PARTE SECONDA
La Gallia
22
«E allora, perché stai con lui?» chiese Cabera. Il guerriero con l’armatura d’argento che stava alle sue spalle mostrava solo a tratti un lampo del giovane che era stato. Pochi altri, all’accampamento, avrebbero avuto il coraggio di fare a Bruto quella domanda.
Guardarono Giulio salire i gradini di quercia del vallo degli arcieri, fino in cima alla palizzata che avevano costruito. Era troppo lontano per distinguere i particolari, ma Bruto vide il sole illuminare la sua corazza. Distolse gli occhi, poi li posò sul medico, come se si fosse dimenticato della sua presenza.
«Guardalo» rispose. «Meno di due anni fa, appena tornato dalla Spagna non aveva niente e adesso è console e il Senato gli ha concesso un mandato in bianco. Chi altro mi avrebbe portato qui, al comando della mia legione? Chi altro mi avresti consigliato di seguire?»
Parlava con amarezza e Cabera temette per il futuro di quei due uomini che aveva conosciuto da ragazzi. Aveva sentito com’era andato l’addio a Servilia, anche se Bruto non gliene aveva mai parlato. Avrebbe voluto chiederglielo, almeno per poter valutare i danni che ne erano derivati.
«È il tuo più vecchio amico» disse e Bruto parve agitarsi nel sentirselo ricordare.
«E io sono la sua spada. Ripenso con calma a quello che ha fatto e ancora non ci credo. Possibile che siano così stupidi a Roma da non vedere la sua ambizione? Giulio mi ha detto del patto che ha stabilito con loro e non riesco a convincermi che abbiano accettato. Pompeo crede di aver ottenuto la parte migliore? Certo, la città è sua, ma come se lui fosse un inquilino che aspetta il ritorno del padrone di casa. Il popolo lo sa. Hai visto anche tu che folla era venuta al Campo Marzio per vederci partire. Pompeo è un imbecille se s’illude che Cesare si accontenterà di qualcosa che sia meno di una corona.»
Bruto s’interruppe e si guardò intorno per assicurarsi che nessuno l’avesse sentito. Stava appoggiato con il medico alla fortificazione. C’erano voluti mesi a costruirla. L’altezza del vallo corrispondeva alla statura di tre uomini messi uno sulle spalle dell’altro. Si ergeva sulle rive del Rodano e ne dominava il corso intorno al confine nord della provincia romana. Era solido come una barriera, come le Alpi.
Il ferro e la pietra impiegati sarebbero bastati a fare affogare qualsiasi esercito avesse tentato di attraversare il fiume. I legionari contavano sulla propria esperienza, erano abituati a stare all’erta, ma nessuno di loro pensava che Giulio si sarebbe accontentato di un sistema di fortificazione normale, dopo che si era sparsa la voce del documento che aveva portato con sé.
Lo aveva mostrato al pretore della piccola provincia romana, annidata ai piedi delle Alpi e lui era impallidito, mentre lo leggeva, e aveva passato un dito riverente sul sigillo del Senato. Non aveva mai visto un ordine così categorico e assoluto e non gli era rimasto altro che chinare la testa e riflettere su tutto quanto ne sarebbe conseguito. Pompeo e Crasso non avevano insistito sui particolari, ma Bruto sapeva che Giulio aveva dettato la lettera ad Adàn e poi l’aveva mandata a loro perché apponessero i sigilli e il voto del Senato. Era breve ed esauriente nell’attribuirgli tutti i poteri in Gallia e i legionari che erano con lui lo sapevano.
Cabera si passò una mano sui muscoli allentati del viso e Bruto lo guardò con affetto. Dopo lo sforzo compiuto per far guarire Domizio, aveva sofferto di una forma di debolezza che gli afflosciava una guancia e gli rendeva quasi inutilizzabile un lato del corpo. Non avrebbe più potuto tirare con l’arco e, durante la marcia attraverso le Alpi, gli uomini della Decima lo avevano portato in lettiga. Non si era mai lamentato. Bruto pensava che fosse solo la sua intensa curiosità a tenerlo in vita. Non voleva morire semplicemente perché c’erano tante cose da vedere e la Gallia appariva, a lui come agli altri, selvaggia e interessante.
