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COME SI MUORE IN ITALIA
Numeri per capire
Prima o poi moriremo. È una cosa che riguarda tutti, nessuno escluso. L’affermazione è una delle poche di cui possiamo essere certi.
Diamo per assodate le remore dei più a parlare dell’argomento e consideriamo tollerabili perfino le sequenze di gesti scaramantici e toccamenti quando il tema viene sollevato. Visto però che il problema esiste, analizzeremo in questo primo capitolo gli aspetti relativi ai tentativi odierni di gestire l’ineluttabilità dell’evento finale.
Cominciamo col chiarire che, anche chi ha speso cifre inverosimili per farsi congelare in azoto liquido sperando di risvegliarsi in futuro quando la medicina avrà compiuto miracoli oggi inconcepibili, ha perso soldi e partita. Nessun animale risorge, nemmeno il più piccolo dei vermi, né dopo il congelamento né in altra maniera. Solo cellule singole o tessuti microscopici possono farlo, come nel caso di embrioni che hanno appena superato lo stadio di morula. Pagano il prezzo di una mortalità cellulare percentualmente molto elevata, ma possono sopravvivere. Per quanto? Non lo sappiamo, ma nessun medico onesto impianterebbe in utero un embrione surgelato da trenta o quarant’anni.
Nonostante una simile certezza, o forse proprio in ragione di questa, quando la vecchiaia o la malattia spingono verso l’ineluttabile fine, ciascuno si aggrappa alla vita, come farebbe perfino il piccolo verme di cui sopra. Lo facciamo da sempre, imparando a difenderci senza sosta, sviluppando cure sofisticate, complesse, perfino strabilianti. Siamo diventati capaci di sostituire organi e mantenere in vita corpi con cervelli ridotti quasi a nulla.
Lo facciamo così bene e da così tanti anni che la capacità di sopravvivere rappresenta l’indice più affidabile dell’evoluzione di un paese. L’età media conquistata da un popolo, infatti, racconta della qualità di vita e delle cure che ha saputo raggiungere, in altre parole il suo grado di sviluppo.
Per valutare questa qualità si può fare riferimento ad alcuni indicatori. L’ISTAT, per esempio, fornisce tabelle e dati anno per anno, per cui sappiamo che, su 10.000 abitanti, 26,6 italiani muoiono di cancro e 32,6 di malattie cardiovascolari. Visto che siamo 60.626.442 (dati 2010), basta moltiplicare quei numeri per calcolare quanti morti l’anno ci sono per le varie malattie. Il panorama cambia, ma solo lentamente, data l’attuale capacità di controllo delle grandi epidemie.
Le due principali cause di morte non evitabile riguardano alcune centinaia di migliaia di persone ogni anno. Rimpiazzate, insieme a quelle morte per altre cause, dalle oltre 500.000 nascite annuali. Ma il saldo italiano è negativo, nonostante il contributo degli immigrati.
Siamo un paese che invecchia, in cui i morti superano i nati. Dove muoiono ogni anno tutte queste persone? Il problema non è di poco conto e riguarda soprattutto gli ospedali.
La qualità con cui un ospedale cura i malati si può indicare come “tasso di mortalità standardizzato” (standardised mortality ratio, SMR), corretto cioè tenendo conto di alcune caratteristiche che interferiscono con l’affidabilità dei numeri, dall’età del paziente alla gravità della malattia. Ciò rende confrontabili i vari ospedali. Si muore di più nel famoso (e fallito, ma con cupola d’artista) San Raffaele di Milano o nell’altrettanto famoso (e famigerato) ospedale di Vibo Valentia? Ve lo può dire un numero chiamato SMR.
Ma la validità di questo indice è dubbia. Infatti, nei centri dove lavorano medici bravissimi, capaci di affrontare malattie complicate, i morti potrebbero essere di più rispetto a quelli registrati in ospedali in cui ci si dedica soprattutto a circoncisioni e appendiciti. Da tali ospedali, molto diffusi al Sud (ma non solo), i casi peggiori vengono trasferiti a Roma, quando non ancora più a nord o comunque altrove. Così, l’ospedale più modesto farebbe meno morti del migliore: un paradosso.
