Capitolo Uno
Dove l’ingegno gabba la forza
Il suo occhio sinistro guarda al passato. L’espressione asimmetrica comunica uno stato di costante allerta, quasi metà di lui sia in attesa d’imboscate, di agguati, addirittura di pugnali che sappia provenire tutti da sinistra. È strabico dalla nascita ma dice che è stato un fendente rimediato chissà dove a conciarlo così. I suoi uomini, pur non vedendo cicatrici, ritengono più salutare crederci. È la prima cosa che dicono ai nuovi, appena assoldati: Niente domande sull’occhio, mai fissarlo troppo, è meglio.
Ora l’occhio guercio di Valeriano del Moro segue una carrozza che avanza nel fango pastoso. Lui e tre dei suoi sono in una radura, inginocchiati dietro i cespugli. La primavera è in ritardo e gli alberi ancora spogli offrono poco riparo. Hanno lasciato i cavalli lontani, perché non fiutino i loro simili e si mettano a nitrire tradendoli. Venti, trenta braccia al massimo li dividono dal conducente che si agita, incita, non usa la frusta per non colpire l’uomo di scorta che, a cavallo, tira per le redini la coppia attaccata alla carrozza, incitando a sua volta. Non hanno tempo per accorgersi di loro, non ci pensano nemmeno. “Cosa faranno, dentro?”, si chiede Valeriano fissando le cortine tirate, come se all’interno non ci fosse nessuno o dormissero, pur in quel navigare aspro tra mota e pozze d’acqua. Impossibile. O donne. Un tintinnio metallico lo fa girare di scatto e gli uomini non sanno chi di loro Valeriano stia rimproverando per via di quell’occhio, che tutto vede e niente guarda. Con un gesto impone silenzio, Zitti, state fermi, cazzo. La lentezza del transito offre particolari che non gli sfuggono; i cavalli sono belle bestie, pasciute; la carrozza con intarsi preziosi sui montanti; l’uomo di scorta armato di una spada e con una daga appesa alla sella; il conducente è di quelli che si arrendono subito, piangendo; i due bauli di cuoio legati dietro sono sempre chiusi da una catena con due lucchetti. Li rivede, e smania di aprirli, di farli saltare.
Li ha visti la mattina. La sua compagnia era in marcia verso nord, verso Foggia. Due carri, trenta uomini, otto cavalieri e due donne messi sotto condotta dal Virrey che aspettava i francesi a piè fermo, per farne strage e macello. Valeriano non sapeva quando avrebbero incontrato gli spagnoli, ma è difficile mancare un esercito. Fuochi, tende, la campagna per miglia intorno come se ci fosse passato l’angelo dalla spada infuocata. L’importante era avvicinarsi all’esercito giusto. Perciò aveva mandato avanti un cavaliere a sondare, ad annusare. A mezza mattina era tornato al galoppo. “Ci siamo”, pensò Valeriano. Invece il cavaliere riferì di una carrozza, roba fina, con bauli e lucchetti. I suoi uomini lo guardavano aspettando cosa avrebbe deciso. La cassa della compagnia era semivuota; El Virrey avrebbe pagato, forse, appena si fossero uniti al suo esercito, e alla roba fina ci tenevano tutti. Decise di andare a vedere, e appena diede di sprone sentì che gli uomini approvavano battendosi pugni sulle corazze.
I tre in ginocchio dietro di lui si chiedono cosa aspetti. Che ci vuole? Saltiamo fuori urlando, uccidiamo se si deve, poi ci prendiamo bauli e cavalli e via, a unirci agli altri che stanno andando a nord in attesa di dividere. Ma Valeriano è immobile. Anzi, il corpo è immobile ma il naso scandaglia, cerca conferme a qualcosa che ha sentito; un vaghissimo odore di carne bruciata. Lascia passare la carrozza, si arrampica su un albero e guarda lontano, a destra, a sinistra. Cerca di salire più in alto ma l’albero è troppo esile e rischia di cedere. Si ferma, guarda di nuovo, poi scende.
«Adesso no.»
«Come no? Che hai visto?»
«Fuochi.»
«E allora? Sono lontani?»
«Non molto.»
«Chi sono?»
Non risponde. Inchioda l’occhio guercio su quello che ha parlato e gli altri due, di colpo, abbassano la testa.
«Andiamo ai cavalli, forza.»
«E i bauli?»
«Dopo.»
«Ma la carrozza va a sud e noi...»
«Lasciamo che si allontani da quei fuochi. Non mi piacciono; troppa gente, e non voglio trovarmi addosso qualcuno all’improvviso. Aspettiamo che si fermi per la notte.»
«E chi t’ha detto che si ferma? E se arrivano prima dove devono andare?»
«Non c’è niente prima di Melfi; minimo due giorni di cammino.»