«Ti senti male?» gli chiese Bruto.
page_no="224" Cabera si strinse nelle spalle meglio che poté e si tolse la mano dal viso. Aveva una palpebra semichiusa e ogni tanto, con un gesto che era diventato abituale, si asciugava un angolo della bocca perché gli si formava una goccia di saliva.
«Non sono mai stato così bene come in compagnia di questo carissimo generale romano, che ho conosciuto quando era ancora un bambino con il moccio al naso. Mai stato meglio. Mi dispiace solo non poter godere della vista dall’alto, avrei bisogno di qualcuno che mi portasse su, perché per arrampicarsi ci vogliono gambe forti.»
Bruto si alzò. «Stavo per salire anch’io. Gli Elvezi si stanno riunendo sull’altra riva del fiume. Quando sentiranno che Giulio non li lascia attraversare la nostra piccola provincia, sarà interessante osservare come reagiranno. Aggrappati alle mie spalle. Per tutti gli dèi, non pesi niente!»
Il vecchio medico si adattò a farsi trasportare a cavalcioni da Bruto, che lo teneva per le gambe, assicurandosi al collo con il braccio destro mentre l’altro pendeva inerte.
«È la qualità del fardello che conta, Bruto, non il peso» replicò e, sebbene pronunciasse le parole in modo confuso per la malattia, Bruto capì e sorrise.
* * *
Giulio, dall’alto del bastione, guardava lo scorrere veloce delle acque del Rodano, bianche e ribollenti nei punti in cui la corrente era più forte. In lontananza, sull’altra riva, si vedeva una folla di uomini, donne e bambini. Alcuni stavano seduti con i piedi nell’acqua, come in un qualsiasi pomeriggio di ozio. I bambini e i vecchi portavano tuniche semplici, strette alla vita da una cintura o da un pezzo di spago. Molti avevano i capelli castani, ma si vedevano anche teste bionde e rosse. Trasportavano, su carri tirati da buoi e asini, una enorme quantità di cibo e ogni genere di rifornimenti, necessari alla lunga marcia di tante persone. Giulio capiva le loro difficoltà, perché sapeva quali problemi lui stesso aveva dovuto affrontare per dare da mangiare e da bere ai suoi legionari. Con tante bocche affamate, non sarebbe stato possibile restare per molto tempo nello stesso posto e, lungo il cammino, avrebbero continuato a impossessarsi di ogni animale vivo che gli fosse capitato sotto mano, impoverendo le riserve di quelle terre per generazioni. Gli Elvezi si erano certamente lasciati ampie zone di povertà alle spalle.
page_no="225" I loro soldati si distinguevano dagli altri perché portavano delle strane armature di cuoio scuro. Controllavano la folla, richiamando chi si avvicinava troppo all’acqua. Cesare vide un soldato estrarre la spada e usarla, con la lama piatta, per creare lo spazio sufficiente a trasportare un barcone fino al fiume. Nella confusione che seguì, sentì levarsi una melodia ma non vide chi suonava perché c’era troppa folla.
Gli Elvezi calarono il barcone nel fiume, scandendo il ritmo della fatica con il canto, e lo tennero fermo nell’acqua poco profonda finché una squadra di rematori non ebbe preso posto. C’erano tre uomini per parte, ma Giulio capì che avrebbero fatto molta fatica a lottare contro la corrente che li spingeva verso la foce. Il sospetto di un’invasione era assurdo e non c’era tensione tra i Romani che osservavano la manovra.