Siccome però la misura SMR è comoda e facile da determinare, il tasso di mortalità standardizzato resta un indicatore molto utilizzato. È generico, certo, e nasconde al proprio interno una quota piccola (pari al 5%) di morti evitabili occultata dalla quota prevalente di decessi inevitabili. Solo la prima si può utilizzare come indicatore autorevole della qualità delle cure, ma per essere sicuri dell’“inevitabilità” di un decesso avvenuto in ospedale dovremmo contare sul fatto che i medici dichiarino il vero. Ciò è lontano dalla realtà, per cui è probabile che quel 5% rappresenti il “minimo sindacale” e che la percentuale vera di morti evitabili oscilli intorno al 10%.
I decessi non previsti hanno diritto ad avvenire in ospedale, essendo il risultato finale di un processo di cura durante il quale sono intervenute complicazioni inattese o si sono commessi ritardi, errori, omissioni, negligenze o si è stati comunque incapaci di correggere il problema.
I decessi inevitabili, invece, non dovrebbero avvenire in ospedale, ma a casa del malato o, in mancanza di questa, in strutture capaci di assistere la fase terminale della vita. Ciò, purtroppo, avviene nella minoranza dei casi. Concorrono a questo deficit le politiche sanitarie (efficienti nel controllo del feudo clientelare di ciascun presidente di regione attraverso assessori troppe volte coinvolti nel giro di mazzette), che hanno costruito o adattato alla meno peggio una parte delle strutture in cui “andare a morire”.
Si tratta dei cosiddetti “hospice”, che fanno parte di una rete di servizi di cure palliative sviluppata sul territorio. Dentro questa rete viene raccolta la minoranza delle persone di cui è noto il destino di morte. Sono i cosiddetti “malati terminali”.
La fase terminale della vita viene arbitrariamente prevista come “sopravvivenza attesa inferiore a novanta giorni”. Quando in medicina si fa un pronostico si parla di prognosi; essa tiene conto di eventuali imprevisti, per cui i novanta giorni possono diventare tre o trecento, per via della robustezza di ciascuno o della “sfiga”, che in medicina si chiama “complicanza”. «Mi creda, abbiamo fatto del nostro meglio, ma è subentrata una complicanza inattesa e…» Tradotto: «L’unico che ci capiva qualcosa non era di turno, oppure se n’era andato in ferie e, coi chiari di luna attuali sui tagli del personale e le sostituzioni, la dottoressa specializzanda di reparto non ci ha capito un’acca».
La maggioranza delle persone destinate a morte prevista conclude la propria esistenza durante un ricovero in ospedale. Questa maggioranza non si distribuisce omogeneamente, influenzata com’è da cultura, religione, grado di studio e possibilità economiche. Benestanti e laureati vengono trasferiti in hospice o cliniche private più facilmente di quanto non accada alle persone con bassa scolarità o condizioni economiche disagiate, per cui il pronto soccorso e l’attesa in barella nel corridoio rappresentano una “soluzione finale” tutt’altro che rara.
Da uno studio pubblicato nel 2006, risultava che in Italia il 57,9% dei pazienti oncologici moriva a casa, il 34,6% in ospedale, il 6,5% in una residenza sanitaria assistenziale (RSA), lo 0,7% in hospice e lo 0,4% in ambulanza. Si evidenziarono tuttavia differenze significative tra le aree geografiche: nel Sud Italia infatti la quasi totalità dei pazienti oncologici moriva a casa (94%), mentre solo il 4,6% in ospedale. Secondo l’ISTAT, i morti per tumore nel 1998 furono al Nord 90.000, 27.000 vennero registrati al Centro e 26.000 al Sud. Negli ultimi dodici anni le cose non sono molto cambiate.
Come si può vedere, nel 2005, l’anno preso in esame, la percentuale dei decessi in hospice non arrivava nemmeno a uno su cento malati, mentre i morti durante un ricovero ospedaliero ammontavano quasi al 35%. Molto inferiore la frequenza di decessi in ospedale al Sud, dove il rifiuto del ricovero o la maggiore solidarietà familiare permettono forse ai malati di morire a casa propria, mentre solo pochi morirebbero in ospedale (il 4,6%, come si è detto). Su questa bassa percentuale esistono però forti dubbi, dal momento che è noto il fenomeno della dimissione del finto malato (vero defunto), fatta con barella e ambulanza un minuto dopo il decesso. Si eviterebbe così di pagare certe agenzie funebri ospedaliere che, forti di accordi camorristici, salassano senza pudore i familiari dell’estinto.
