Perché credo
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Perché credo

Una vita per rendere ragione della fede

  1. 400 pagine
  2. Italian
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Perché credo

Una vita per rendere ragione della fede

Informazioni su questo libro

Per la prima volta, Vittorio Messori racconta la storia del proprio incontro con la fede. Il più noto scrittore cattolico a livello internazionale, autore di bestseller tradotti in tutto il mondo, non è nato cattolico. La famiglia e la scuola ne avevano fatto un anticlericale e un razionalista della dura scuola torinese. Poi, nell'estate del 1964, accadde qualcosa di imprevedibile: un incontro con il Vangelo - al quale dedicherà gli studi di una vita - che, come a forza, lo "converte". Una storia insolita, in fondo drammatica, che Messori descrive in questo dialogo con il collega Andrea Tornielli, svelando particolari finora taciuti. Una svolta radicale, tale da rovesciare la sua vita e quella dei molti che, grazie ai suoi libri, scopriranno o riscopriranno la fede. Uomo di frontiera tra le "due culture", Messori è credente dalla prospettiva cattolica ortodossa e, al contempo, non conformista, aliena da ogni clericalismo, integralismo o moralismo di sorta. "Giudico le idee di tutti. Non giudico la vita di alcuno", dice. La storia di una vita, che si fa anche riflessione di grande spessore culturale. Una confessione ricca di conoscenza che colpisce per grande umanità. Per dirla con Pascal: "Pensavano di trovare un autore. Hanno trovato un uomo".

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1

«QUI STO, NON POSSO NIENT’ALTRO.»

La prima domanda, all’inizio del nostro percorso, è semplice e al tempo stesso impegnativa. Com’è avvenuto il tuo incontro con la fede, dopo una prima giovinezza del tutto lontana dalla Chiesa?
Questo dialogo – che, come ben sai, ho stentato ad accettare – rappresenta anche per me il tentativo di rispondere per la prima volta, in pubblico, a questa domanda, riflettendo su ciò che mi è accaduto nella Torino estiva del 1964.
Per arrivarci, dovremo prenderla alla lontana. Per esempio, ricordando che tempo fa ho voluto fare con Rosanna un viaggio nei luoghi di Martin Lutero. Abbiamo girato per il Brandeburgo e la Sassonia, abbiamo trascorso un paio di giorni a Wittenberg, dove furono affisse le famose “tesi” che, con sorpresa di quel maestro in teologia – le cui opinioni non erano originali ma liberamente proposte da altri, nella Chiesa: un caso come quello del sistema copernicano divulgato da Galileo, esso pure liberamente discusso – diedero fuoco alle polveri. Come sai, le idee non si impongono sempre e comunque, ma solo quando trovano i tempi favorevoli. A Worms, in Renania-Palatinato ho visto il monumento, di cui tante volte avevo letto nei libri, che ricorda la convocazione di Lutero davanti alla Dieta imperiale, nel 1521, quando Carlo V in persona gli chiese di rinunciare alle sue dottrine, visto l’uso che ne veniva fatto. Lutero avrebbe risposto con una frase che è diventata talmente proverbiale da essere incisa sul basamento della statua che lo raffigura. L’imperatore, infatti, disse al tempestoso religioso: «O ritratti, oppure ne traiamo le conseguenze e ti consegniamo all’Inquisizione». Il frate agostiniano (lo era ancora) rispose, stando alla tradizione: «Qui sto, non posso nient’altro», aggiungendo subito: «Dio, aiutami. Amen». Naturalmente, fior di dotti teutonici si sono accapigliati per stabilire le parole esatte: ma sono curiosità che non intaccano la sostanza.
Ovviamente, mica prendo Martin Lutero ad esempio, né nel bene né nel male: come avviene, in fondo, per tutti i personaggi davvero grandi della storia, e non soltanto quella religiosa, più cerco di approfondire quell’uomo e più comprendo perché Gesù ci abbia imposto di non giudicare e di lasciare a lui il verdetto finale. Le idee si possono, si devono vagliare e, se necessario, condannare. Non è affatto vero che tutte le opinioni siano da rispettare, come vuole la vulgata del benpensante attuale, che desidera sentirsi gratificato e buono. Ci sono idee, e molte, che è doveroso contrastare, magari combattere duramente.