Discussione finita. Tornano ai cavalli e ne trovano solo tre. Quello che ha legato male il suo bestemmia e si dà del cretino prima che lo faccia Valeriano, che lo fa comunque. Lo lasciano lì e partono alla ricerca del cavallo in tre direzioni diverse, ma sempre stando in vista l’uno dell’altro. Valeriano cerca tracce d’acqua, perché un cavallo non ha tanti bisogni, e nella testa solo quel che gli manca nella pancia o tra le gambe, sempre. Cavalca stando chino sul collo dell’animale, e un po’ se ne vergogna, ma tanto adesso nessuno se ne accorge. Gli viene d’istinto cavalcare così, da quando ha sentito parlare delle nuove armi dei francesi, che saranno anche dei pisciavino ma intanto hanno preso il fuoco e l’hanno ficcato dentro tubi di ferro, e con quelli ti scaraventano addosso palle di piombo da cinquecento braccia, quando tu sei ancora così lontano che nemmeno li vedi. Certo, fanno fumo, puzzo e rumore, un botto infernale, dicono, ma quando vedi e senti spesso è l’ultima cosa che vedi e senti. Terribile. Dicono che non c’è corazza che tenga, e non serve mettersene di più pesanti, anzi, è peggio; la palla la sfonda comunque e in più la piega all’interno in tanti piccoli pugnali d’acciaio che aiutano ad ammazzarti. Dicono, ma lui una corazza sfondata ancora non l’ha vista. Nel dubbio, stare chini. Accarezza con la mano la superficie brunita della corazza e non ne trae il solito senso di protezione, ma quello di esserci dentro come in trappola. “Troviamo ’sto cavallo, avanti.” Gira in tondo, allenta le briglie perché il suo annusi l’altro e lo trovi, ma niente. Maledice i bauli e la carrozza, pensa alla compagnia che ha lasciato sulla strada per Foggia e ha una specie di allucinazione; la vede massacrata, ordinatamente massacrata, ognuno al suo posto, in fila come stavano marciando, buttati giù l’uno sull’altro dalla vigliaccheria francese. Anche le donne, accasciate sul carro mentre i cavalli l’hanno tirato fino a un pezzo d’erba già verde e pascolano indifferenti. Poi vede uno dei suoi uomini sbracciarsi da un’altura e gli arriva la voce che dice: «L’ho trovato, è qui». Zitto, vorrebbe urlargli, ma ormai. Volta il cavallo e torna al galoppo, un po’ meno chino.
La carrozza ha fatto poca strada; sembra non essersi mossa, quasi li aspettasse.
«Certo che vanno piano» fa quello che ha perso il cavallo.
Valeriano si tiene a distanza, al passo, gli occhi inchiodati ai due lucchetti che oscillano, danzano fra gli alberi, sbattono fra loro a ogni scossone e desidera avere nello sguardo una fucina che li sciolga. Lui, proprio lui, con quell’occhio.
Li seguono fino al tramonto e appena Valeriano vede il conducente scendere e parlottare, prima con l’uomo di scorta e poi con gli occupanti della carrozza, senza preparare i suoi uomini all’azione dà l’ordine: «Ora, adesso, andiamo!».
E quando pronuncia “andiamo” è già due teste avanti, la spada sfoderata: gli altri lo imitano e ci aggiungono grida che Valeriano si pente di non aver proibito. Così quando arrivano i due sono all’erta, ma comunque spaventati, e solo due. Dalla carrozza non si affaccia nessuno; né il terremoto di sedici zoccoli né le urla smuovono le cortine. Valeriano lascia che gli uomini disarmino i due e mentre smonta è sorpreso a tradimento da un pensiero che non ha mai avuto: “E se dentro stessero caricando un archibugio, per darmi un benvenuto memorabile?”. Prende il pensiero, lo appende alla maniglia della carrozza e tira con forza per non dar tempo alla paura: all’interno, nella penombra, vede un uomo solo che alza verso di lui mani delicate, bianchissime. Il gesto è di spavento, ma lo sguardo è deciso: «Cosa volete? Non ho niente!».
«E i bauli? Che c’hai là dentro?»
«Controllate voi stesso!» dice l’uomo sfilandosi una chiave dalla cintura. «Io oro non ne ho!»
Valeriano lo guarda, allibito da un’arrendevolezza cui non era preparato. Si pente di aver pensato all’archibugio davanti a quel viso maturo, non ancora anziano, con una barba foltissima che gli parte da sotto gli occhi e si mangia anche la bocca. È nera, ma con una macchia bianca sul mento, forse saliva, o catarro, o uno sputo maldestro rimasto intrappolato fra i peli; comunque un sintomo di debolezza che lo risarcisce di quel lampo di paura. Allunga la mano e prende la chiave sfilandola dalle dita da vescovo dell’uomo, che però non tremano. Non ha anelli.
