La caduta dell'aquila
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La caduta dell'aquila

  1. 432 pagine
  2. Italian
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La caduta dell'aquila

Informazioni su questo libro

Per alcuni Cesare è il nome di un traditore della patria, per altri quello di un eroe. Un destino stranamente ambiguo per un uomo che non è abituato a esitare. Che ha attraversato il Rubicone e ha marciato verso Roma in armi, sfidando la legge e suscitando l'ira di Pompeo e del Senato. Ora i suoi avversari non sono più barbari da sottomettere nel nome della Repubblica, questa volta è contro la sua gente che dovrà combattere, in una guerra civile che lo porterà di nuovo lontano dalla città eterna. In campi di battaglia che, ancor prima del suo arrivo, già risuonano della sua fama, tra la Grecia, l'Asia e l'Egitto della splendida Cleopatra, si ammanterà di nuove vittorie. Ancora una volta si leveranno le armi, cadranno i suoi avversari, ripiegheranno infine gli eserciti nemici, decretando un solo vincitore. Saranno anni intensi e dolorosi, e solo al termine di lunghe peregrinazioni Cesare potrà tornare a Roma in trionfo, e qui gettare le basi di quello che diverrà il più grande Impero di tutti i tempi. Ma quanto più in alto vola l'aquila, tanto più rovinosa è la sua caduta, quando la storia ha deciso un epilogo che sembra non rendere giustizia.

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Informazioni

PARTE PRIMA

1

Pompeo parlava martellando le parole a una a una, ritmicamente. «Per avere così agito, Cesare è da oggi dichiarato nemico di Roma. Gli sono revocati titoli e onori; non ha più il diritto di comandare le legioni. Pagherà il fio con la vita. È guerra.»
Il silenzio era piombato sulla Curia dopo il tempestoso dibattito; i senatori apparivano tesi in viso. I messaggeri che avevano sfiancato i cavalli per raggiungerli non avevano modo di sapere a quale velocità avanzassero le legioni della Gallia che, attraversato il Rubicone, procedevano rapide verso meridione.
Dopo due giorni di fatiche Pompeo era visibilmente provato, eppure si ergeva diritto nell’aula del Senato, perché l’esperienza gli dava la forza di tenere a bada l’assemblea. Fissava i senatori che a poco a poco abbandonavano l’espressione irrigidita, e li vide che a dozzine si scambiavano occhiate lanciandosi messaggi. Molti di loro ancora gli rimproveravano i disordini scoppiati in città tre anni prima. Le sue legioni non avevano saputo mantenere l’ordine e da quel conflitto era scaturita la sua nomina a dittatore. Sapeva che non poche voci rumoreggiavano perché rinunciasse al potere e si ripristinassero le elezioni dei consoli. L’edificio stesso in cui si trovavano riuniti rappresentava con il suo odore di calcina fresca e di legno un costante monito. Le ceneri della vecchia Curia erano state rimosse, ma restavano le fondamenta a muta testimonianza delle distruzioni e delle rivolte in città.
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Pompeo si chiedeva su chi avrebbe potuto fare affidamento in quel conflitto. Chi disponeva della forza che gli era necessaria? Non si faceva illusioni. Caio Giulio avanzava verso sud al comando di quattro legioni di veterani e a Roma nessuno poteva tenergli testa. Tra pochi giorni il vittorioso comandante delle guerre in Gallia avrebbe bussato alle porte della città e alcuni di quegli uomini seduti davanti a lui in quel momento avrebbero levato la loro voce potente per lasciarlo entrare.
«Ci aspettano scelte difficili» disse.
I senatori lo fissarono intensamente, valutando ora la sua forza ora la sua debolezza. Un minimo errore e lo avrebbero dilaniato, Pompeo lo sapeva bene. Non avrebbe dato loro l’occasione.
«Ho delle legioni in Grecia che non sono state contagiate dall’entusiasmo della feccia di Roma. Ci sono, sì, dei traditori vicino a noi, ma la legge non ha perduto la sua voce vigorosa nei nostri domini.»
Li fissava attento a cogliere ogni sguardo sfuggente, ma tutti gli occhi erano puntati su di lui.
«Senatori, non abbiamo altra scelta se non lasciare Roma per raggiungere la Grecia e lì raccogliere i nostri eserciti. In questo momento il nucleo principale delle forze di Cesare è stanziato in Gallia. Se si muoverà per congiungersi agli altri contingenti, tutta l’Italia cadrà prima che noi abbiamo uomini sufficienti per contrastarlo sul campo. Non intendo perdere la corsa e arrivare in ritardo. Meglio agire sul sicuro e unirci ai nostri eserciti. Ci sono dieci legioni in Grecia pronte a rispondere al richiamo contro il traditore. Non le deluderemo.
