
- 416 pagine
- Italian
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eBook - ePub
Il diavolo veste Prada
Informazioni su questo libro
Nel favoloso, sfavillante mondo della moda, Miranda Priestly è un mito assoluto. Esile ed elegante come nessuna, dirige la rivista patinata più venduta e prestigiosa del pianeta. Quando Andrea Sachs - ventitré anni, una laurea in tasca e in testa il sogno di diventare scrittrice - accetta di lavorare per lei, non sospetta di aver stretto un patto con il diavolo. Perché Miranda dietro l'aspetto impeccabile nasconde un'indole velenosa e volubile, capace di trasformare la vita di Andrea in un vero e proprio inferno. Nell'arco di un anno frenetico ed esilarante, Andrea impara a camminare su vertiginosi tacchi a spillo, a soddisfare i mille capricci del suo direttore e a parare i colpi della sua perfidia, fino a scoprire che la sua vita privata, troppo a lungo trascurata, è in caduta libera.
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Informazioni
Editore
EDIZIONI PIEMMEAnno
2011Print ISBN
9788838471933eBook ISBN
97888585035531
Il semaforo non era ancora diventato ufficialmente verde all’incrocio tra la Diciassettesima e Broadway, e già un agguerrito esercito di taxi ruggiva sgommando alle mie spalle.
“Frizione, acceleratore, marcia, lascia la frizione’’, mi ripetevo febbrilmente, mentre lottavo per la mia vita nel traffico urlante di Manhattan a mezzogiorno.
La piccola decappottabile sobbalzò due volte prima di scattare in avanti, in mezzo all’incrocio. D’istinto pestai il piede sul freno, e zac! il tacco del mio sandalo Manolo Blahnik si ruppe e schizzò via, rimbalzando contro il fondo dell’auto.
Merda! Era il terzo paio di scarpe che facevo fuori quel mese, tutto a causa della mia totale mancanza di grazia nei momenti di stress.
Fui quasi sollevata quando, un minuto dopo, il motore si spense di colpo. Ne approfittai per sfilarmi i sandali e gettarli sul sedile alla mia destra. Sentivo il bisogno di fumare, ma avevo le mani sudate e mi guardai intorno in cerca di una superficie qualsiasi su cui asciugarle. L’occhio mi cadde sui pantaloni in pelle scamosciata di Gucci: senza riflettere, lasciai che le mie dita nervose imprimessero una scia umida sulla costosissima pelle che mi strizzava le cosce al punto da renderle praticamente insensibili.
In quel momento un camion mi superò strombazzando «E muoviti, stronza!» ruggì il guidatore, la faccia rossa di rabbia sopra il folto cespuglio di peli debordanti dalla canotta. «Dove diavolo credi di essere? Al drive in?»
Gli mostrai il dito medio e tornai a concentrarmi sulla mia fame di nicotina. Ma avevo di nuovo le mani sudate e, uno dopo l’altro, tre cerini scivolarono inutilmente sul tappetino. Ero appena riuscita ad accendere l’agognata sigaretta quando il semaforo diventò verde. Non mi restò che serrare le labbra e lasciarla lì penzoloni, mentre impugnavo il volante e riattaccavo con il tormentone “frizione, acceleratore, marcia, lascia la frizione’’, inalando fumo a ogni respiro. Tre isolati più in là osai finalmente staccare una mano dal volante per rimuovere la sigaretta. Troppo tardi: un serpentello di brace ornava il mio ginocchio sinistro, già ampiamente spalmato di cenere e di sudore.
Ebbi appena il tempo di calcolare che, incluse le scarpe, dovevo aver totalizzato all’incirca tremila dollari di danni, prima che il cellulare cominciasse a trillare a tutto spiano.
Il nome sul display confermò le mie peggiori paure: era lei. Miranda Priestly. La mia capa. Premetti il tasto di risposta: operazione non da poco, considerato che stavo fumando, azzardando un sorpasso e arpeggiando sui pedali a piedi nudi. Incastrai il cellulare tra spalla e orecchio e gettai la sigaretta fuori dal finestrino, mancando per un pelo un ciclista che mi insultò e schizzò via zigzagando.
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«Andreaaa! Andreaaa! Mi senti, Andreaaa?»
«Ciao, Miranda. Parla pure, ti sento perfettamente.»
«Andreaaa! Dov’è la mia macchina? L’hai già lasciata al garage?»
Il semaforo scattò sul rosso. Inchiodai, per fortuna senza investire né persone né cose. «Sono per strada, Miranda, sarò a casa tua a minuti.» Era tutto sotto controllo, la rassicurai, io e l’auto saremmo arrivate alla meta in orario e in perfette condizio...