Ma che ne sappiamo noi, nel profondo, delle persone che quelle idee esprimono e incarnano? Sai che sono convinto che l’ecumenismo, per essere autentico e (a Dio piacendo) proficuo, ha bisogno di verità e non di rimozioni buoniste, ovviamente tutte a favore dei “fratelli separati”, mentre dai cattolici ci si aspetta sempre e solo dei mea culpa. Lasciami constatare, allora, che sul piano della verità oggettiva, l’opera di quel frate fu sicuramente disastrosa: spezzò per sempre l’unità non solo religiosa ma anche culturale dell’Occidente; e se l’Europa non è più una patria sola, come ai tempi della christianitas medievale, lo si deve anche a lui. Provocò cataste di morti, devastazioni, crudeltà nelle guerre di religione che, per l’orrore causato in quasi due secoli, furono il seme che portò all’agnosticismo e all’ateismo dell’Occidente; proclamando di voler riscoprire la “libertà” del cristiano, in realtà lo sottomise ai Prìncipi divenuti al contempo vescovi e papi, distruggendo la liberante distinzione di Gesù tra Dio e Cesare; scegliendo la rottura violenta indusse l’irrigidimento della Chiesa, mentre sarebbe occorso continuare nella purificazione lenta, già in atto nel profondo, favorendola con la più potente arma cristiana. La quale è la riforma continua, certo: ma quella che ciascuno comincia da se stesso, il desiderio e la ricerca di santità personale. Niente è meno cristiano del rivoluzionario politico, che vuol cambiare tutto e tutti, tranne se stesso. Molte altre sciagure ancora portò con sé quell’uomo che sposò una monaca come estrema provocazione al papa.
Questi frutti, però, può constatarli, nei fatti, lo storico, su un piano oggettivo; sul piano soggettivo il cristiano, in quanto tale, lascia al Padreterno il giudizio sull’uomo. L’Aldilà sarà, in tutti i sensi, un luogo (o una “condizione”, se vuoi, essendo al di fuori dello spazio e del tempo) di sorprese di ogni tipo. Anche riguardo alla distribuzione degli ospiti nei vari settori...
Ma non siamo qui per parlare di Lutero.
Per l’appunto: mi stavo giusto chiedendo perché ti viene in mente fra’ Martino.
Dovrai rassegnarti alle mie divagazioni, che spero non siano gratuite ma che, in ogni caso, mi sono necessarie quando seguo una traccia di pensiero. Dopo tanti anni a studiare, a riflettere, a vagliare, le idee sono per me anelli di una catena che deve essere srotolata per cercare la verità, inquadrandola nel suo contesto e cercando pure così di sfatare miti e ricordare fatti oggettivi, anche se sgradevoli al “teologicamente corretto”. Per tornare a fra’ Lutero: se mi viene in mente è perché, pur nella mia ignavia, so che – se fossi messo alle strette – dovrei confessare anch’io: «Qui sto, non posso nient’altro». Accettandone tutte le conseguenze, anche quelle estreme.
Voglio dire che io non ho scelto niente, non c’è in me nessun merito (o nessuna colpa: per i miei maestri universitari lo fu...) per quanto mi è accaduto. Dunque, posso fare mie le parole attribuite a quel frate fatale. E lo faccio naturalmente con umiltà, lontano da ogni presunzione, anzi con timore e tremore. Sono ben cosciente che la fede è un dono misterioso ma che è al contempo una proposta che salvaguarda la libertà umana. Eppure – almeno è la mia esperienza – possono esserci delle eccezioni, dei casi in cui sei messo con le spalle al muro. Potresti rifiutare, certo, però con la stessa irragionevolezza di chi chiude non solo il cuore ma anche gli occhi e respinge, ostinato, l’evidenza. E portandoti dietro un insopportabile peso di coscienza. È quanto mi è accaduto.
Ci ho riflettuto molte volte e, dunque, con sincerità e semplicità devo confidarti che, se si ripetessero condizioni come, nel secolo scorso, quella spagnola o russa o cinese o messicana o cambogiana e se qualcuno mi puntasse una pistola alla nuca, intimandomi: «Riconosci che il Vangelo è solo un coacervo di miti orientali, giudaici ed ellenistici, che non c’è nulla di vero, che è solo una grande illusione, un’alienazione durata sin troppo; o ammetti questo, oppure tiro il grilletto», ebbene, sarei costretto a dire, senza esitare: «Spara pure. Mi spiace per te che ti accolli un omicidio e regali un martire in più ai tuoi nemici, ma quello che pretendi proprio non posso concedertelo».