«Se rimarrà a Roma, torneremo per cacciarlo, proprio come fece Cornelio Silla con suo zio, Mario. Dobbiamo essere uniti nella battaglia contro di lui. Ce lo ha fatto capire chiaramente nel momento in cui ha ignorato i legittimi ordini del Senato. Non c’è spazio per gli accordi; non c’è pace finché vivrà. Roma non può avere due padroni e io non permetterò a un generale canaglia di distruggere quello che abbiamo costruito qui.»
Sporgendosi dal rostro Pompeo continuò a parlare con voce meno aspra. Sentiva nel naso l’odore acuto di olio e cera.
«Se a causa della nostra debolezza gli sarà consentito di vivere e trionfare, allora ogni generale, di stanza in luoghi lontani da Roma, avrà la tentazione di fare lo stesso. Se non annientiamo Cesare, la città non conoscerà pace. Quello che abbiamo costruito si disintegrerà nelle ininterrotte guerre che dureranno per generazioni finché non rimarrà niente a dimostrare che noi siamo stati protetti dalla benevolenza divina e che ci siamo sempre battuti per l’ordine e la legalità. Io sfido colui che vuole strapparci tutto ciò. Lo sfido e lo vedrò morire.»
Molti si erano alzati in piedi e lo fissavano con sguardo acceso. Pompeo lanciò una rapida occhiata a quegli uomini più superbi che coraggiosi, per lui spregevoli. Non erano mai mancati gli oratori in Senato, ma il rostro lo teneva lui.
«La mia legione qui non è forte e soltanto uno stolto negherebbe l’importanza delle battaglie in Gallia. Neppure con le guarnigioni dislocate lungo le grandi vie di comunicazione potremmo tenergli testa ed essere sicuri di vincere. Non pensate che affronti questa situazione con animo leggero. Accolgo la notizia con dolore e rabbia, ma non lo respingerò sdegnosamente ricacciandolo dalle porte della città per poi essere costretto a cedere e perdere la città stessa.»
Tacque e mosse leggermente la mano verso quelli in piedi. Confusi, costoro tornarono a sedersi con la fronte aggrottata.
«Quando arriverà, troverà la Curia vuota e le porte divelte dai cardini.»
Attese, nel tumulto che si levò non appena i senatori capirono che non intendeva andarsene da solo.
«Quanti di voi, se rimarranno indietro, gli si potranno opporre mentre i suoi legionari stupreranno le loro mogli e figlie? Cesare arriverà assetato di sangue e non troverà niente! Siamo noi il governo, il cuore della città. Dove siamo noi, lì è Roma. Cesare non sarà altro che uno spietato invasore senza di voi che apponete il sigillo della legalità sulle sue parole e gesta. Gli negheremo la legittimazione.»
«Il popolo penserà che...» si levò una voce dalle ultime file.
Pompeo urlò fino a sopraffarla. «Il popolo subirà, così come ha sempre subìto le vicende della storia! Dovrei lasciarvi qui mentre raccolgo un esercito per conto mio? Quanto tempo resisteresti sotto tortura, Marcello? O qualsiasi altro di voi? Questo Senato diventerebbe suo e l’ultimo baluardo cadrebbe.»
Vedendo con la coda dell’occhio che Cicerone si alzava per prendere la parola, Pompeo cercò di reprimere l’irritazione. Davanti alla sua esitazione i senatori volsero lo sguardo al piccolo senatore in piedi. Cicerone cominciò prima che gli fosse fatto segno di tornare a sedersi.
«Hai detto poco dei comunicati che abbiamo inviato a Cesare. Perché non abbiamo discusso la sua offerta di fermarsi?»
Pompeo corrugò la fronte notando che molti intorno a lui annuivano. Capì che non avrebbero accettato una risposta minacciosa.
«Le sue condizioni erano inaccettabili, Cicerone, e lui lo sapeva benissimo. Cerca di metterci l’uno contro l’altro con le sue promesse. Credi davvero che fermerebbe la sua avanzata a sud solo perché io me ne sono andato da Roma? Non lo conosci.»
Cicerone incrociò le braccia sul petto esile, levando una mano fino a toccarsi la pelle della gola.