Pur senza entrare in ulteriori, noiosi dettagli, è sufficientemente chiaro che dai dati prodotti dai ricercatori e dalle fonti ufficiali emerge una disomogeneità difficilmente misurabile. Forse perché nessuno ha voglia di farlo, visto che si scoprirebbe che i poveri muoiono peggio dei ricchi e verrebbero alla luce molte altre cose politicamente imbarazzanti. La scarsa conoscenza, però, accresce l’iniquità e fa diffidare degli indicatori ufficiali utilizzati, primo tra tutto il tasso di mortalità ospedaliero. Insomma, non sono poi così limpidi i dati a disposizione del legislatore che voglia capire cosa accade ai propri elettori nelle ultime settimane di vita. L’onorevole, in poche parole, non può sapere con certezza come e dove muoiono le persone del proprio collegio elettorale. Sono dunque giustificate le sue difficoltà, se viene chiamato a modificare le regole attuali. Se si chiedesse, per esempio, perché i morti evitabili (il 5% significa 25.000 persone all’anno, un numero che farebbe arrossire di vergogna anche il più feroce terrorista talebano) stanno soprattutto al Sud, potrebbe scoprire il motivo per cui alcuni ospedali ne siano grandi produttori. Il parlamentare ricaverebbe informazioni sulla qualità delle cure erogate dalle organizzazioni sanitarie del proprio collegio, a fronte del denaro che ciascun ente ha usato. Tali informazioni, però, renderebbero precaria la posizione dei manager scelti dalle segreterie del suo partito e metterebbero in discussione gli assessori che li hanno nominati. Tutto ciò porterebbe a scoperte imbarazzanti, per cui si comprende bene perché l’onorevole preferisca rinunciare. Meglio legiferare col buon senso o secondo “convenienza politica”. Questa, infatti, si declina nei modi più vari dando sempre ottimi risultati, cioè lasciando il tempo che trova e mantenendo stabili le poltrone.
Nonostante gli sforzi dell’ISTAT, dunque, nel nostro sistema sanitario non esiste uniformità nella registrazione delle modalità con cui si muore e delle vicende mediche che precedono la morte. Il confronto delle statistiche genera errori sistematici, anche importanti.
L’utilizzo dei tassi di mortalità, oltre che poco corretto, fa danni.
Ma una pietra tombale (espressione decisamente appropriata) sull’argomento non può porsi, perché il morto evitabile fa sempre scandalo, dunque notizia. Le accuse di malasanità, giuste o immeritate che siano, sono un argomento sempre interessante per i giornalisti, che con i loro commenti demotivano gli operatori, e ciò peggiora anziché migliorare il servizio finito in cronaca.
Anche gli elogi immeritati sono negativi. Le celebrazioni di strutture famose procurano clienti e denaro a chi si organizza commercialmente grazie a un buon ufficio stampa. Il lavoro di solerti giornalisti della sanità e degli uffici stampa ospedalieri consiste nel mostrare il meglio, nascondendo il peggio. Chi avrebbe sospettato che dietro ai prodigi di scienza e tecnica del San Raffaele ci fosse un vecchio affarista con aereo privato e donnine brasiliane a disposizione di amici e clienti? Resistente al suicidio per vergogna, il San Raffaele può contare su un ottimo ufficio stampa. E ci conterà sempre più.
Don Verzé ha insegnato a tutti gli altri che bisogna soprattutto prevenire la pubblicazione di notizie negative. E illudere i clienti, attraendoli come farebbe qualunque promotore commerciale. Di più: insegnare l’etica e il rispetto del paziente, l’umanizzazione delle cure. Missionari veri, disinteressati, unti del Signore, senza vergogna, mai e per nessuna ragione. Prassi consolidata a Roma, in Veneto e Lombardia, per esempio, dove a nulla sono serviti, a quanto pare, gli scandali come quelli della clinica Santa Rita di Milano o dell’ospedale di Rho, entrambi oramai finiti nel dimenticatoio insieme a centinaia di altri.
