1
Il sole tramontava quando Balamber e i suoi amici, sbucando a cavallo dal tortuoso sentiero che avevano seguito attraverso il bosco, giunsero in vista della casupola di Audbert, il marcomanno. Dietro di loro, conducendo per la cavezza un mulo gravato da una soma ingombrante, sopraggiunse anche il giovane Kayùk. Appena Balamber trasse a sé le redini del suo cavallo, anche gli altri si arrestarono, affiancandolo e scrutando come lui nell’ampia radura. I loro occhi attenti esplorarono senza fretta il piccolo regno del marcomanno: la fattoria, col pollame che razzolava sull’aia, il fienile cadente ma rigonfio, la stalla e il porcile, appoggiati all’edificio principale; più oltre, il campo dell’ortaglia e, alquanto più esteso, il terreno a seminato, dove uno spaventapasseri coperto di stracci vigilava in solitudine sui solchi dove presto sarebbe germogliato il frumento. Tutto era silenzio. Non ci volle molto, però, perché dalla casa uscisse in corsa un cane di razza indefinibile, poco più che un cucciolo, che abbaiando sfrecciò attraverso l’aia in direzione dei nuovi venuti, si fermò a un passo dai cavalli e subito, con buffo eroismo, prese a percorrere avanti e indietro il loro allineamento lanciando i suoi piccoli, giudiziosi latrati. Senza prestargli attenzione, Odolgan accennò con la testa in direzione del limitare di una faggeta, dove pascolava il piccolo branco dei maiali, vigilato da un giovane che con piccoli colpi secchi del suo lungo bastone sospingeva le bestie riluttanti – una scrofa e tre piccoli – verso la stalla. «Quello ci ha visto» osservò ridendo, «guardate come corre a mettere al sicuro le bestie.»
«Già» gli rispose Khaba grattandosi la lunga cicatrice che gli attraversava tutto il lato sinistro del viso. «Mi fa venire voglia di prendergli un paio di porcelli, così, giusto per scherzo.»
«Non è per questo che siamo qui» tagliò corto Balamber, pungolando il cavallo coi talloni. Tenendo al passo le loro cavalcature, si avvicinarono alla casa, dal cui tetto di paglia fuorusciva in pigre volute il fumo di un focolare. Quando la distanza si fu ridotta a una ventina di passi, la figura massiccia di un uomo barbuto, in abiti da contadino, apparve nel vano oscuro della porta e ristette un momento a osservare i nuovi venuti. Con sgomento li riconobbe per appartenenti al più feroce popolo che esistesse fra le genti guerriere: il loro colorito bruno, i volti larghi, con il naso schiacciato e le guance segnate dalle cicatrici inferte alla nascita per eliminare la noia della barba, gli occhi lunghi e sottili, enigmatici, nonché le armi che portavano e i loro cavalli, bassi e tozzi, robustissimi, non lasciavano adito a dubbi; di certo, quella era la visita meno gradita che potesse capitargli. Il loro atteggiamento, a dire il vero, non appariva minaccioso, ma Audbert sapeva che con quella gente non si era mai sicuri di nulla. Quando furono più vicini, tuttavia, riconobbe colui che li guidava e si sentì un po’ rinfrancato, poiché, tra gli unni che conosceva, Balamber non era dei peggiori. Richiamò con forza il cane e avanzò verso i quattro con passo rapido ma controllato, sorvegliando con sguardo vigile ogni loro movimento. I suoi occhi si soffermarono per un momento sul mulo che il più giovane dei visitatori si tirava dietro: era carico fino all’inverosimile, ma la sua soma era completamente ricoperta da un ampio, rozzo drappo di lino. Invano tornò a richiamare il cane, il cui atteggiamento aggressivo innervosiva i cavalli, ma per fortuna sua figlia Grethe, una bambina di circa sette anni, con i capelli color paglia raccolti in lunghe trecce, uscì a sua volta sull’aia e corse a prenderlo, trascinandolo poi verso la casa. Dall’interno dell’edificio veniva il pianto di un bimbo, sul quale invano si sovrapponeva, dura e piena d’allarme, la voce di una donna.