«Va bene, va bene» sibilò, troncando la mia frase a metà. «Ma prima devi andare a prendere Madelaine. È tutto.» Clic.
Fissai il cellulare per qualche secondo prima di realizzare che aveva riagganciato. Madelaine?
Chi diavolo era Madelaine? E dove si trovava al momento? Era al corrente del fatto che stavo andando a prenderla? Ma soprattutto, perché mai il compito di scarrozzarla spettava proprio a me quando Miranda aveva alle sue dipendenze un autista a tempo pieno, una governante e una tata?
A un tratto ricordai che nello Stato di New York è illegale parlare al cellulare quando si è alla guida. L’ultima cosa di cui avevo bisogno in quel momento era una ramanzina da parte di un solerte poliziotto, così mi infilai nella corsia degli autobus e inserii le quattro frecce. “Inspira, espira’’, mi esortai, ricordando persino di tirare il freno a mano prima di staccare il piede da quello a pedale. Erano anni che non guidavo una macchina senza il cambio automatico; cinque, per la precisione, da quando, cioè, il mio fidanzato del liceo aveva accettato di darmi qualche lezione di guida, con esiti peraltro poco incoraggianti. Purtroppo, Miranda si era mostrata del tutto indifferente a questo dettaglio, quando mi aveva convocata nel suo ufficio un’ora e mezzo prima.
«Andreaaa, devi prendere la mia macchina e portarla al garage sotto casa. Subito, mi raccomando, perché ci serve stasera per andare agli Hamptons. È tutto.» Ero rimasta lì impalata, a balbettare che non ero sicura di saperla guidare, ma lei, china sull’enorme scrivania, sembrava aver già rimosso la mia presenza. «È tutto, Andreaaa» era sbottata infine, indicando l’uscita senza alzare lo sguardo.
Prima di assolvere al compito assegnato, mi era toccato svolgere un bel po’ di indagini. Per prima cosa, dovevo scoprire dov’era parcheggiata la macchina. La cosa più probabile era che magari fosse in riparazione, ma dove? Semplice: presso una delle mille officine disseminate tra Manhattan e il Queens. O forse Miranda l’aveva prestata a un amico che magari l’aveva lasciata in qualche garage su Park Avenue? Naturalmente, c’era la possibilità tutt’altro che remota che Miranda si riferisse a un’automobile nuova di zecca, di marca ignota, da ritirarsi presso un altrettanto ignoto rivenditore.
Avevo cominciato col telefonare alla sua tata, ma mi aveva risposto la segreteria. La governante era seconda sulla mia lista di persone da chiamare in caso d’emergenza, e, per una volta, si era mostrata abbastanza collaborativa. Mi aveva spiegato che la macchina in questione era una «decappottabile sportiva color verde pino inglese». Lei però non aveva idea del modello, né di dove potesse trovarsi al momento. Il terzo nome sull’elenco era l’assistente del marito di Miranda: a quanto ne sapeva, il boss possedeva una Lincoln Navigator nera iper-deluxe e una specie di piccola Porsche verde. Bene. Facevo progressi. Una chiamata al concessionario Porsche sull’Undicesima Avenue aveva rivelato che sì, avevano appena finito di riverniciare la carrozzeria e di installare un nuovo lettore cd in una Carrera 4 cabriolet verde di proprietà di Miranda Priestly. Bingo! Avevo chiamato il car service e mi ero fatta portare al concessionario. Lì avevo esibito una nota scarabocchiata da me con la firma Miranda (falsa, naturalmente) che li autorizzava a consegnarmi il veicolo.
Nessuno aveva ritenuto opportuno domandarsi che sorta di relazione esistesse tra me e la signora Priestly. Il titolare mi aveva dato le chiavi e aveva accolto con una risatina la mia richiesta di portare l’auto fuori dal garage per risparmiarmi la marcia indietro. Avevo impiegato circa mezz’ora per percorrere dieci isolati, per di più nella direzione opposta rispetto a Uptown, dove abitava Miranda. Le probabilità che arrivassi incolume all’incrocio tra la Settantaseiesima strada e Fifth Avenue erano piuttosto esigue.
La telefonata di Miranda aggravò il mio sconforto.
Cominciai daccapo il giro di telefonate. Questa volta, per fortuna, la tata rispose al secondo squillo.
«Cara, sono Andrea.»
«Ehi, che succede? Sei per strada? Ti sento malissimo.»
