LA GIOIA DELLA FEDE
«Divino Spirito, Spirito del Padre e del Figlio, noi abbiamo professato all’inizio di questo ritiro che Tu sei l’agente principale di quanto qui si compie, Tu sei colui che parla direttamente al nostro cuore. Ti chiediamo di parlarci anche oggi aiutandoci a fare la sintesi di ciò che abbiamo vissuto, per poterci nutrire durante l’anno della grazia ricevuta e poter ricevere una sovrabbondanza della tua presenza in noi, che ci colmi di gioia e di pace nell’agire. Donaci, o Padre, il dono dello Spirito, Tu che non lo neghi a chi te lo chiede. Per Cristo nostro Signore.»
In quest’ultima meditazione torniamo a confrontarci con alcuni temi che abbiamo già fatto oggetto di riflessione all’inizio del nostro percorso, quasi a principio e fondamento del cammino che intendevamo intraprendere. Vorrei dunque proporvi di soffermarci più distesamente sulle parole di 1 Pietro 1, 8: «Voi lo amate, pur senza averlo visto; e ora senza vederlo credete in lui. Perciò esultate di gioia indicibile e gloriosa» (1, 8). Espressioni rivolte a una comunità che sta vivendo una prova della fede, nella quale tuttavia la gioia non viene meno: «Siete ricolmi di gioia, anche se dovete essere un po’ afflitti da varie prove» (v. 6).
Confidiamo che, arricchito della grazia dei giorni trascorsi, il nostro cuore è reso più disponibile a penetrare l’evangelica paradossalità delle parole di Pietro.
Vorrei dunque mettere in luce la gioia della fede, per voi e per me, per me e per voi. Corrisponde infatti a questo periodo della mia vita, in cui sono entrato clamorosamente con gli anni 80, ma già coi 75, con le dimissioni dal servizio episcopale. Mentre nel primo periodo della vita mi sono dato soprattutto allo studio della Scrittura e alle attività accademiche per circa 20 anni e nel secondo periodo mi sono dedicato all’intensa attività pastorale nell’arcidiocesi di Milano, ora mi trovo nel terzo periodo. È un periodo dedicato alla preghiera di intercessione e alla riflessione sulla Scrittura, ma costituisce soprattutto preparazione al quarto periodo, il più importante, quello della vita eterna, del banchetto senza fine nel regno dei cieli, quando la vita divina operante in me e in voi fin dal battesimo si manifesterà nella sua potenza e si rivelerà la gloria dei figli di Dio.
Meditando su queste realtà, più e più mi si è presentato davanti il versetto della Lettera di Pietro, che considereremo – come già abbiamo fatto – in relazione al versetto del vangelo di Giovanni col quale si conclude il racconto dell’apparizione del Risorto ai discepoli: «Beati quelli che pur non avendo visto crederanno» (20, 29b).
Beato chi crederà senza aver visto
La prima reazione che ho avuto e che sento talvolta leggendo questi versetti è di rifiuto: la beatitudine del credere senza vedere mi sembrava di seconda categoria, di scarto, di risulta; la vera beatitudine è quella di Tommaso, che ha veduto e ha creduto, ha toccato e ha creduto.
Eppure Gesù proclama beati coloro che, pur non avendo visto, crederanno. Ed è la nostra condizione corrente.
Sono dunque partito dalla constatazione che il Nuovo Testamento parla di un vedere e di un non vedere, parla di un essere convinti perché si è visto – «Tommaso, perché hai veduto hai creduto» (Giovanni 20, 29a) – e parla anche di un credere non avendo visto, e anzi a questo secondo atteggiamento è indirizzata la parola di Gesù: beato, felice, fortunato. Sappiamo che più in generale, come si legge nella finale lunga di Marco, solo coloro che crederanno, e senza aver visto, entreranno nel regno dei cieli: «Chi crederà e sarà battezzato, sarà salvo, ma chi non crederà sarà condannato» (16, 16).
Di fronte a queste affermazioni, mi sono chiesto anzitutto se vi sono nel Nuovo Testamento pagine affini, nel senso che esaltano il vedere oppure, al contrario, il non vedere.