I lucchetti non saltano, non vengono sciolti; li apre facilmente con la chiave, nuovi e oliati.
Quello che ha perso il cavallo scarica a terra i bauli e li spalanca a calci: nel primo non c’è niente, nel secondo qualche abito, una borsa e tanti fogli, rotoli di carta, quaderni. Valeriano prende la borsa e senza aprirla azzarda il contenuto, non più di dieci ducati. Lo versa nel palmo della mano, e si è sbagliato di poco: dodici. Gli uomini s’innervosiscono e corrono ruvidi a interrogare il barbuto nella carrozza, uno anche malmenandolo, ma Valeriano ha già capito che non c’è nient’altro. Deve essere una specie di prete, ma al collo non ha nemmeno un crocifisso. Gli si avvicina e gli altri si scostano, sicuri che riesca a cavargli ciò che nasconde. Il capitano del Moro lo conoscono; adesso vedi, signor io-oro-non-ne-ho! Invece Valeriano lo lascia seduto in fondo alla carrozza come una tartaruga diffidente, che da fuori quasi non lo si vede più – solo occhi mobilissimi, attenti – e gli parla: «Dove stai andando?».
«A Melfi.»
«Sei un uomo di Sergianni?»
«Può essere. E voi?»
«Lo sono stato, forse lo sarò di nuovo.»
«Capisco.»
«Cosa?»
«Che siete un uomo d’armi. Oggi col re, domani col papa.»
«E tu chi sei?
«Uno che coltiva...»
«Con quelle mani? Non dire cazzate!»
«Se mi lasciate finire... Uno che coltiva il sapere, ecco.»
«E cos’è? Che ci cresce nel sapere? Mai sentito! Non prendermi per il culo che ti mando a Melfi senza mani, così poi vediamo cosa coltivi!»
«Stavo solo rispondendo.»
«Capo, torniamo?» fa uno dei suoi, indicando l’alone della luna che sta per spuntare, il cielo ormai buio. «Questo non c’ha niente...»
Valeriano è indeciso se sentirsi indispettito o no. Decide di no. Fa un gesto e solo due dei compagni rimontano in sella con lui; il terzo si guarda attorno, indugia fra il contenuto del secondo baule, allontana Valeriano che vuole calpestare tutto con gli zoccoli, lacerando, impastando di fango: «No, aspetta, aspetta... mi prendo uno di ’sti... questo bello bianco...».
«A che ti serve?» lo irride Valeriano. «Non sai scrivere!»
«Ma il mio culo sì!» grida lui infilando un quaderno nelle bisacce della sella.
Ridono tutti, forse anche il conducente e l’uomo di scorta, ma è troppo buio per vedere bene.
Si dissolvono nell’oscurità battendo il tamburo umido della terra.
All’alba la carrozza mette le ruote nei suoi stessi solchi, a ritroso. Il passeggero ora è seduto di fianco al conducente e scruta ogni albero, ogni sasso, cercando il segnale. Discutono, sono in disaccordo su quanto manchi ancora. Il cavaliere di scorta torna verso la carrozza e dice: «L’ho trovato, è qui» e indica col braccio un posto imprecisato. Gli vanno dietro e dopo una leggera salita tutto diventa chiaro, anche se la luce è diversa e le ombre orientate al contrario del giorno prima; il passeggero riconosce il segnale che ha lasciato. Scende e corre verso due grandi massi appoggiati l’uno all’altro come a formare un tetto, scosta gli arbusti messi a mascherare la piccola grotta e prende un involto, chiuso in una coperta. Con le mani diafane toglie la rugiada dall’erba, bagnandosi. Se le asciuga sulle cosce e poi con delicatezza scioglie la coperta: appaiono libri, codici, volumi grandi e piccoli, rilegati in cuoio o stoffa, e anche un piccolo forziere, che spostato tintinna. La sua barba è arata da un sorriso; ignora il forziere e accarezza i libri, come facendone un inventario che sa inutile. Le dita sfogliano le pagine, indugiano su di una a caso e il sole che ha alle spalle trasforma il suo indice, fermo su di un capolettera dorato, in una meridiana.