Anche una valutazione numerica era impossibile. Il console aveva sentito dire che gli Elvezi avevano bruciato le loro terre, nell’abbandonarle per andare verso sud e non dubitava che fosse così. I membri delle numerose tribù avevano lasciato le loro case e, a meno che qualcuno non li fermasse, intendevano attraversare la stretta provincia romana e insediarsi alla base delle Alpi.
«Non ho mai visto una migrazione così estesa» commentò Giulio, quasi tra sé.
L’ufficiale romano al suo fianco lo guardò; aveva salutato con gioia l’arrivo delle nuove legioni, soprattutto quella dei veterani della Decima. Solo qualcuno, nell’avamposto commerciale, era stato disturbato dal cambiamento portato dall’autorità di Giulio, ma per gli altri era stato come immergersi di nuovo, all’improvviso, nell’atmosfera forte e viva della loro vecchia città. Parlavano tra loro con contenuta allegria e nuove speranze per i loro affari. Non avrebbero più dovuto sopportare l’umiliazione dei mercanti galli e sapere che erano tollerati ma non accettati. Con una sola legione, l’avamposto non era tenuto in nessuna considerazione a Roma e, senza il commercio del vino, sarebbe stato completamente abbandonato. Quelli che sognavano ancora una promozione, una possibilità di carriera avevano accolto Cesare a braccia aperte, soprattutto il loro comandante, Marco Antonio.
Quando Giulio gli aveva presentato gli ordini del Senato, il generale aveva lasciato che, lentamente, un ampio sorriso gli illuminasse il volto.
page_no="226" «Finalmente si entra in azione» aveva esclamato. «Avevo scritto molte lettere, ma ormai avevo perso la speranza di una risposta.»
Giulio era preparato ad affrontare un disorientamento iniziale e anche una minaccia di rivolta. Era entrato nella città romana a viso duro, per imporre, fin dall’inizio, la propria volontà, ma l’accoglienza aveva disperso la tensione e lui aveva sorriso dell’entusiasmo di Marco Antonio. Era bastato poco perché trovassero, l’uno nell’altro, qualcosa da apprezzare. Cesare aveva ascoltato con attenzione il resoconto del generale sulle condizioni della regione e sulla precarietà della tregua con le tribù locali. Marco Antonio non gli aveva taciuto le complicazioni che incontravano ogni giorno, ma aveva mostrato una profonda conoscenza della situazione e il console lo aveva inserito immediatamente nel numero dei suoi consiglieri.
Forse a qualcuno non era piaciuto che nel gruppo fosse incluso un membro fino allora estraneo, ma non c’erano state proteste. Marco Antonio era da quattro anni in quella provincia della Gallia e aveva tracciato un quadro dettagliato della rete di alleanze e di ostilità che ostacolavano il commercio e impedivano un’amministrazione efficiente.
«Non è una migrazione» rispose Marco Antonio «è una marcia di conquista. Ogni tribù perderà donne, grano, tutto.» Aveva un timore rispettoso nei confronti dell’uomo mandato da Roma, ma gli era stato detto di parlare liberamente e si avvaleva, soprattutto davanti ai suoi uomini, della nuova autorità che gli era stata conferita.
«Non è possibile respingerli?» chiese Giulio, osservando la massa che si muoveva lentamente sulla riva opposta.
Marco Antonio guardò dal bastione le legioni in perfetto ordine di battaglia. Ebbe un brivido di piacere nel constatare quale forza rappresentasse quello schieramento. Oltre ai diecimila uomini portati da Cesare, si erano aggiunte tre legioni raccolte nell’Italia settentrionale. Era, oltretutto, una dimostrazione del potere che il Senato aveva concesso a Giulio, cui era bastato affidare a dei messaggeri a cavallo l’elenco dei suoi ordini per vederli tornare con quindicimila soldati dopo una marcia forzata attraverso le Alpi.