«Salute a te, Balamber!» disse l’uomo, forzandosi a un sorriso e fermandosi a un passo dai quattro cavalieri. Sapeva che il suo inatteso visitatore comprendeva il suo dialetto. Balamber, però, non ricambiò il saluto. Appoggiò invece una mano sulla coscia, rivestita del rozzo pantalone di pecora, e con espressione severa scandì in tono inquisitivo: «So che hai una famiglia numerosa, Audbert, eppure vedo solo uno dei tuoi figli, laggiù vicino al porcile. Ricovera le bestie e finge di non averci visto».
Un lampo d’imbarazzo passò negli occhi del marcomanno, ma egli si riprese subito: non si voltò verso il figliolo, ma rispose in tono sollecito e accattivante. «Sono certo che non si era accorto di voi. Il giorno volge al termine, e non è prudente lasciare le bestie in giro, dopo il tramonto. Qualche lupo potrebbe assalirle.»
«Lupi, dici?»
«Già. Da qualche tempo la regione ne pullula, purtroppo.» Resosi conto che le sue parole si prestavano a una doppia interpretazione, l’uomo si smarrì, tacque per un momento e si morse le labbra. «Insomma» riprese ripetendosi, «non è prudente... tutto qui, ecco.»
Scavando con lo sguardo negli occhi del suo interlocutore, l’unno sorrise con un’espressione di irrisione. Aveva compreso perfettamente il suo imbarazzo, ma non fece nulla per venirgli incontro e alleggerire l’atmosfera: era sempre un piacere per lui vedere quella gente orgogliosa crepare in corpo sotto il giogo degli Hiung-nu. Il bifolco, comunque, cercò subito di cambiare argomento. Gettò una rapida occhiata agli amici di Balamber e al loro equipaggiamento, quindi domandò con malcelata ansietà: «È quasi un anno che non ti si vede da queste parti. Siete di passaggio? O è una battuta di caccia?».
«Siamo venuti qui per te, Audbert.»
A un passo dalla casa, il cane era sfuggito alla bambina e, benché prontamente richiamato, si era precipitato abbaiando e ringhiando al fianco del suo padrone, il quale, senza distogliere lo sguardo dall’unno, cercava ora invano di trattenerlo. Audbert deglutì. «Per me? In che posso servirti?»
In un momento, scavalcando agilmente con la gamba il collo del suo cavallo, Balamber fu a terra davanti a lui. «Dandoci da mangiare, prima di tutto!» gli rispose perentorio, mentre i suoi compagni smontavano a loro volta. Erano tutti armati di spada o scure e ognuno aveva preso con sé arco e faretra. Il cane, allarmato, si fece ancor più sotto mostrando i denti; la bimba avanzò per trattenerlo, ma il padre la sospinse indietro. Sforzandosi di celare il proprio disappunto per la pretesa dell’unno, chinò il capo e rispose prontamente, cercando di sormontare, con la propria, la voce del cane. «La mia casa è sempre aperta per te, ma dovrai accontentarti di quello che c’è: solo poche carpe, che uno dei miei figli ha pescato in uno stagno qua vicino, e zuppa di grano. Tu comprendi... non ti attendevamo, e...»
Fu un attimo. Ruotando su un piede, Odolgan sferrò al cane un formidabile calcio nelle costole, mandandolo a ruzzolare tra guaiti disperati nell’erba ai margini del sentiero. La bambina gridò e corse per soccorrerlo, ma l’unno la scostò rudemente spingendola a terra e brandì la sua scure per finirlo. Fulmineo, Balamber lo afferrò per il polso. «Sta’ fermo!» gli ordinò perentorio, mentre la bambina si precipitava ad abbracciare l’animale. «Cattivo! Volevi ucciderlo! Sei cattivo! Sei cattivo!» gridò fra le lacrime.
«Volevo solo procurare della carne» disse Odolgan ridendo, ma riappese al fianco la propria arma. Balamber ammonì il marcomanno: «Hai un cane stupido. C’è il rischio che campi poco».