«Forse è questa la sede per dibattere questo punto. Meglio esporlo con chiarezza davanti a tutti che discuterne in privato. Hai risposto alla sua offerta, Pompeo? Ricordo che hai detto che lo avresti fatto.»
I due uomini si fissarono negli occhi, e Pompeo afferrò il rostro con forza quasi dovesse lottare per non perdere la pazienza. Cicerone era un uomo di sottile ingegno, e Pompeo sperava di poter contare su di lui.
«Ho fatto tutto quello che avevo promesso di fare. Ho scritto un messaggio ufficiale con il sigillo del Senato ordinandogli di tornare in Gallia. Non intavolerò alcuna trattativa mentre le sue legioni minacciano Roma, e lui lo sa bene. Le sue parole servono solo a creare confusione in noi e a provocare ritardi. Non significano niente.»
«È vero» disse Cicerone alzando la testa «ma credo che tutti noi dovremmo essere messi al corrente di ogni possibile informazione.» Evitando di proposito di notare la sorpresa di Pompeo, continuò rivolgendosi ai senatori seduti sugli scranni intorno a lui. «Mi chiedo se la nostra discussione riguardi un generale romano o se parliamo di un altro Annibale, che non sarà soddisfatto se non quando ci avrà strappato di mano il potere. Che diritto ha Cesare di esigere che Pompeo si allontani da Roma? Ci siamo messi a negoziare con gli invasori? Noi, la più alta autorità a Roma, siamo minacciati da un cane rabbioso che conduce gli eserciti che abbiamo costituito e addestrato. Non sottovalutate il pericolo di tutto questo. Sono d’accordo con Pompeo. Sarà la peggiore sofferenza che mai abbiamo dovuto sopportare, ma dobbiamo ritirarci per raccogliere in Grecia degli uomini leali. La legge non deve piegarsi ai capricci dei nostri generali, se non vogliamo diventare una tribù di selvaggi.»
Cicerone si sedette, dopo avere scambiato con Pompeo un rapido sguardo carico di significato. La sua presa di posizione avrebbe convinto molti tra gli indecisi e i deboli. Pompeo chinò la testa in segno di ringraziamento.
«Non abbiamo il tempo per dibattere a lungo» disse. «Un altro giorno non servirà a niente tranne che a portare Cesare più vicino a noi. Chiedo che si voti ora e si agisca di conseguenza.»
Ben poche erano le possibilità di dissenso sotto lo sguardo severo di Pompeo, proprio come aveva voluto. A uno a uno i senatori si levarono per esprimere il loro sostegno, e nessuno osò astenersi. Alla fine Pompeo annuì soddisfatto.
«Avvertite i familiari e preparatevi a partire. Ho richiamato in città tutti i soldati stanziati nelle guarnigioni lungo le strade che Cesare percorrerà. Saranno qui per allestire la flotta e organizzare la nostra partenza.»
Seduto sul tronco di un albero caduto, in mezzo a un campo di frumento, Caio Giulio Cesare sentiva il sole battergli sulla schiena. Ovunque girasse lo sguardo vedeva le chiazze scure dei suoi uomini che riposavano tra le messi dorate e mangiavano carne fredda e verdura. Era stato loro proibito di accendere i falò per cuocere il cibo mentre attraversavano la pianura dell’Etruria. Su quei campi inariditi, una sola scintilla avrebbe fatto divampare cortine di fiamme devastanti per i raccolti. Cesare quasi sorrise vedendo quel paesaggio tranquillo. Vicino a lui, quindicimila soldati tra i più esperti del mondo ridevano e cantavano come bambini. Che strano trovarsi lì, sotto il cielo aperto! Ascoltava il richiamo degli uccelli come faceva da ragazzo, e quando si chinò per raccogliere una manciata di foglie morte nel palmo della mano seppe di essere a casa.
«È bello essere qui» disse rivolto a Ottaviano. «Te ne sei accorto? Avevo quasi dimenticato cosa vuol dire essere nella propria terra, in mezzo alla propria gente. Lo senti il coro? Impara le parole di quella canzone, ragazzo mio. Sarebbero onorati di insegnartele.»
Lentamente sfregò le foglie umide e le lasciò cadere. I soldati della Decima cantavano, e le voci si levavano sulla distesa dei campi.
«Ricordo che gli uomini di Mario intonavano questa stessa canzone, anni fa» disse. «Sono cose che in qualche modo sopravvivono.»
Ottaviano lanciò un’occhiata al suo generale, inclinando di lato la testa mentre cercava di capire il suo umore. «Sì, è vero. Siamo nella nostra terra» disse.
