Sono nata in una famiglia meravigliosa e non mi stancherò mai di esprimere la mia gratitudine per questa grazia. I miei genitori, al momento del matrimonio, erano ambedue credenti, ma non partecipavano molto alla vita della Chiesa. Poi hanno incontrato Chiara Lubich e il movimento dei Focolari da lei fondato, hanno vissuto una forte esperienza di conversione e si sono lanciati in un’avventura che li ha portati a rinnovare la loro vita, mettendo Dio al centro e impegnandosi a vivere con radicalità l’esperienza del Vangelo.
Ho avuto l’ulteriore grazia di essere concepita nel tempo in cui loro stavano sperimentando intensamente questo amore di Dio, tanto che, appena hanno saputo che c’ero anch’io, la prima cosa che hanno desiderato fare è stata la mia consacrazione alla Madonna e al suo Cuore immacolato. A quell’epoca vivevano a Roma, nei pressi della stazione Termini, e mia madre andava a Messa tutti i giorni a Santa Maria Maggiore. Così ho cominciato a nutrirmi quotidianamente dell’Eucaristia, quando ancora ero nella pancia di mamma.
Sono nata il 20 luglio 1966 e della primissima infanzia ricordo un’atmosfera molto bella, un costante riferimento al vivere il «dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro» (Matteo 18,20), che fa intensamente parte della spiritualità del movimento dei Focolari. In tal modo percepivo concretamente quanto fosse forte la comunione non soltanto fra i miei genitori, ma anche con i membri della comunità che frequentavano, tutti uniti da «Gesù in mezzo».
A motivo del lavoro di mio padre abbiamo cambiato diverse volte città, da Roma ad Alessandria, quindi a Ferrara, poi a Cagliari, ad Ancona, a Brindisi e nuovamente a Roma. Ma questa serie di trasferimenti, piuttosto che un trauma, si è rivelata per me un’esperienza molto arricchente poiché, dovunque arrivassimo, trovavamo questa famiglia più ampia di persone accomunate dal Vangelo. Non mi sentivo per nulla trapiantata da un luogo all’altro, anzi avevo sempre la sensazione di trovarmi a casa, come ho cercato di esprimere nella poesia La mia casa è il mondo.
Sin da piccolina ho cominciato a frequentare le Mariapoli, gli incontri di una settimana, organizzati dal movimento dei Focolari per famiglie e persone di tutte le età, nei quali ci si impegna ad approfondire alcuni aspetti del Vangelo. Mariapoli vuol dire «città di Maria» e in quei giorni vissuti comunitariamente c’era da parte di tutti l’intenso impegno a vivere la legge dell’amore scambievole. Anche io sperimentavo una gioia particolarissima e mi sembrava realmente di toccare il cielo con un dito.
Da queste prime esperienze ha tratto origine la familiarità con Gesù che ha sempre caratterizzato il mio modo di vivere la fede. Tutto ciò che mi accadeva lo affidavo a Gesù, ne parlavo con lui, gli chiedevo suggerimenti su cosa fare.
Durante l’infanzia ho anche avuto il grande dono di trascorrere molto tempo immersa nella natura, sia in campagna, sia al mare e in montagna. Ho potuto sentirmi molto spesso incantata da paesaggi meravigliosi, e ogni volta che percepivo la bellezza del creato pensavo: “Se un tramonto è così bello, pensa che cosa deve essere Dio che l’ha creato! Se attraverso il canto degli uccelli percepisco un concerto così meraviglioso, come potrà essere il concerto del paradiso, il concerto dell’Amore degli amori? Se guardando le vette delle montagne resto senza fiato, che mai potrà essere la maestosità della bellezza di Dio? Che cosa accadrà quando potrò vederlo faccia a faccia?”. Trascorrevo tanti momenti rapita dall’idea dell’amore pazzesco di Dio, della sua sfolgorante bellezza e della verità che è Dio, di cui noi possiamo percepire unicamente piccoli sprazzi di luce.
Già a cinque anni si facevano però strada in me le prime domande esistenziali. Confrontavo l’amore che sperimentavo in casa e in comunità con quanto ascoltavo alla televisione o comprendevo dai discorsi dei miei genitori e mi accadeva di vivere momenti di grandissima sofferenza nel toccare con mano il dramma del dolore, della morte, del non amore che spesso c’è fra gli uomini. Sentivo dentro di me un forte travaglio: se Dio è amore – mi chiedevo – come è possibile che nel mondo ci sia tutta questa sofferenza? Se Dio è amore, com’è possibile la morte, come è possibile che ci siano bambini innocenti che vengono uccisi o che soffrono, come è possibile che siano permesse tante ingiustizie? Interrogativi sempre più pressanti che diventavano materia di dialogo durante i pasti, soprattutto con mio papà che era anche lui un cuore sempre in ricerca.