«Se fossero respinti, morirebbero di fame durante l’inverno. Gli uomini che ho mandato in ricognizione hanno visto quattrocento villaggi bruciati, con tutte le provviste di grano. Sanno di non poter tornare e combatteranno ancora più duramente.»
page_no="227" Bruto lasciò Cabera sulla piattaforma alle loro spalle, perché, appoggiato al parapetto con il braccio sano, potesse guardare quello che succedeva. Poi si avvicinò a Giulio e lo salutò secondo le regole della disciplina militare, poiché era presente Marco Antonio. Non poteva dire che gli fosse del tutto simpatico. Nel suo accordo assoluto con gli scopi e le ambizioni di Giulio gli sembrava che ci fosse una nota falsa, ma si guardava bene dal dirlo per non essere accusato di parlare per gelosia. Eppure provava qualcosa di simile a tale sentimento nel vederli discutere familiarmente, come vecchi amici, mentre guardavano l’esercito elvetico sull’altra riva del fiume. Bruto aggrottò le sopracciglia quando Marco Antonio espresse un giudizio scanzonato sulla vastità di quella folla eterogenea e lui e il console fecero a gara per ostentare una misurata noncuranza.
Marco Antonio era uno di quegli uomini robusti e cordiali che a Giulio piacevano, le rare volte che gli capitava di incontrarli, e anche questo dava fastidio a Bruto. Sapeva che Cesare aveva sempre apprezzato le risate clamorose e il coraggio che gli ricordavano Mario e, come se lo avesse saputo, Marco Antonio si comportava esattamente così. Era più alto del console di tutta la testa e campeggiava in mezzo alla faccia, sotto le sopracciglia folte, un naso che gridava al mondo l’antica discendenza romana del suo sangue e gli dava, a meno che non stesse ridendo, una severità e un decoro naturali. Alla minima occasione, Marco Antonio parlava della propria stirpe come se fosse nobile, solo perché poteva elencare i nomi di un buon numero di antenati.
Certamente, pensò Bruto irritato, sarebbe piaciuto anche a Silla. Lo sentiva parlare di una quantità di progetti che si sarebbero potuti realizzare ora che Giulio era arrivato, idee cui, evidentemente, era stato costretto a rinunciare quando era solo a occuparsi di tutto. Bruto si chiese se si rendesse conto di quello che Giulio sarebbe stato capace di fare al suo posto, con una legione o senza.
Accantonò questi pensieri e si appoggiò al parapetto per guardare il barcone che si avvicinava alle rive del territorio romano. I rematori saltarono nell’acqua bassa per trascinarlo in secco. Gli Elvezi aspettavano in piedi, accanto al vallo che i Romani avevano costruito per fermarli. Anche se erano in tanti, Bruto pensava che non avrebbero mai varcato la linea di confine.
«Devono rendersi conto che a colpi di lancia e di pietre possiamo affondare qualsiasi imbarcazione» affermò Giulio. «Attaccare, da parte loro sarebbe un suicidio.»
«E se andassero via pacificamente?» chiese Marco Antonio, senza distogliere lo sguardo dai messaggeri che stavano in disparte, poco lontano dai rematori.
Cesare si strinse nelle spalle. «Sarà la prova che si sottomettono all’autorità di Roma. In un modo o nell’altro lascerò la mia impronta su questa regione.»
Bruto e Cabera conoscevano bene Giulio, si voltarono a guardarlo e videro un piacere selvaggio sul suo viso mentre, in piedi sul bastione, ascoltava le parole degli Elvezi.
Avevano colto la stessa espressione negli occhi di Marco Antonio quando si era rivolto al primo consesso di generali, mesi prima.
«Sono contento che siate qui, generali» aveva detto. «Stiamo per essere sconfitti.»
Giulio aveva voluto una terra selvaggia da vincere, pensò Bruto. Gli Elvezi costituivano solo una delle tribù della regione, per non parlare dell’intero Paese che il console sognava di conquistare per Roma. Ma nessuno avrebbe ritrovato nell’uomo che stava in piedi con loro sul bastione, i momenti cupi di quando era in Spagna. La diversità era evidente e Cabera chiuse gli occhi mentre i suoi sensi si proiettavano, confusamente e contro la sua volontà, lungo le strade impervie del futuro.