«È la prima volta in dieci anni che mi trovo così vicino a Roma. La percepisco all’orizzonte» disse Giulio sorridendo. «È vero, te lo giuro.» Levò la mano e indicò le basse colline, ricoperte di messi. «Laggiù, ci aspetta. Forse ci teme, mentre Pompeo minaccia e strepita.»
Nel dire queste ultime parole gli occhi assunsero un’espressione fredda. Avrebbe proseguito, ma in quel momento, cavalcando attraverso i campi e lasciando dietro di sé un varco zigzagante, arrivò Bruto. Cesare si levò in piedi e gli strinse la mano.
«Gli uomini mandati a perlustrare il terreno riferiscono di undici coorti, forse dodici» riferì Bruto.
Caio Giulio ebbe un moto di contrarietà. La sua avanzata verso sud aveva svuotato le guarnigioni e le fortezze, e gli uomini, usciti dalle loro gabbie, ora si trovavano a breve distanza. Soldati esperti o no, erano seimila: troppi per poterseli lasciare alle spalle.
«Si sono radunati a Corfinio» proseguì Bruto. «La città sembra un vespaio che sia stato disturbato. Forse sanno che siamo nelle vicinanze, oppure si preparano a ritornare a Roma.»
Caio Giulio si guardò intorno, calcolando quanti legionari si trovavano a portata della sua voce in attesa di ordini. Il pensiero di scatenarli contro altri soldati romani era quasi blasfemo.
Pompeo aveva fatto un’abile mossa svuotando le guarnigioni. Quegli uomini sarebbero stati più utilmente impiegati a difendere le mura di Roma che a farsi massacrare dai veterani delle guerre in Gallia. Cesare sapeva di dover agire in fretta imprimendo un sigillo di sangue sulla decisione presa in riva al Rubicone. Continuava a restare in silenzio, fissando il vuoto, mentre Bruto scalpitava per quell’indugio. Gli uomini di Corfinio erano inesperti. Sarebbe stato un massacro.
«Sono dati attendibili?» chiese a bassa voce.
«Per quanto è possibile» rispose Bruto stringendosi nelle spalle. «Non ho voluto che i nostri rischiassero di essere visti, ma il terreno è sgombro. Non ci sono agguati. Direi che sono gli unici soldati tra noi e Roma. E li possiamo catturare. Per tutti gli dèi! Sappiamo bene come si fa a irrompere in una cittadina.»
In quel momento Cesare scorse Domizio e Ciro che, insieme a Regolo, venivano verso di lui. Li seguiva, a breve distanza, Marco Antonio. Lo angosciava il pensiero di dare l’ordine di versare sangue romano in terra romana. Una volta che avesse annientato quelle vite, contro di lui si sarebbero levati tutti gli uomini migliori, i più leali. Le legioni avrebbero giurato di vendicarsi a costo della vita. La guerra civile sarebbe stata una prova di forza e di forze, e avrebbe potuto perdere. Pensava febbrilmente e si asciugò il sudore dalla fronte.
«Se li uccideremo, distruggeremo ogni speranza di pace» disse lentamente. Domizio e Bruto si scambiarono una rapida occhiata mentre Caio Giulio passava in rassegna i propri pensieri ad alta voce. «Abbiamo bisogno di... astuzia, non meno che di un braccio forte contro la nostra gente. Dobbiamo conquistare la lealtà del popolo, e non ci riusciremo se uccideremo uomini che amano Roma come l’amo io.»
«Resisteranno» disse Bruto arrossendo per l’irritazione. «Non lo faresti anche tu se un esercito marciasse contro la nostra città? Combatteranno se non altro per rallentare la nostra avanzata; lo sai che sarà così.»
Cesare corrugò la fronte per l’ira sempre prossima ad affiorare. «Sono nostra gente. Non è cosa da poco parlare di ucciderli. Non lo è per me.»
«La decisione l’hai presa quando hai varcato il fiume e sei avanzato verso sud» replicò Bruto rifiutandosi di cedere. «Sapevi quale sarebbe stato il prezzo. Vuoi andare da solo e consegnarti a Pompeo?»
Alcuni degli astanti trasalirono a quel tono. Ciro mosse le spalle possenti, manifestando rabbia. Ignorandoli tutti, Bruto continuò a fissare il suo generale.
«Se ti fermi adesso, moriremo tutti. Pompeo non ci perdonerà di avere minacciato Roma. Lo sai bene. Ci inseguirebbe in Britannia se ne fosse costretto.» Lo guardò diritto negli occhi e per un momento gli tremò la voce. «Non deludermi. Sono arrivato con te fin qui. Dobbiamo andare fino in fondo.»