Audbert, livido in volto, sospirò di rassegnazione, ma anche di sollievo. «Venite» disse, «dirò a mia moglie di ammazzare un maialino. Dovrete aspettare un po’, però.»
Arricciando le labbra sotto i lunghi baffi neri, Balamber assentì; quindi raddrizzò la schiena, si sistemò alla vita la fusciacca verde e oro – i colori che da tempi immemorabili contrassegnavano il suo clan – e infine accennò con la mano al marcomanno di fargli strada: «Va bene: aspetteremo» disse in tono conclusivo.
Mentre si avviavano verso la casa, la bambina li osservava tra le lacrime, accarezzando, ancora fremente, il suo piccolo amico.
2
Audbert aveva altri tre figli, tutti maschi: uno aveva sedici anni, uno tredici e il più piccolo quasi tre. I due più grandi quella sera mangiarono accanto a lui in un cupo silenzio, reprimendo il proprio furore e sorvegliando di sottecchi i quattro unni che sedevano con loro attorno alla larga tavola, realizzata semplicemente accostando delle pesanti assi di quercia. Mentre la moglie del bifolco, una donna burgunda non più che quarantenne, ma precocemente invecchiata dai molti parti, si dava da fare a rosolare il porcello sul focolare, gli ospiti ingannarono l’attesa bevendo la birra del padrone di casa e arraffando un po’ di pesce; quando la cena fu pronta, mangiarono con gusto, parlando per lo più fra di loro senza che i padroni di casa potessero capirli, bevendo ancora molto e ridendo forte.
Scucchiaiando la sua zuppa, o attizzando la fiamma nel focolare, Audbert li osservava con ansia crescente. In particolare, lo preoccupava quello più alto, con una faccia terribile, che Balamber chiamava Odolgan: non aveva impiegato molto a ubriacarsi, e la sua sguaiata, orrenda risata gli metteva i brividi, soprattutto quando si accompagnava a certi sguardi più che eloquenti che insistentemente indirizzava a sua moglie. A lungo aspettò che Balamber si decidesse a dirgli il vero motivo di quella visita – o meglio di quell’irruzione – inattesa. Si chiedeva con ansia se per caso, nelle ultime settimane, avesse in qualche modo suscitato la collera di quelle anime malvagie, ma per quanto scavasse nella memoria non riusciva a trovare nulla per cui rimproverarsi. Dopo i lunghi mesi invernali, aveva portato solo dieci giorni prima il suo tributo all’ultimo raduno annuale, alla nuova luna di marzo, come sempre aveva fatto in precedenza: un maiale di un anno, quattro orci di frumento e parecchie pelli di castoro, né gli risultava che i suoi figli avessero avuto a che dire con gli Unni. Inoltre, Balamber si trovava molto distante dal proprio campo. L’ultima volta che era venuto da quelle parti era stato una decina di mesi prima, per scortare un’ambasceria di Attila presso gli Svevi della Selva Nera. La mole del bagaglio che portava con sé, del resto, faceva pensare a una missione dello stesso genere. Osservandolo di sguincio, Audbert si diceva che solo una ragione importante poteva averlo ricondotto da quelle parti, ma non gli riusciva di immaginare che cosa potesse cercare da lui, se non una cena calda, un giaciglio per la notte e, al massimo, la raggelante compagnia di sua moglie; nondimeno, l’unno stesso gli aveva anticipato che la sua non era solo una sosta casuale. Conoscendo l’iracondia e l’estrema mutevolezza d’umore di quella gente, si asteneva dal porre domande dirette e si sforzava di mostrarsi un ospite amichevole e disinvolto. Nondimeno, teneva d’occhio i suoi impetuosi figli, pronto a reprimere ogni parola, ogni gesto che potesse essere interpretato da quegli odiosi padroni come un’impennata d’orgoglio; proprio per questo, appena ebbero terminato di mangiare mandò i due più grandi a dormire nel sottotetto, lasciando a sua moglie il compito di fare addormentare i piccoli. La sua fronte corrucciata e gli sguardi a un tempo attenti e sfuggenti che indirizzava agli ospiti lasciavano però trasparire il suo stato d’animo, senza che ciò valesse a indurli a rassicurarlo. Balamber, in particolare, godeva palesemente del suo disagio, e quando gli rivolgeva la parola non veniva mai al punto. Lo fece solo quando ebbe finito di sbocconcellare l’ultima coscia del maialino e l’ebbe gettata al cane, che quella sera, contrariamente alle sue abitudini, si teneva a prudente distanza dalla tavola. Trapassando con i suoi occhi sottili e penetranti il padrone di casa, l’unno si appoggiò al tavolo incrociando le braccia. «Dille di portare ancora della birra» gli disse accennando a sua moglie. «Devo parlarti.»