«Ho appena ritirato la Porsche di Miranda dal concessionario. Credevo di doverla portare al garage sotto casa, ma adesso pare che invece mi tocchi recuperare una certa Madelaine. Chi diavolo è Madelaine e dove accidenti potrebbe trovarsi?»
Cara rise per cinque minuti filati prima di riuscire a rispondere che Madelaine era un cucciolo di bulldog francese e che attualmente era dal veterinario. «L’hanno appena sterilizzata. In teoria avrei dovuto occuparmene io, ma Miranda mi ha chiesto di andare a prendere le bambine prima del solito, di modo che stasera possano tutti partire per gli Hamptons.»
«Stai scherzando? Stiamo parlando di un cane? Sono l’autista di un fottuto bulldog?»
«Madelaine è all’East Side Animal Hospital, sulla Cinquantaduesima strada tra la Prima e la Seconda Avenue. Mi spiace, Andy, adesso devo andare. Chiamami se qualcosa va storto, okay?»
Chiusi la comunicazione e mi rituffai nel traffico a bordo del bizzoso mostro verde. Lo stress mi divorava, privandomi delle ultime preziose gocce di concentrazione. Giunta sulla Seconda Avenue sfiorai la collisione con un taxi lanciato a tutta velocità. Ringraziai la mia buona stella per lo scampato pericolo. La più piccola ammaccatura sulla fiancata, infatti, avrebbe senza dubbio comportato il mio immediato licenziamento.
Naturalmente, a quell’ora, trovare un buco dove parcheggiare era impossibile, anche in sosta vietata. Esasperata, chiamai il servizio informazioni per ottenere il numero dell’Animal Hospital. Pochi minuti dopo (giusto il tempo di rispondere a un’altra telefonata di Miranda, che voleva sapere perché non fossi ancora tornata in ufficio) fui raggiunta da una servizievole segretaria. Teneva in braccio Madelaine, che guaiva e sbuffava senza sosta. La donna mi indicò la sutura sul ventre della cagnetta e mi raccomandò di guidare molto, molto dolcemente, perché la piccola era convalescente e “si sentiva un po’ giù’’.
Con Madelaine accucciata sul sedile del passeggero, mi accesi un’altra sigaretta e strofinai i piedi uno contro l’altro, per riattivare la circolazione nelle mie estremità infreddolite. Avviai il motore e ricominciai a cantilenare il mio mantra “Frizione, acceleratore, marcia, lascia andare la frizione’’, sforzandomi di ignorare i pietosi guaiti del cane. Quando arrivammo sotto casa di Miranda, Madelaine era sull’orlo di una crisi isterica. Cercai di consolarla, senza successo. I cani, si dice, certe cose le sentono e probabilmente le mie carezze non erano troppo sincere.
Ecco, sospirai tra me, a cosa erano valsi quattro anni di lettura critica e analisi comparata di montagne di romanzi, drammi, racconti e poesie. A far sì che, ancora fresca di college, mi ritrovassi alle prese con quel cucciolo disperato, più simile a un patetico pipistrello bianco che a un cane. Proprio quello che avevo sempre sognato.
Piantai la macchina al garage e consegnai il bulldog al portiere senza ulteriori incidenti. Tuttavia, nel salire sull’auto a noleggio che mi aveva seguito su e giù per Manhattan, mi accorsi che le mani mi tremavano per l’agitazione. L’autista mi lanciò un’occhiata solidale e offrì un commento consolatorio sulla difficoltà di guidare senza cambio automatico, ma io non ero in vena di chiacchiere. «Torniamo all’Elias-Clark Building» dissi. Lui fece il giro dell’isolato e si diresse verso Park Avenue. Percorrevo quella strada ogni giorno – spesso più volte al giorno – e sapevo che mi restavano circa otto minuti per riprendere fiato e ricompormi prima dell’arrivo in ufficio. Con un po’ di fortuna sarei riuscita persino a rendere un tantino meno evidente l’alone di cenere e sudore che conferiva un indubbio tocco personale ai pantaloni Gucci in pelle scamosciata. Quanto alle scarpe, potevo solo sperare nel miracoloso intervento dell’equipe di calzolai ultraqualificati abitualmente impiegata dalla redazione di «Runway» nei casi disperati.
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Contro le mie previsioni, impiegammo soli sei minuti e mezzo ad arrivare all’Elias-Clark. Rassegnata, scesi dall’auto e mi avviai all’ingresso. In bilico tra i dieci centimetri di un tacco e la sconfortante assenza dell’altro, avevo l’incedere sgraziato di una giraffa ubriaca.