Dico questo, te lo ripeto, in modo sommesso e, magari, con un po’ di spavento. Non ho né ho mai avuto alcuna intenzione di ergermi come un busto in marmo, ho in uggia spavaldi e sbruffoni e ho gran timore dei fanatici, anche se tra i doni che ho ricevuto c’è, credo, un certo coraggio intellettuale che mi ha fatto impegnare – magari da solo, o quasi, anche perché talvolta in anticipo – per le prospettive ritenute giuste. Ma, in questo caso, non saprei proprio che farci: mi sparino pure, peggio per loro, non riuscirò a ritrattare nulla di quanto afferma il Credo. Hier stehe ich, ich kann nichts anders, come sta scritto sul monumento della Lutherplatz di Worms. Sto qui, non posso nient’altro. E che, appunto, Dio mi aiuti, per quel tanto di tempo che mi resta, a essere meno indegno di questa evidenza.
Va bene. Tu non ritratti non perché non vuoi ma perché non puoi. Quello, dunque, spara. E poi, che succede?
Che domanda! È così ovvio... Si apre la breccia nel muro, che è più sottile di quanto tanti credono, e mi inoltro – seguendo le orme dei miliardi di fratelli e sorelle in umanità che mi hanno preceduto e dei miliardi che mi seguiranno, sino al termine della storia – mi inoltro nel mondo e nella vita veri, di cui questi che conosciamo non sono che un prologo e una preparazione.
Una prospettiva impensabile, stando a molti, oggi. Viviamo infatti completamente assorbiti dall’al di qua...
Impensabile? Non ho mai capito perché dovrebbe esserlo. Come si chiede Pascal in uno dei suoi appunti: «Che cosa è più difficile? Il nascere o il rinascere?». Guarda che un passaggio simile, umanamente ancora più improbabile, l’abbiamo già fatto “venendo alla luce” – espressione significativa – dal buio di un ventre femminile, dal chiuso di un sacco amniotico, dal legame con un cordone ombelicale. Se già alla nascita abbiamo fatto una “pasqua”(“passaggio”, appunto, in ebraico), che c’è di strano nel credere che lo faremo anche alla morte? Se il feto ancora dentro la pancia della madre potesse capirci, potrebbe credere a ciò che gli descriviamo di quel che c’è fuori? E invece, c’è proprio tutto ciò che stiamo vedendo entrambi, guardandoci attorno. Cos’è, razionalmente, più improbabile: la vita o la continuazione della vita? Perché non stupirsi del parto e dubitare, al contempo, della possibilità di andare verso un’altra nascita, verso una luce che non conoscerà tramonto?
Guarda che siamo in numerosa compagnia: se l’archeologia è, in gran parte, studio di tombe, è perché ogni cultura, di ogni luogo e tempo, ha creduto nella sopravvivenza dei defunti. Prima ancora che alle case dei vivi, sempre si è pensato alle dimore per i morti: perché farlo, se non erano ormai che carne destinata alla putrefazione? C’è una “democrazia” su cui riflettere anche nella storia: se la stragrande maggioranza dell’umanità (anzi, probabilmente la totalità) ha sempre creduto che la morte fisica non fosse la fine di tutto, non avrà forse seguìto un istinto che le derivava da una realtà? Tutti concordano sul fatto che ci sono delle convinzioni inestirpabili e universali (il fatto, ad esempio, che il furto, l’omicidio, la menzogna, il tradimento, sempre e ovunque, siano considerati condannabili), convinzioni, dunque, che rinviano a “verità naturali”, depositate dentro a ciascuno e non create da consuetudini e tradizioni. È il caso pure della convinzione universale in una sopravvivenza al di là della morte, anche se concepita in modi diversi.