Di fatto ci sono passaggi evangelici che esaltano il vedere. Un esempio: «Beati i vostri occhi perché vedono e i vostri orecchi perché sentono. In verità vi dico: molti profeti e giusti hanno desiderato vedere ciò che voi vedete, e non lo videro, e ascoltare ciò che voi ascoltate, e non l’udirono» (Matteo 13, 16-17). È una beatitudine del vedere, dell’ascoltare, del verificare.
Tuttavia molti testi si collocano nell’altra prospettiva. Abbiamo la parola di Elisabetta a Maria: «E beata colei che ha creduto nell’adempimento delle parole del Signore» (Luca 1, 45) – non ha ancora visto niente, ma ha creduto –. E poi la lode di Gesù a Pietro, che già abbiamo ricordato: «Beato te, Simone figlio di Giona, perché né la carne né il sangue te l’hanno rivelato, ma il Padre mio che sta nei cieli» (Matteo 16, 17).
Pietro non ha dedotto geometricamente o filosoficamente, ha creduto per una rivelazione dall’alto. Non a caso può dunque affermare: voi amate Gesù pur senza averlo visto e senza vederlo credete in lui.
C’è dunque una beatitudine nel credere avendo visto, come pure una nel credere non avendo visto. E notiamo che la parola che traduciamo con «beato» ha il senso molto vasto di felice, ben riuscito, fortunato, contento.
Mi pare che, in senso generale, queste due linee del Nuovo Testamento ci dicono che nella vita dobbiamo imparare a valorizzare ambedue i modi di essere contenti. Sono entrambi importanti, ma ciascuno a suo luogo e tempo; e in realtà è più importante il secondo, perché riassume l’intera esistenza cristiana.
Intermezzo letterario
Prima di proseguire nell’analisi biblica, vorrei dare spazio a un breve intermezzo letterario, che sembrerà forse poco pertinente e invece è molto significativo riguardo alla materia che stiamo trattando ed è pure oltremodo attuale, in quanto ci aiuta a collegare la nostra riflessione col tema della libertà.
Citerò alcune pagine de I fratelli Karamazov, quelle in cui Dostoevskij fa raccontare a Ivan Karamazov il suo poema intitolato Il Grande Inquisitore. Riassumo brevemente, perché suppongo noto questo testo.
Si racconta che Gesù «passa ancora una volta fra gli uomini, con la stessa figura umana con la quale, per trentatré anni, aveva camminato in mezzo agli uomini quindici secoli prima». Ciò avviene in Spagna, a Siviglia, intorno al 1500, proprio il giorno dopo che quasi un centinaio di eretici erano stati bruciati per decisione del Grande Inquisitore. «Egli è apparso in silenzio, inavvertitamente, eppure, strano!, tutti lo riconoscono.»
Allora il Grande Inquisitore lo fa incarcerare e di notte va nella prigione per parlargli. Ha capito che è Gesù e gli parla con estremo cinismo e durezza. Gli ricorda tra l’altro le tentazioni subite nel deserto, in particolare la prima, della quale – dice – «se non le parole, il senso però era questo: “Tu vuoi andare per il mondo e ci vai a mani vuote, con la promessa di una libertà che gli uomini, nella loro semplicità e nel loro disordine innato, non possono neppure concepire, della quale hanno paura e terrore, perché nulla è mai stato più intollerabile della libertà per l’uomo e per la società umana! Vedi invece queste pietre, in questo deserto nudo e infocato? Mutale in pani, e l’umanità ti verrà dietro come un gregge docile e riconoscente, se pur eternamente spaventato che tu possa ritirare la tua mano e lasciarlo senza i tuoi pani”. Ma tu non volesti privare l’uomo della libertà e respingesti l’invito, perché quale libertà ci può essere, pensasti, se si compra l’ubbidienza col pane?». Fin qui il Grande Inquisitore.
E noi, applicando al nostro tema, potremmo dire: dove starebbe la libertà, se le grandi scelte dell’uomo – in particolare quelle etiche ed esistenziali che esigono il coinvolgimento della persona, il coraggio di qualche sacrificio – fossero evidenti come due e due fanno quattro, in modo da costringere ad accettare un’unica soluzione? Non seguire un’evidenza sarebbe stoltezza e così la libertà verrebbe meno.