«Ho dell’idromele, se vuoi.»
«No. Quella porcheria la lasciamo a voialtri. Birra, ho detto!»
Chiamata dal marito, la donna prese la caraffa dal tavolo e si allontanò, per tornare subito dopo averla riempita. L’appoggiò sulla tavola e fece per tornare alle sue stanche faccende, ma Odolgan, che le era più vicino, le allungò ridendo una sonora pacca sul fondoschiena. La donna incassò con un piccolo sussulto e si allontanò senza dir nulla, ma negli occhi di Audbert passò un lampo d’allarme, motivato non certo da un empito di gelosia, bensì dalla mancanza di rispetto che quel gesto palesava nei suoi confronti. Con sorpresa, però, vide Balamber alzarsi di scatto, protendersi attraverso il tavolo e schiaffeggiare più volte il compagno; quello sussultò, si protesse con le braccia ma non reagì, limitandosi a guardare il suo capo con espressione più sorpresa che irritata.
«Tieni le mani a posto!» gli gridò Balamber nel loro dialetto mongolico. «Hai bevuto troppo. Vi avevo raccomandato di comportarvi come si deve! Hai dimenticato che abbiamo bisogno di lui?»
Kayùk, che si era immobilizzato con la mano piena di farinata di grano davanti alla bocca, osservava quel diverbio con espressione incerta tra l’allarme e l’ilarità. Odolgan si strinse nelle spalle e replicò con voce impastata da molti boccali di birra: «Ma questo qui non è nessuno! Quella donna...».
Un’altra raffica di ceffoni lo mise a tacere. «Ti ho detto di piantarla. Sta’ zitto, hai capito? Devo parlare con quest’uomo. E tu» Balamber si era rivolto a Khaba. «Non vedi che questo è partito? Accompagnalo nella stalla e mettilo a dormire, poi accertati che i cavalli siano sistemati al meglio e torna qui.»
Il suo corpulento amico, che non era ebbro per niente, si alzò e aiutò lo stupefatto Odolgan a sollevarsi dalla panca. Quindi, sostenendolo, si avviò con lui verso la porta. Quando vide che i due l’avevano varcata, Balamber volle rassicurare con un’occhiata il suo ospite, che per la verità, oppresso com’era dalla consapevolezza della propria impotenza, era molto più preda della paura che non della collera. L’unno versò da bere a entrambi. Aveva corrugato la fronte, assumendo un’aria riflessiva. Gettò un’occhiata alla donna, che, apparentemente senza prestar loro attenzione, si era seduta su uno sgabello accanto al fuoco e aveva preso a cucire con un grosso ago e delle sottili strisce di cuoio alcune pelli di castoro, quindi assentì come ragionando tra sé e disse: «Dopo la nascita dell’ultimo figlio, tua moglie non è più quella di prima, ma è ancora una bella donna, senza dubbio».
Audbert si strinse nelle spalle, lo sguardo fisso negli occhi a mandorla del suo interlocutore. «Ciò che conta è che lavori come deve e non mi dia noia. Se vuoi, stasera te la mando per scaldarti il giaciglio.»
Balamber sorrise: «Riconosco la tua ospitalità e ti ringrazio. Sai, anche ad Attila le donne burgunde piacciono molto».