Cinque minuti e un salto al guardaroba più tardi, indossavo un paio di stivali Jimmy Choo nuovi di zecca. Si abbinavano perfettamente alla gonna di pelle nera che mi ero infilata dopo aver gettato i pantaloni scamosciati nel cestone della lavanderia.
Così abbigliata feci una capatina al Beauty Closet, dove uno dei redattori esaminò la mia faccia sudata e stravolta prima di rovesciarmi in grembo un baule di correttori e fondotinta.
“Non male’’, pensai a restauro ultimato, studiandomi nello specchio a figura intera. Incontrandomi, nessuno dei miei colleghi avrebbe detto che solo un quarto d’ora prima ero stata impegnata in una strenua lotta per la sopravvivenza a bordo di un’indomabile Porsche verde pino.
Con passo disinvolto feci il mio ingresso nella suite riservata alle assistenti di Miranda. Mi avvicinai alla scrivania pregustando i tre minuti di libertà che mi separavano dal termine della pausa pranzo. Ero sul punto di sedermi quando...
«Andreaaa» chiamò Miranda dal suo ufficio. «Dove sono la macchina e il cucciolo?»
Con scatto da centometrista balzai dalla sedia e mi lanciai sulla moquette alta, soffice e insidiosa, specie per chi, come me, calzava tacchi vertiginosi. Mi arrestai sull’attenti davanti alla scrivania del direttore. «Ho lasciato la macchina al garage del condominio e Madelaine con il portiere, Miranda» annunciai, fiera di avere portato a termine entrambi gli incarichi senza danni alla macchina, al cane, e, soprattutto, a me stessa.
«E perché mai avresti fatto una cosa del genere?» ruggì Miranda, alzando per la prima volta lo sguardo dalla lettura di «Women’s Wear Daily». «Ho specificamente richiesto che li portassi in ufficio. Le bambine saranno qui a momenti, dobbiamo partire.»
«Oh, beh, veramente, io pensavo che tu...»
«Basta così. Non mi interessano i dettagli della tua incompetenza. Va’ subito a prendere l’auto e Madelaine.
Mi aspetto di vederti tornare entro quindici minuti. Chiaro? È tutto.»
Quindici minuti? Stava forse delirando? Avrei impiegato un minuto per scendere in strada, tre o quattro per trovare un’autista disponibile ad accompagnarmi, sei-otto minuti per raggiungere casa sua e un minimo di tre ore per scovare la cagnetta perlustrando una per una le diciotto stanze dell’appartamento. Dopo di che avrei dovuto recuperare la Porsche e pilotarla senza incidenti per i venti isolati fino all’ufficio.
«Sarà fatto, Miranda. Quindici minuti.»
La tremarella tornò ad aggredirmi nel momento esatto in cui uscii di corsa dall’ufficio. Mi chiesi se il mio giovane cuore fosse sul punto di dare forfait. In corridoio mi accesi una sigaretta che subito mi sfuggì di mano e scivolò sullo stivale nuovo di zecca. Tempo di abbassare lo sguardo e sulla tomaia si era disegnata una vistosa bruciatura «Fantastico...» mormorai, arrotondando a quattromila dollari il valore totale dei capi da me rovinati in poche ore: non c’era dubbio, era il mio record personale. Ma non dovevo lasciarmi abbattere per così poco. “È possibile che Miranda muoia prima del mio ritorno’’, tentai di rincuorarmi. Forse una malattia rara contratta in un viaggio esotico l’avrebbe stroncata nell’atto di ritoccarsi le labbra, liberandomi di colpo dalla fonte di tutti i miei guai... Era possibile, ma pur sempre improbabile. Aspirai un ultimo tiro, spensi la sigaretta ed entrai in ascensore rimproverandomi per la mia mancanza di razionalità. «Io non voglio che lei muoia» mormorai. «Perché se morisse, andrebbero in fumo le mie speranze di poterla uccidere con le mie mani. E questo sì sarebbe un vero peccato...»
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2
Quando, il giorno del colloquio, avevo messo piede per la prima volta nella lobby dell’Elias-Clark Building, non avevo la più pallida idea di quel che mi aspettava.
Mentre l’addetto alla sicurezza controllava la mia carta d’identità, ignoravo che stavo per salire non già su un banale ascensore, ma su un magico contenitore di tutto ciò che era en vogue. Non sospettavo che gli esperti di gossip più accreditati, i protagonisti delle loro rubriche e i big di stampa e tivù nutrissero una assoluta venerazione nei confronti della elegantissima folla che quotidianamente si lasciava trasportare da quelle scatole lucide e silenziose.