Restituendogli lo sguardo implorante in silenzio, Cesare gli pose una mano sulla spalla. «Sono nella mia terra, Bruto. Mi è doloroso uccidere gli uomini della mia città. Mi rimproveri per questa esitazione?»
«Che alternativa hai?»
Caio Giulio cominciò a camminare avanti e indietro, sul frumento schiacciato. «Se arriverò al potere...» Tacque. Rimase immobile, quasi raggelato mentre nella sua mente prendeva corpo un’idea. Riprese a parlare più in fretta: «E se dichiarassi illegittima la dittatura di Pompeo? Potrei entrare a Roma per restaurare la Repubblica. Così dovranno accogliermi... un salvatore della patria. Adàn! Dove sei?» chiamò girandosi verso l’altro lato del campo. Lo scriba spagnolo arrivò di corsa. «Ecco la risposta, Bruto» disse Cesare con lo sguardo acceso. «Adàn? Voglio che a ogni comandante romano sia inviata una lettera. Sono passati dieci anni da quando ero console; nulla mi vieta di levarmi ancora una volta a prendere la parola. Di’ loro... Contesto la dittatura... Pompeo non vi metterà mai fine.»
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Guardava impaziente Adàn che si dava da fare con le tavolette.
«Comunica loro che rispetterò le magistrature e la Curia, che solo Pompeo è mio nemico. Di’ che quanti si uniranno a me per restaurare la Repubblica di Mario e la sicurezza esistente in passato saranno bene accolti. Porto con me le ricchezze della Gallia e Roma rinascerà con quello che ho conquistato per la sua grandezza.
«Comunica tutto questo, Adàn. Di’ che non ucciderò nessun romano se non sarò costretto a farlo, che onorerò le tradizioni come non ha fatto Pompeo. È stato lui a far bruciare la Curia affidata alla sua protezione. Gli dèi hanno dimostrato di essergli ostili
Scoppiò a ridere e gli uomini intorno lo guardarono divertiti. Scosse la testa vedendo la loro espressione.
«Mi crederanno, vorranno credermi. Esiteranno e si chiederanno se sono il difensore delle antiche libertà.»
«Lo sei?» chiese piano Adàn.
Caio Giulio gli lanciò uno sguardo acuto. «Se così vorrò. Il mio primo gesto lo compirò a Corfinio. Se si arrenderanno, li risparmierò, se non altro per diffondere la voce.»
Il suo buon umore era contagioso e Adàn sorrise mentre, intento a scrivere sulla cera molle, si sforzava di tacitare la voce interiore che lo prendeva in giro per come si lasciava incantare facilmente da quell’uomo.
«Non si arrenderanno» disse Domizio. «Pompeo li farebbe giustiziare come traditori. Hai visto quello che ha fatto alla De­cima.»
«Può essere che si comporti così, ma in tal caso mi agevo­lerà.» Cesare aggrottò la fronte. «A favore di chi ti metteresti, Domizio? Dell’uomo che si schiera dalla parte della legge e del console, che libera i romani perbene, o di chi li uccide? Quale dei due è più adatto a governare Roma?» Sorrise vedendo che Domizio annuiva lentamente.
«Vedi? Non sarà facile per loro condannarmi se mostrerò clemenza. Saranno confusi, Domizio. Pompeo non saprà come reagire.»
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Si volse quindi a Bruto, il viso acceso dall’energia di una volta.
«Ma prima dobbiamo catturare le guardie delle guarnigioni e senza causare un bagno di sangue. Le ridurremo a un tale livello di panico che non avranno la possibilità di combattere. Chi è il loro capo?»
Bruto aggrottò la fronte, ancora disorientato per l’improvviso cambio di umore di Cesare che, dimenticando la cupa incertezza che lo aveva pervaso nella marcia verso sud, all’improvviso era tornato quello dei tempi della Gallia. Ne fu spaventato.
«I nostri ricognitori non hanno visto i vessilli delle legioni» disse rigidamente. «Chiunque sia è un ufficiale di alto livello.»
«Speriamo che sia anche ambizioso» replicò Giulio. «Sarà più facile se riusciremo ad allontanare le sue guardie dalla città. Lo tirerò fuori con la Decima. Vedremo se viene. Se possiamo prenderli nei campi, saranno nostri.»
Quelli intorno a loro che avevano ascoltato cominciarono ad...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Colophon
  4. Parte Prima
  5. Parte Seconda
  6. Parte Terza