Si interruppe per un’improvvisa, sommessa risata. Poi, scuotendo il capo, osservò: «Non è solo un grande capo, sai, è anche un vero uomo. Nella sua grande casa, in Pannonia, ha decine di concubine. Ha più di cinquant’anni, ma dicono che è ancora un toro, per la Sacra Spada!».
«E tu?» azzardò Audbert mentre l’unno alzava di nuovo il bicchiere di coccio.
«Io, cosa?»
«Hai preso moglie? O hai una concubina?»
Balamber corrugò la fronte e, arricciando le labbra, si mosse un poco sulla panca, poi, sempre tenendo levato il bicchiere, scrollò le spalle e rispose: «Niente moglie per Balamber! E quanto alle concubine... averne una fissa è peggio che sposarsi».
Audbert scrollò le spalle. «D’accordo, ma, se non sbaglio, tu hai già quasi trent’anni, e sono sicuro che....»
«Ma certo! Quando voglio una donna me la prendo, la tengo per un po’ e poi magari la baratto per un cavallo, due se è meritevole, e tu mi devi credere: il numero dei miei cavalli aumenta in continuazione. È incredibile quanti sciocchi ci siano a questo mondo disposti a cedere un buon cavallo per una donna. Puah!»
«E Attila, allora?»
«Che c’entra Attila? Bada a come parli, marcomanno!»
Osservando il proprio bicchiere di legno, che strofinava tra le mani, Audbert precisò: «Ma no! Dicevo così perché tu stesso mi hai detto una volta che il tuo re...».
«È anche il tuo re, non dimenticarlo.»
«Giusto. Allora ti dirò che il nostro re qualche volta ha pagato ben più di un cavallo per una nuova concubina.»
«Se erano unne. Oppure se erano di rango e appartenevano a un popolo alleato: Ostrogoti, per esempio, o Gepidi, Turingi anche. Ma ne sceglie anche di schiatta meno elevata, e quelle non le paga di sicuro.»
«Le fa rapire?»
«Ma che dici? No di certo. In genere gliele regalano i capi dei villaggi che attraversa, o magari le affidano ai suoi emissari. Anzi, a proposito... è proprio per una faccenda di donne che siamo venuti a trovarti.»
Una smorfia di preoccupazione si dipinse sul volto del marcomanno, che tuttavia non disse nulla. Balamber sbottò a ridere: «Ma che hai capito, che veniamo per tua moglie? Non preoccuparti, non è così che ti libererai di lei».
Kayùk, questa volta, rise di gusto, sguaiatamente, e Balamber, con l’aria di accorgersi solo in quel momento della sua presenza, lo cacciò in malo modo: «Ma che fai tu ancora qui? Levati dai piedi, fila!».
Mentre il ragazzo si allontanava a passo svelto, Audbert sospirò. Non era certo per sua moglie che si preoccupava; intuiva però che Balamber stava per trascinarlo in qualche guaio. Comunque, era stanco di giocare a rimpiattino. Allontanando il bicchiere che l’unno gli aveva riempito e spinto dinanzi ancora una volta, disse in tono di malcelata insofferenza: «Dimmi che vuoi da me, Balamber. S’è fatto tardi, e oggi mi sono rotto la schiena tutto il giorno nei campi».
L’unno gli battè allegramente la mano sul braccio. «Bravo! Un gran lavoratore, sei. Ah, io l’ho sempre detto, sai, e ti ho sempre difeso, anche quando qualcuno, all’ultimo raduno, ha trovato da ridire sul tuo tributo.»
Audbert si accigliò. Ad accrescere il suo spavento, Khaba era tornato e si era seduto di nuovo sulla panca, ma questa volta accanto a lui: «E perché? Il tributo era quello di sempre, e...».
«Ecco, hai detto bene! Quello di sempre» interloquì gravemente Khaba.
«Sì, è proprio questo il punto. C’è stato chi ha detto che potresti dare molto di più.»
