portone del carcere per andarsene ma poi ci ripensa. Si siede su uno sgabello e inizia a considerare gli eventi degli ultimi mesi. Capisce che Gutierrez ha fallito il suo esame di laurea criminale e che, con l’irruzione nella villa, i gerarchi hanno deciso la sua estromissione. Eliminarlo sarebbe stato sconveniente, in Italia, ma probabilmente, nel luogo scelto quale sua destinazione, l’esecuzione è stata già pianificata.
Frequentare abitualmente villa Gutierrez ha sortito molti altri effetti collaterali: Villaron, Bianca, Carlos.
Il fatto che Alvaro Villaron non sia nelle informative della Procura può significare soltanto che si tratta di un infiltrato e la faccenda puzza di Servizi segreti. Villaron è un personaggio dentro a troppe faccende oscure: la sua eventuale sparizione, pensa, non dovrebbe causare indagini troppo pignole.
Garuti sa anche che Villaron sta continuando a gestire tutte le pratiche relative ai traffici illeciti insieme ad altri due uomini. Nonostante la fiducia che Gutierrez gli ha accordato, è Carlos il referente più intimo del boss: l’avvocato è certo che Gutierrez abbia nascosto altro denaro in un luogo segreto. Garuti pensa: potrei avere tutto, la gestione della ...