Del resto, quando la nave brucia, viene l’impulso irresistibile di buttarsi in mare per salvarsi; è un comportamento quasi istintivo, non una scelta pienamente libera. Allo stesso modo si potrebbe credere con un simile comportamento. Se invece una nave ha dei guasti gravi e rischia di affondare per motivi strutturali, i problemi da risolvere sono molto seri, occorre darsi d’attorno, studiare, pensare, agire, operare, metterci ingegno e coraggio per trovare rapidamente una via di salvezza. Non basterà aspettare che col passare del tempo succeda l’irreparabile e ci si debba poi gettare in mare; bisogna darsi da fare prima.
Ciò che Gesù ci chiede è un coinvolgimento di questo tipo, un impegnarsi, uno spendersi.
La parabola del Grande Inquisitore ci ricorda che noi abbiamo paura delle situazioni in cui ci tocca compiere una scelta complessa e ardua. Vale anche per la vita sociale e politica: si preferisce spesso privarsi della libertà per accodarsi a chi ha denaro e successo, a chi riesce; alla libertà si preferisce il conformismo. Ci si lascia comandare dal «così fan tutti», dalle mode imperanti, dove la parola «imperante» indica la forza di trascinare le moltitudini secondo una certa deriva. Si opta per un’evidenza imposta dall’esterno piuttosto che per una certezza sofferta e maturata in un lungo cammino interiore.
L’esistenza umana: fiducia e speranza
Dopo l’intermezzo letterario, riprendiamo il filo del nostro discorso, proponendoci ora di leggere nell’esperienza umana quanto siamo venuti dicendo a riguardo dell’esperienza di fede.
Dobbiamo riconoscere che sono due le contentezze legate al cammino umano. La prima deriva dal verificare personalmente un dato. Dobbiamo però riconoscere – io lo riconosco sempre più – che non sono molte le situazioni in cui possiamo operare una verifica rigorosa.
Per esempio, se stiamo in quest’aula, senza pensare che potrebbe crollare, è perché abbiamo istintivamente fiducia nei costruttori, negli ingegneri. Allo stesso modo, andando in un ristorante, mangio la portata che mi viene messa davanti, senza pensare che potrebbe contenere veleno; dall’insieme, suppongo di potermi fidare. Quando vado da Milano a Roma, mi fido dell’onestà di chi ha collocato il cartello indicatore e sono sicuro che il treno mi porterà a destinazione.
E tutta la vita è fatta così. Già il bambino nasce con una fiducia innata, istintiva. Può crescere e diventare adulto solo perché si butta nelle braccia dei genitori con totale confidenza, con fiducia che la vita è buona e che gli vorranno bene.
Non ne ha la prova, soltanto vive così. Un tema che è stato molto approfondito da Giuseppe Angelini, professore di dogmatica alla Facoltà Teologica dell’Italia settentrionale.
Lo stesso scienziato non verifica mai tutte le premesse al suo ragionamento, supponendo la validità delle ricerche precedenti, e così può avanzare di un passo.
Quindi la fiducia ha molto spazio nella vita umana, è uno degli elementi che ci permettono di vivere. E vi si connette una beatitudine, una felicità, la gioia del fidarsi gli uni degli altri. Anche questo è gioia, è essere contenti.
Si può anzi ritenere che la vita è in qualche modo addirittura fondata sul principio della fiducia. Lo ha asserito il filosofo marxista Ernst Bloch nella sua opera Principio speranza, mostrando come la speranza è la radice di tutto ciò che si fa. E sul tema della speranza che anticipa il bene costruisce la sua teologia morale G. Angelini. Notiamo pure la continuità esistente tra la prima intuizione del bambino e tutto il successivo cammino di formazione, fino all’età adulta, quando si giunge a verificare certi dati fondamentali, tuttavia sempre nel quadro di una fiducia globale che sostiene la vita quotidiana di una persona nel suo cammino sociale, culturale, scientifico e civile.
Senza questa fiducia, senza questa speranza, la vita diventa praticamente impossibile, perché si diffida di tutto, si ha paura di tutto, si vuole verificare tutto. Una fede è sempre e comunque necessaria per vivere.
E la vita cristiana non fa eccezione, si colloca in questo stesso quadro. Angelini nel suo manuale di Teologia morale fondamentale scrive: «La fede cristiana non è altra cosa rispetto alla fede necessaria in ogni caso per vivere, ma è la forma che tale fede assume a fronte della rivelazione storica di Dio e dunque della rivelazione cristologica, che manifesta pienamente la verità del destino dell’uomo» (ed. Glossa, Milano 1999, ...