Capitolo Due
In cui la principessa Matilde
antivede il proprio futuro, e non le piace
Mette un gomito sulle gambe della sorella e chinandosi verso il finestrino guarda il monte, da sotto in su. Il suo profilo di drago dormiente assomiglia al basilisco che c’è nello stemma della famiglia, e del basilisco un tempo doveva avere anche il fiato, rovente. Chissà quando il Vulture ha smesso di eruttare per coprirsi di boschi, colando non più lava, ma querce. Era un vulcano, Catosso gliel’ha spiegato, e nel cratere ora ci sono i bei laghi freschi anche d’estate che non rivedrà più. Le prende una smania di andarci, subito, di costringere suo padre a far cambiare strada alla carrozza; vuole nuotare nel lago anche se è appena marzo, non importa. Piacerebbe anche a Ippolita, lo sa. A suo fratello no; se il principe, se il marchese, se il duca Sergianni III Caracciolo dice: Si va tutti ad Atella a visitare il monastero dove andrà Matilde, ci si va e basta. Sua madre è sempre la prima a chinare la testa, per cui figurarsi. Sente la sua mano che, a intervalli regolari, cerca di afferrarle la destra, di comunicarle un conforto che adesso non vale niente, simulacro di un sostegno ben più grande che non ha avuto la forza di darle.
Quando suo padre ha deciso, non si è opposta. L’ha lasciata piangere, disperarsi, minacciare d’ammazzarsi senza far altro che pregare o cercare di calmarla. Se la sente ancora nelle orecchie quella sua vocina fioca, da confessionale, che le ripeteva sempre le stesse cose. I piccoli occhi da animale braccato, se Matilde vuole, ora si gira e li rivede; sono sempre uguali, all’erta, e non cambieranno più. Povera mamma, forse nemmeno di notte li chiude, rosa dai sensi di colpa e dallo stratificarsi dell’omaggio che Sergianni le riserva, identico ogni mattina, da trent’anni: farla sentire inadeguata.
Quando suo padre ha deciso, nemmeno Catosso si è opposto. E ne ha sofferto più che per sua madre, sentendosi tradita. Matilde sa che anche a lui era stato imposto di tacere e, soprattutto, di non soffiare sul fuoco della ribellione. L’ha capito dai suoi silenzi, – così strani in lui – ed era sicura che anche da muto partecipasse al suo dolore, e ancor di più le pesava quel silenzio, rotto solo da una citazione inopportuna: le aveva detto che la parola monaca viene dal greco mónos, “solo”. Stizzita, l’aveva ringraziato per l’incoraggiamento e lui s’era come ritirato dentro la barba, così folta fino sotto gli occhi che, se anche era arrossito, non l’aveva notato. Il suo maestro Catosso, che le ha insegnato tutto quel che sa, accompagnando i suoi balbettamenti di bambina fino alla metrica latina e greca, la evitava con il cuore raffreddato, distante. Catosso, il confidente, l’unico amico che avesse, la schivava con la lingua mozzata dagli ordini del principe, padre snaturato, accidioso, senza amore. Come chiamare un simile genitore, se l’unico marito che è riuscito a trovarle è Cristo? Nessun altro era degno di lei, o forse manco uno dei figli dei suoi compari, sottoposti o superiori era stato abbastanza forte di stomaco da prendersela? Matilde ringrazia che nella carrozza non ci sia uno specchio perché si sente una mostruosità, l’orrenda femmina che a venticinque anni ancora nessuno se l’è sposata ed è costretta ad andare ad Atella, quattro case e due monasteri, a prendere le misure per seppellirci la propria bruttezza. Neanche il figlio maggiore dei De Guevara di Potenza, che poverino lui sì è brutto da far spavento, nemmeno lui l’ha voluta? Si ricorda di averlo incontrato da ragazza e di averlo trattato malissimo. Se ne pente. Faceva la superiore, la principessina, e lui gliel’ha fatta pagare, di sicuro: donna altezzosa, moglie scontrosa. Se potesse tornare indietro coprirebbe di baci le sue guance mangiate dal vaiolo sussurrandogli all’orecchio: Sposami, amore. Tutto, pur di non finire sepolta viva ad Atella.
Sua sorella le chiede qualcosa e Matilde è costretta a guardare il viso olivastro di Ippolita, le labbra carnose, gli occhi selvatici e dolci insieme, e vorrebbe essere lei, cui non mancheranno mariti e nemmeno amanti, la conosce. Se il principe Sergianni sapesse cosa combina la figlia minore ci manderebbe lei in monastero, a nerbate. Il pensiero l’avvolge in una vampa metà di gelosia e metà, lo ammette, di un desiderio di delazione. “Sono già santa” si dice quando torna a respirare con calma. E subito si agita di nuovo, scossa dal progetto appena nato ma definitivo di convincere Catosso a sposarla. Messer Trotta in fondo è un bell’uomo, stimato da suo padre, e ha mani delicate che quando si muovono a sostenere un concetto, a rafforzare un’idea, sembrano musica. Certo, giovane non è, ma la barba di bianco ha solo un ciuffetto di peli sul mento e non sembra davvero più vecchio di suo padre. Cosa dirà Sergianni? Dirà di no, ma lei deve tentare. Nel piccolo mondo traballante della carrozza che ha superato Rionero in un tripudi...