Quel che vediamo è solo la vita terrena e poi la sua fine, mentre non scorgiamo – con gli occhi della carne – coloro “che sono andati avanti”. Ma anche questo, che significa? Prima del microscopio, come immaginare che dappertutto vi sono un movimento e un brulichio incredibili, anche se invisibili a occhio nudo? E prima del telescopio, chi se li immaginava i milioni, forse i miliardi di galassie che ruotano nello spazio infinito? Ciò che fa girare il mondo moderno, che letteralmente lo mantiene in vita, è l’energia elettrica che nessuno ha mai visto e che per una serie lunghissima di secoli nessuno ha mai neppure immaginato. In questo momento, ovunque ci spostiamo, siamo attraversati letteralmente da milioni di parole, di immagini, di segnali provenienti da stazioni radio e televisive, da telefoni mobili, da telecomandi. Tutto un mondo che è il nostro, ma che però, senza appositi ricevitori, nessuno ha visto né vedrà mai. E non erano considerati visionari o francamente matti coloro che dicevano che, al di là delle Colonne d’Ercole, alla fine del “Gran Mare Atlantico” non c’era la cascata dell’acqua da una terra piatta nel cosmo, ma c’erano terre immense, abitate da genti a noi del tutto sconosciute?
E com’è quel mondo al di là della Porta?
La Chiesa ha sempre affermato senza esitazione che quel mondo “c’è”, ma non ha mai preteso di spiegarci “com’è”. Ciò che importa sapere è che vale la pena di fare tutto ciò che possiamo per giungere allo stato di gioia – infinita, eterna – che lì, se lo vogliamo, ci è donata. E che, al contempo, dobbiamo essere consapevoli che vale la pena di fare tutto ciò che possiamo per schivare uno stato possibile di sofferenza altrettanto infinita ed eterna. Paradiso, inferno e anche purgatorio – lasciali dire certi nouveaux théologiens, tanto nuovi da scoprire mezzo millennio dopo le tesi della Riforma – insomma, i tre “stati” dell’Aldilà esistono, ne sappiamo ragioni e funzioni nel piano che il Cristo ci ha rivelato, ma non siamo in grado di descriverli. Dante è ammirevole come poeta sommo e come grande credente, non come topografo di Cielo e Inferi. Ciò che conta è che continuiamo a desiderare la gioia infinita promessaci dal Vangelo e a temere la sofferenza eterna, comportandoci di conseguenza. Il resto è secondario. La Grande Speranza non resterà delusa: questo è ciò che conta.
Tra l’altro mi fai venire in mente che, una notte ormai molto lontana, da quei luoghi misteriosi eppure così reali, ho ricevuto la telefonata di uno zio. Mi ha rassicurato sulla sua sorte, ma non me li ha descritti.
Scusa, ho capito bene? Stai parlando davvero di una telefonata dall’Aldilà? Ci mancava solo il Messori “medium”...
Me ne rendo ben conto, comincio male. Lo so che adesso ti verrà il sospetto di avere sbagliato tutto, di stare perdendo il tuo tempo con un visionario e non di parlare con il collega che in libri e articoli ti era sembrato lucido, positivo. Diciamo, almeno, “normale”. Lo so ma, qui pure, che posso farci?
Erano gli anni del liceo, a Torino, ero ancora lontano dalla svolta che mi avrebbe “costretto”alla fede. I genitori e il fratello, ancora bambino, erano andati a Sassuolo, da dove veniamo, per il primo anniversario della morte di Aldo, lo zio materno morto giovane per un ictus cerebrale. Ero solo in casa, era notte, dormivo del sonno pesante di quel giovanotto in salute che ero, quando fui svegliato dal telefono. Ripresomi a fatica, ebbi però modo di svegliarmi del tutto con una piccola passeggiata, visto che l’apparecchio era all’altro capo dell’appartamento. Sai com’era una volta, la scatola nera appesa al muro, all’entrata... Alzai la cornetta: un gran caos di disturbi elettrici, di fischi, di raschi, i disturbi che c’erano allora sulle linee quando la chiamata era interurbana e veniva da molto lontano. Dopo qualche mio «Pronto! Pronto!» mi arrivò – chiarissima, inconfondibile – la voce, che ben conoscevo, di mio zio. Mi disse, affannato, parole che ancora adesso ricordo come se le avessi udite ieri: «Vittorio, Vittorio! Sono Aldo! Sto bene! Sto bene!». Subito dopo, il rumore che annunciava la caduta della linea, la fine del collegamento. Guardai l’ora. Come mi confermarono poi i miei genitori, al loro ritorno, era quella – esatta al minuto – della morte dello zio, giusto un anno prima.