Eppure ci sono gestori di ospedali pubblici che pensano non ci sia bisogno di un ufficio stampa: meglio affidarsi al passaparola, in modo che tutto resti vago. E c’è perfino chi teorizza la vaghezza dei risultati come punto di forza: se nessuno conosce efficienza ed efficacia reale di diagnosi e cure erogate, si può meglio contare sulla “fama” e sul “buon nome”, ereditati da tempi lontani in cui bastava operare bene un’appendicite per essere eccellenti. Nel suo corso di filosofia della mente e del linguaggio, Andrea Bottani, che insegna proprio all’università Vita e Salute San Raffaele, sviluppa concetti interessanti sulla varie forme del vago: vaghezza ontologica, vaghezza semantica, vaghezza e conoscenza. Identità vaghe. I paradossi del sorite1. Dubito che la cultura dei direttori generali delle ASL arrivi a tanto, ma sono assolutamente certo della pervicacia e della flessibilità degli strumenti da loro usati per gestire il potere. Non mi stupisco più di nulla, non mi stupirei nemmeno se mi dicessero che qualche consulente (profumatamente pagato) ha tratto dal corso di Bottani il debito frutto.
Ma, per quanto siano organizzati gli uffici stampa e solide le barriere del vago, i giornalisti inzuppano troppo volentieri il biscotto nella tragedia. Sperano di riempire pagine di cronaca col prossimo bambino morto dopo un intervento alle tonsille, per un’appendicite o per il mancato arrivo dell’ambulanza. L’importante è scandalizzare e possibilmente bastonare il servizio sanitario pubblico, esaltando piuttosto i pregi di quello privato (paga meglio) e sostenendo la cultura del «se tiri fuori dalla tasca i soldi e vai nel privato, il medico è molto più bravo e gentile, e quanto meno ti sta a sentire».
Grazie allo scandalo, diventa facile per il pennivendolo favorire le mire di un primario contro un altro, screditare un manager, un assessore o un partito, promuovere un ospedale e bocciarne un altro, ricevendone in cambio commisurate prebende. Quasi sempre competenza e conoscenza dei fatti realmente accaduti lasciano a desiderare: il pennivendolo si accontenta di qualche telefonata serale o prende per vere le chiacchiere di uno dei tanti colleghi invidiosi o frustrati, incapaci di vedere la propria mediocrità ma intolleranti nei confronti di quella altrui. Non è facile sapere quali siano i premi riscossi da ciascun pennivendolo della sanità, mentre è possibile senza sforzo immaginarne la varietà.
Ma torniamo ai dati. Dopo aver così descritto i tassi di mortalità, identificare alternative affidabili diventa un obbligo. Una, per esempio, consiste nel contare insieme i tassi di morbilità e disabilità (cioè quanto ci si ammala e quanto malconci si esce dalle cure). Ma anche in questo caso il numero che ne deriva non riflette la qualità delle cure. Più affidabile il tasso di infezioni acquisite in ospedale. Se si entra in ospedale per una frattura e se ne esce dentro una bara per le complicanze di una polmonite, è pressoché certo che la morte sarebbe stata evitabile e che è stata causata dalla cattiva qualità delle cure erogate.
Le infezioni ospedaliere sono la complicanza più frequente e grave dell’assistenza sanitaria. Si tratta di infezioni insorte durante il ricovero o dopo le dimissioni e che al momento dell’ingresso non erano né presenti né in incubazione. Sono l’effetto della progressiva introduzione di nuove tecnologie sanitarie (tubi, cateteri, endoscopi ecc.), che garantiscono la sopravvivenza a pazienti ad alto rischio ma aprono le porte ai microbi. In ospedale queste bestioline microscopiche sono molto robuste e resistono agli antibiotici, visto il largo utilizzo di questi farmaci e l’enorme abuso che se ne fa.
Negli ultimi anni l’assistenza sanitaria ha subito profondi cambiamenti. Mentre prima gli ospedali erano il luogo in cui si svolgeva la maggior parte degli interventi assistenziali, a partire dagli Anni ’90 sono aumentati sia i pazienti ricoverati in ospedale in gravi condizioni (quindi a elevato rischio di infezioni ospedaliere) sia i luoghi di cura extra-ospedalieri (residenze sanitarie assistite per anziani, assistenza domiciliare, assistenza ambulatoriale). Da qui la necessità di allargare il concetto di infezioni ospedaliere alle infezioni legate all’assistenza sanitaria e sociosanitaria. In Italia il 5-8% dei pazienti ricoverati contrae un’infezione ospedaliera, ma si tratta di stime parziali e al ribasso. L’indicatore, pertanto, è prezioso e affidabile, ma troppo poco esteso.