Mi guardai intorno. Mai, prima di allora, avevo posato lo sguardo su corpi tanto perfetti. Gli uomini, in particolare, apparivano statuari nei loro dolcevita a costine e pantaloni attillati, tonici al punto giusto, non troppo muscolosi perché “non è sexy’’.
Quanto alle donne, non avevo mai ammirato capelli di un biondo così radioso, né immaginavo che la manutenzione di quelle meches rigorosamente firmate costasse in media seimila dollari all’anno. Le borse e le scarpe che si aggiravano per la lobby gridavano «Prada! Armani! Versace!» Allora io non potevo saperlo, ma capitava spesso che, nei corridoi dell’Elias-Clark Building, tali prestigiosi accessori s’imbattessero nello stilista che li aveva creati. Erano toccanti ricongiungimenti, grazie ai quali Miuccia, Giorgio o Donatella potevano rimirare commossi l’efficacia erotizzante degli stivali autunno-inverno 2003-2004 o la sublime eleganza della borsa haute couture per la primavera. Tutto quel che sapevo, quella mattina di novembre, era che la mia vita stava per cambiare: se per il meglio oppure no, restava da vedere.
Fino a quel momento, per ventitré lunghi anni, ero stata la perfetta incarnazione della Ragazza Americana di Provincia. La mia intera esistenza si riduceva a una modesta serie di cliché.
Ero nata e cresciuta ad Avon, in Connecticut. Un’intensa attività sportiva, gruppi giovanili e feste alcoliche in eleganti ville sperdute nella campagna erano stati per anni i miei unici passatempi.
Ad Avon, le ragazze mettevano i pantaloni della tuta per andare a scuola, i jeans per uscire il sabato sera e un ammasso di sbuffi zuccherosi per ballare nelle occasioni pseudo-formali. Più tardi, l’università. A confronto del liceo, era un mondo decisamente aperto e sofisticato. La Brown University offriva corsi, attività e workshop per tutti i gusti. Qualunque interesse intellettuale o creativo, per quanto esoterico o stravagante, aveva un corrispettivo tra le materie d’insegnamento; con un’unica eccezione: la moda. Per farla breve, quattro anni passati a gironzolare per Providence in felpa e pedule, a studiare gli impressionisti francesi e a scrivere tediose tesine di storia dell’arte e della letteratura, non mi avevano minimamente preparata al mio primo lavoro post-universitario.
page_no="20" Avevo cercato di procrastinare quel momento il più a lungo possibile. Subito dopo la laurea, avevo preso con me tutti i soldi che ero riuscita a racimolare ed ero partita da sola per un viaggio di tre mesi. Per quattro settimane avevo girato l’Europa in treno, passando molto più tempo sulle spiagge che nei musei, evitando di chiamare casa se non per parlare con il mio ragazzo, Alex. Stavamo insieme da tre anni. Ormai Alex mi conosceva meglio di chiunque altro e sapeva che presto avrei cominciato a sentirmi sola. Così terminato il training per diventare insegnante di scuola elementare, mi aveva fatto un’improvvisata raggiungendomi ad Amsterdam.
Di lì a qualche giorno, al termine di un pomeriggio di stravizi in un accogliente coffee-shop, avevamo messo insieme i nostri travellers’ cheque e, travolti da un’improvvisa ispirazione, avevamo acquistato due biglietti per Bangkok.
Avevamo viaggiato per tutto il Sudest asiatico, dove, pur sforzandoci, era raro che riuscissimo a spendere più di dieci dollari al giorno. Il nostro argomento di conversazione preferito era il futuro. Alex non vedeva l’ora di cominciare a insegnare nella scuola elementare di uno dei quartieri più difficili di tutta New York. Lo esaltava l’idea di contribuire a formare le giovani e ricettive menti dei diseredati e dei negletti. Le mie aspirazioni non erano altrettanto nobili: volevo lavorare nella redazione di una rivista. Ma non una rivista qualsiasi: il «New Yorker». L’eventualità che il prestigioso settimanale mi assumesse appena uscita dall’università era piuttosto remota, tuttavia ero assolutamente determinata: avrei scritto per quel giornale entro cinque anni dalla laurea. Il mio sogno da quando ero in grado di intendere e di volere, l’unico lavoro al mondo che mi interessasse davvero.
Avevo preso in mano la mia prima copia del «New Yorker» dopo aver as...
Indice dei contenuti
- Copertina
- Frontespizio
- Colophon
- 1
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- 3
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- 10
- 11
- 12
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- 14
- 15
- 16
- 17
- 18
- 19
- Ringraziamenti
- La vendetta veste Prada – anteprima