Ho esaminato ogni altra possibilità e ho finito con l’arrendermi all’evidenza, non essendo come gli ideologi, gli atei in primis, che fanno prevalere sui fatti il loro schema aprioristico: era proprio zio Aldo, sua era la voce, non reggono ipotesi di scherzi macabri, equivoci, allucinazioni. Né mi è possibile pensare a un sogno, visto che ero ben sveglio sia durante sia dopo la telefonata: in effetti, quella notte non tornai più tra le coltri e attesi in piedi l’alba.
Eri ancora lontano dalla fede. Ma un episodio simile, indubbiamente impressionante, non bastò per provocarti delle domande, per risvegliare in te interesse, o almeno curiosità, per la dimensione religiosa?
No, non bastò. Passata la sorpresa, rimossi presto il ricordo di quella notte, mettendo l’episodio tra le singolarità inspiegabili in cui a tutti può capitare di imbattersi. Come ricordi, Gesù stesso ci avverte, nella parabola del povero Lazzaro, quando il ricco, ormai morto, chiede ad Abramo di poter avvertire i cinque fratelli perché non finiscano essi pure all’inferno. Ed Abramo: «Se non ascoltano Mosè e i Profeti, non sarebbero persuasi neanche se qualcuno risuscitasse dai morti».
C’è un mistero di accecamento di cui io stesso ho fatto esperienza. E ciò valga anche per quelli che si lagnano del “silenzio di Dio”. Spesso non è Lui che è muto, siamo noi che siamo sordi. È vero (ne parleremo più avanti, come merita) che, per rispettare la libertà delle creature, il Creatore ha scelto di praticare la “strategia del chiaroscuro”. Ma – lo dice la parola stessa – accanto al buio c’è anche la luce: ed è proprio questa che spesso ci si ostina a non vedere.
Hai avuto altre esperienze di questo tipo?
Non personalmente. Ma, molti anni dopo, andai nel Voralberg, nell’Austria occidentale, in un paesino di montagna, per incontrare nel suo misero chalet Maria Simma. Era un’umile contadina, consacratasi come eremita alla Madonna perché, malaticcia, era stata respinta dai monasteri di clausura dove desiderava entrare; era una vecchina che sopravviveva lavorando il suo orto (non accettava alcuna offerta) e che aveva il carisma di parlare con i trapassati. Dopo molte ostilità e diffidenze – com’è logico e anche giusto – alla fine il suo vescovo si era arreso e aveva dovuto riconoscere l’enigma di quella montanara apparentemente insignificante e scelta invece per una missione sconcertante. In effetti, erano innumerevoli i casi in cui trapassati a lei sconosciuti, che le si presentavano, rivelavano particolari che facevano impallidire i parenti quando ne erano informati (spesso i morti fornivano l’indirizzo cui rivolgersi) visto che solo gli intimi potevano conoscere quelle vicende. Scopo di quei contatti era ottenere penitenze e suffragi per uscire dal purgatorio o lanciare avvertimenti ai loro cari superstiti perché cambiassero vita. Non a caso, il suo parroco raccolse le testimonianze di questa Maria Simma e le pubblicò in un libro che divenne un best-seller internazionale, dandogli un titolo significativo: «Fateci uscire da qui!».
In una vita intera di ricerca e di incontri, ho avuto tempo e modo per imbattermi in diversi casi simili.
Altri casi di compenetrazione tra il mondo dei vivi e quello dei morti? Siamo su un terreno davvero minato, spero tu te ne renda conto. Comunque non posso non chiederti, per curiosità, di fare qualche altro esempio.