Ogni anno si verificano in Italia almeno 700.000 infezioni in pazienti ricoverati in ospedale (soprattutto infezioni dell’apparato urinario, seguite da infezioni della ferita chirurgica, polmoniti e sepsi). Di queste, si stima che circa il 30% siano potenzialmente prevenibili (tra 135 e 210.000) e che siano direttamente causa del decesso nell’1% dei casi, per cui un numero oscillante tra 1.350 e 2.100 morti per infezione è sicuro, com’è sicuro che tali morti si sarebbero potute evitare. Si tratta di numeri che si ripetono quasi uguali ogni anno. Anche questa è una strage paragonabile a quella di molte guerre, inondazioni e carestie sparse per il mondo, solo che si ripete ogni anno nello stesso paese: il nostro.
Nonostante la validità di questo indicatore non c’è ancora un sistema di sorveglianza nazionale, perché in Italia non esiste una rilevazione attiva dei dati con personale dedicato (come accade per le Infection Control Nurses dei paesi anglosassoni). I dati in nostro possesso derivano da studi condotti da medici precari, che devono sviluppare una tesi di laurea o una specializzazione, o ancora che si sono visti assegnare una borsa di studio da qualche ditta farmaceutica grazie alle entrature “scientifiche” del proprio direttore. I soldi per pagare queste ricerche, infatti, sono pochissimi e provengono quasi esclusivamente dall’Istituto Superiore di Sanità, un carrozzone burocratico pieno zeppo di amministrativi romani che fanno ciò che possono, cioè poco.
L’uso dell’indicatore “infezione ospedaliera” ci ha insegnato che la variabilità della qualità delle cure è ampia all’interno dello stesso ospedale persino più che tra ospedali diversi e che reparti eccellenti coabitano con reparti in cui si spera di non capitare mai.
Il problema è quotidiano nel caso di pazienti che necessitano di essere nutriti artificialmente e cateterizzati per anni. Cioè tutti (prima o poi), se si darà retta all’onorevole Binetti. Tra queste persone, sono numericamente molto poche quelle che muoiono ogni anno, ma è proprio a loro che la stampa presta grande attenzione. Vedremo come e perché nel prossimo paragrafo.
Casi più rari e molto discussi
Tra gli idratati e nutriti artificialmente, ricevono assistenza anche le persone per cui è stata data diagnosi di “stato vegetativo”. Il quadro clinico è figlio della tecnologia e della nostra capacità di sostenere le funzioni vitali anche quando il cervello è leso in modo grave.
Queste persone non hanno nessuna consapevolezza di sé e dell’ambiente, né alcuna capacità di interagire con gli altri. Non danno nessuna risposta agli stimoli visivi, uditivi, tattili o dolorifici, non capiscono nulla, ma conservano le funzioni vegetative (battito e respiro), presentano incontinenza urinaria e fecale, conservano parzialmente i riflessi cranici. Restano così all’uscita dal coma per un tempo indefinibile. Si parla di stato vegetativo persistente quando la durata supera un mese.
Questa condizione è diversa dal coma, col quale viene confusa dai non medici, perché il malato apre gli occhi e conserva un’alternanza di sonno e veglia.
Le lesioni che il cervello ha subito variano molto e non esiste un malato uguale all’altro, ma è sempre conservata la funzione di quella parte del cervello che è responsabile delle funzioni vitali, come il respiro e la regolazione del circolo ematico, mentre sono abolite le funzioni della corteccia cerebrale. Qui sta il busillis! Quanti neuroni e dove?
Queste magnifiche cellule bioelettriche, organizzate in colonne intercomunicanti, in circuito tra loro grazie a un numero non calcolabile di connessioni, costituiscono la corteccia cerebrale e permettono al corpo di fare, sentire e pensare tutto ciò che fa, sente e pensa. La corteccia può non funzionare perché è stata distrutta oppure perché è disconnessa dai centri sottostanti e quindi non riceve stimoli né può trasmetterne. In entrambi i casi è abolita la coscienza. Valgono, ovviamente, tutti i possibili gradi intermedi di distruzione e disconnessione parziale, e ciò spiega la grande variabilità dei malati e degli esiti a distanza.
In entrambi i casi, però, il malato in uscita dal coma non riprende la vita cognitiva, anche se nessuno può essere certo che neuroni vitali di parti della corteccia non possano elaborare una forma di attività, perfino complessa e assimilabile a una visione, a un sogno o a un pensiero. Ma solo se si tratta di molti miliardi di neuroni vivi e connessi tra loro in are...