Audbert, trasse indietro il busto e allargò le mani in un gesto di impotenza, guardando i due unni con l’aria di chi sta subendo una grave ingiustizia: «Ma... la terra qui dà sempre meno frutto, l’annata è stata cattiva, e poi lo sai anche tu: l’anno scorso è morto di una febbre maligna il mio figliolo più grande, quello che più mi aiutava nel lavoro. Gli altri sono poco più che dei cuccioli, e io...».
Balamber lo interruppe, schiaffeggiando l’aria come per scacciare un insetto: «Ma io queste cose le so, cosa credi? E le ho dette a Utrigùr, altroché! Devi credermi: ho parlato in tua difesa, come no!».
All’udire quel nome, Audbert era stato percorso da un brivido. «Utrigùr!... Quell’Utrigùr?» balbettò.
«Ma sì, proprio lui: Utrigùr l’Onegesio. Lo sai che viene sempre al raduno per verificare i tributi, no?»
«Ma... mi hanno lasciato venir via senza dirmi niente. Io... non capisco.»
«Certo che non ti hanno detto niente, ma solo perché io sono intervenuto. Appena ho saputo di chi si stava parlando ho detto di te tutto il meglio che potevo, con più eloquenza di un senatore romano. Ho assicurato che sei un suddito fedele e un pagatore coscienzioso, e ho garantito per te. Se non mi credi puoi domandare al mio amico Khaba. È vero Khaba? Diglielo tu: è vero o no che l’ho difeso come meglio non si poteva?»
Khaba assentì con gravità. «Come meglio non si poteva» confermò.
«Ah! Mi hai difeso. Io... ti ringrazio, e se posso...»
Gli occhi di Balamber brillarono di compiacimento. Finalmente aveva portato quel testone di bifolco dove voleva. Era ora di venire al dunque. «Ma certo che puoi!» esclamò di rimando; quindi, protendendosi attraverso il tavolo, soggiunse: «E ne avrai anche tutta la convenienza, te l’assicuro».
«Ebbene? Parla, dunque.»
«Ecco, in poche parole si tratta di questo: al mio re è giunta voce che Gundovek ha una figlia molto bella.»
«Griselde!» confermò Audbert.
«Bravo! Sembra che questa Griselde sia la luce dei suoi occhi. Dovrebbe avere sui quattordici-quindici anni.»
«Sì, è quanto hanno detto anche a me. Ma cosa c’entra...»
«Aspetta! Tu sai che Attila è già alle prese con gli Alamanni. Quando li avrà spazzati via arriverà sul Reno con un esercito immenso e guarderà i Romani negli occhi. La guerra con Roma è imminente. E guarda un po’: se gli Hiung-nu e i Romani si faranno la guerra sarà per via di una donna! Ma sì: Onoria, la sorella dell’Imperatore di Ravenna. Tutto è iniziato da lei: l’imperatore Valentiniano l’ha confinata a Bisanzio per una tresca con uno scribacchino, e lei, per liberarsi, ha fatto arrivare ad Attila un messaggio in cui gli chiede di prenderla in moglie. Come dote gli ha promesso tutta la Gallia, compresi i Visigoti, che da anni si sono insediati laggiù, in una provincia chiamata Aquitania: cosa del resto giustissima, in quanto i Visigoti, un tempo, erano nostri tributari e dunque sono ancora sotto l’autorità di Attila. A quanto pare, però, l’Imperatore e Flavio Ezio, sì, proprio lui, il Magister militum, non sono d’accordo, e tu capisci che... No, vedo che non capisci un bel niente. Il fatto è che questa è una storia troppo lunga, quindi è meglio tornare al punto. E il punto è questo: se ci sarà una guerra, Attila preferirebbe avere i Burgundi di Gundovek come alleati o almeno neutrali, piuttosto che come nemici. Purtroppo, però, questo Gundovek, almeno fino a oggi, ha rifiutato ogni offerta di amicizia: sei mesi fa, addirittura, ha respinto l’ambasceria di Attila, scacciando in malo modo alcuni dei principi che la componevano.»
Audbert trattenne a stento un sorriso malevolo; sapeva bene com’era andata: i delegati unni erano stati cacciati da Genava a ca...