Quando facevo il cronista, il caso più impressionante su cui mi fu dato di indagare fu quello di un facoltoso professionista torinese che, ammalatosi e bisognoso di assistenza notturna, si rivolse per telefono a un istituto di suore per un’infermiera. Sai, allora non c’erano le badanti romene o moldave, c’erano però ancora molte suore, dedicate proprio a questo servizio prezioso. La sera dopo si presentò una religiosa nel suo abito austero e da allora, ogni notte, venne puntualmente a vegliare al capezzale dell’uomo. Quando guarì e fu in grado di uscire, quel signore decise per prima cosa di andare con la moglie all’istituto della religiosa per salutarla e ringraziarla ancora dell’assistenza. In portineria si stupirono quando disse il nome della suora perché la chiamassero: risposero che una di loro aveva portato quel nome, che per tutta la vita aveva assistito i malati e che aveva lasciato un ricordo esemplare. Ma aggiunsero che era morta ormai da molti anni. Poiché i coniugi non sapevano capacitarsi, li condussero nel piccolo cimitero al fondo del giardino del convento e mostrarono loro la tomba, con la foto della defunta sotto la croce: ne seguì, ovviamente, un rischio di malore per la coppia, visto che entrambi la riconobbero senza esitazione. Era proprio lei.
Ebbi notizia di questa vicenda attraverso il passaparola (il buon cronista, come sai, ha le orecchie tese...). Sulle prime pensai a una sorta di leggenda metropolitana, ma alla fine mi decisi e andai a conoscere quei coniugi. Mi confermarono tutto, senza esitazione, eppure con pudore, temendo – stimati borghesi com’erano – di essere scambiati per allucinati. In effetti, mi accolsero con cortesia, mi raccontarono, concordi, com’era andata ma con altrettanta concordia, malgrado le mie insistenze, non mi permisero di parlarne sul giornale. Volli completare, approfittando delle mie conoscenze nel giro religioso per ottenere dalle suore di mostrarmi quella sepoltura. Vi sostai, ovviamente, con emozione: ma, a quel tempo, la scoperta della fede era già avvenuta.
Se non potei scriverne allora, lo faccio adesso perché, vista l’età, credo che quei due siano già andati da tempo a salutare e ringraziare quella misteriosa infermiera notturna. Dai cenni che mi fecero, mi parve di capire il perché di quelle visite: con pazienza, con amabilità, con l’esempio, la suora giunta dall’Aldilà li aveva riavvicinati alla fede, li aveva indotti addirittura a riscoprire i sacramenti. Insomma, le era stato concesso un prolungamento dell’apostolato che aveva esercitato in vita.
Vedi, in casi come questi si dimostra come il vero libero pensatore sia il credente. Questo constata i fatti e, se sono oggettivi e provati, li accetta, anche se vanno al di là degli schemi razionalisti e dell’esperienza comune. Il non credente, invece, è prigioniero del suo schema ideologico: se i fatti non vi rientrano, tanto peggio per i fatti, una spiegazione “naturale” bisogna assolutamente cercarla, altrimenti va in crisi il pre-giudizio. E, se non adesso, la spiegazione la si troverà in futuro.
Siamo, dunque, immersi nel mistero.
Sì, stiamo però attenti agli alibi. Non prendiamo troppo sul serio quelli che dicono, sospirando e mostrando – o fingendo? – un’edificante invidia: «Eh, per te è facile! Puoi parlare così perché hai la fede». La fede propone la sua spiegazione come risposta all’enigma che ci circonda da ogni parte, ma per riconoscere che ci siamo dentro – e che ci saremo sempre – non occorrono ispirazioni, rivelazioni, meditazioni, illuminazioni mistiche. Basta il senso comune, è sufficiente la constatazione realistica che ciascuno può fare.
Qualche volta, guardando la croce, che punta verso ogni punto cardinale, ho pensato che, quei due bracci, con le loro quattro estremità sembrano indicare il mistero che ci avvolge da ogni parte. In alto, il Cosmo, l’Universo, con quelle dimensioni smisurate nel senso vero, impossibili cioè da misurare, e di cui vediamo solo una piccola porzione: non solo per le distanze infinite, ma perché anche dove giungono i nostri strumenti gran parte dello spazio è occupato da materia oscura, ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Colophon
  4. Qualche parola al lettore sulle ragioni di un libro
  5. 1  «QUI STO, NON POSSO NIENT’ALTRO.»
  6. 2  UN SEMINARIO LAICO
  7. 3  IL TACCUINO DEL LIBERTINO
  8. 4  IL VANGELO NEL CASSETTO
  9. 5  L’INCONTRO CON PASCAL
  10. 6  TRA PADRE E FIGLIO
  11. 7  IL “CERCHIO” INCOMPRESO: LA CHIESA