Si accasciò e sarebbe caduto se Bruto non l’avesse sorretto. Nessun altro si mosse mentre i messaggeri parlavano e Giulio chiedeva al suo interprete la traduzione, in un latino stentato. Senza farsi vedere, ridacchiò tra sé, poi si affacciò, con entrambe le mani appoggiate al parapetto.
«Non passerete!» gridò.
Si rivolse a Marco Antonio.
«Se marceranno a ovest, lungo il Rodano, prima di raggiungere il Sud, quali tribù incontreranno lungo la strada?»
«Gli Edui sono i primi a ovest, rispetto a noi, perciò toccherebbero a loro le conseguenze peggiori, però gli Ambarri e gli Allobrogi...»
«Quale di questi popoli è il più ricco?» lo interruppe Giulio.
Marco Antonio esitò. «Pare che gli Edui abbiano grandi mandrie di bestiame e...»
«Manda a chiamare il loro capo con messaggeri veloci e garanzie di sicurezza» ordinò Giulio e si affacciò di nuovo a guardare. Il barcone si era già allontanato verso l’altra riva, ma non tanto da non poter vedere la collera sui volti degli Elvezi.
* * *
Due notti dopo, il fortino era immerso nel silenzio. A Giulio arrivava solo, dall’alto del vallo, il rumore dei passi del cambio della guardia. Aveva fatto costruire nuovi alloggiamenti per i soldati che aveva portato da Roma, ma le tre legioni della città di Ariminum pernottavano ancora nelle tende, entro campi fortificati. Non intendeva costruire niente di più stabile per loro. Sperava che non sarebbe stato necessario.
Aspettava con impazienza che le sue parole venissero riferite al capo degli Edui dall’interprete che era stato procurato da Marco Antonio. Gli sembrava che impiegasse più tempo del necessario, ma aveva deciso di non dire a nessuno che Adàn parlava la loro lingua, era un vantaggio che, per essere tale, doveva restare segreto. Quando aveva sentito le prime parole pronunciate dai Galli, lo scriba spagnolo era rimasto stupito. I suoi compatrioti parlavano una variante della stessa lingua, tanto che lui capiva quasi tutto quello che dicevano i Galli. Cesare si era chiesto se non fossero stati, in passato, un’unica nazione, se qualche tribù nomade, proveniente da terre lontane, non avesse colonizzato la Gallia e la Spagna quando Roma era ancora un piccolo villaggio tra sette colli.
Adàn ora assisteva a tutti i colloqui e, per non mostrare che stava ascoltando, copiava e ricopiava, intanto, appunti e lettere che Cesare gli aveva dettato. Quando restavano soli, rispondeva alle domande precise che il console gli faceva e ricordava quasi sempre tutto.
Giulio diede un’occhiata al diligente giovane spagnolo mentre l’interprete ripeteva, apparentemente con un’infinità di particolari, i rischi che avrebbe portato un’invasione elvetica. Il capo degli Edui era tipico della sua razza, aveva i capelli scuri, gli occhi neri, il viso magro, duro, in parte nascosto da una lunga barba unta di olio. Gli Edui non erano governati da un re, ma da un magistrato, Morbeno, che non aveva avuto il potere per diritto di discendenza ma era stato regolarmente eletto.
page_no="230" Giulio tamburellava con le dita di una mano sul dorso dell’altra mentre Morbeno rispondeva e l’interprete rifletteva un momento prima di tradurre.
«Gli Edui accolgono di buon grado il tuo aiuto per respingere gli Elvezi dai loro confini» disse infine.
Giulio scoppiò in una risata che fece sussultare Morbeno.
«Di buon grado?» ripeté. «Di’ al loro capo che salverò il suo popolo dalla distruzione se ver...