Ci mettevamo a riflettere sui massimi sistemi, sulle grandi questioni dell’esistenza. Ricordo con immensa gratitudine che mamma e papà, di fronte ai miei inquietanti interrogativi, non mi fornivano mai risposte consolatorie per mettermi quieta. A ogni mio «perché?» corrispondeva un ulteriore «perché?» di mio padre, che mi seguiva particolarmente in questo mio percorso di ricerca. Anche mia mamma partecipava con i suoi contributi sempre caratterizzati da una grande sapienza. Era molto stimolante camminare nella continua ricerca della verità, che cercavamo insieme nella Sacra Scrittura, soprattutto nel Vangelo, inteso non semplicemente come un interessante racconto, ma come un testo da approfondire vivendolo.
Le risposte che mi diedi furono comunque convincenti, poiché l’esperienza dell’amore di Dio era estremamente più forte di qualunque dubbio sul suo amore. Per me non si trattava tanto di giungere a comprendere con la mente, facendo tanti discorsi con i miei genitori, quanto di accorgermi che, di fronte a quella esperienza concreta, tutto il resto si scioglieva come neve al sole. Se fai l’esperienza della luce e del calore del sole non puoi dubitare della sua esistenza e così è stato per me con Dio: io mi sentivo avvolta dall’amore di Dio, facevo l’esperienza nell’anima della sua luce e del suo calore, e questo era più forte di ogni dubbio che bussava con prepotenza alle porte della mia mente.
Gradualmente ho anche compreso, alla luce della Sacra Scrittura, che un Dio che è amore non può che crearci liberi, al punto da consentirci di modificare il suo progetto, nel quale all’origine non erano previste né la morte né il dolore: «Dio ha creato l’uomo per l’immortalità; lo fece a immagine della propria natura. Ma la morte è entrata nel mondo per invidia del diavolo» (Sapienza 2,23-24).
Ho così iniziato a fare i conti con il mistero dell’onnipotenza di Dio che, essendo amore, si ferma dinanzi alla libertà delle creature che possono sempre scegliere fra il bene e il male. Ho iniziato a comprendere la responsabilità di questo dono immenso della libertà che ci è stata data e come da ogni nostra scelta possano scaturire dolore e sofferenza per la nostra vita e per quella di tanti. Ho compreso, da quanto afferma la Sacra Scrittura, che il dolore e la morte non erano nel progetto di Dio sull’umanità ma sono entrati nel mondo per l’uso sbagliato della libertà da parte innanzitutto di Lucifero e degli angeli che lo hanno seguito e poi da ogni scelta di male che, in ogni istante, gli esseri umani possono fare.
Sono diventata consapevole del fatto che c’è anche la possibilità di non rispondere all’amore di Dio. Ma questa nostra possibilità di dire «no» all’amore di Dio, associato al «no» di Lucifero che si oppose al progetto d’amore di Dio sull’umanità, può generare una “morte spirituale” nell’anima e porta a sperimentare gli inferi già su questa terra. Lo spiega bene san Paolo: «Il salario del peccato è la morte» (Romani 6,23).
Tutto ciò mi suscitava un senso di responsabilità dinanzi al mistero della libertà. Mi sentivo chiamata a rispondere in prima persona all’amore di Dio e a fare esperienza di quella pienezza di gioia alla quale lui ci ha chiamati. Iniziai a comprendere che la tragedia umana aveva avuto inizio a causa del rifiuto espresso da una creatura che sin dal nome aveva insita una prospettiva luminosa (Lucifero vuol dire infatti «portatore di luce»), ma che aveva scelto di porsi in totale opposizione al Creatore. Dio è luce, Lucifero è tenebra; Dio è verità, Lucifero il padre della menzogna; Dio è comunione, Lucifero è il divisore; Dio è vita, Lucifero porta la morte.
Sin da bambina avevo interiorizzato che ogni mio piccolo «no» all’Amore di Dio, ogni minima non corrispondenza ai suggerimenti del Signore poteva produrre frutti di sofferenza nella vita mia e degli altri. Ricordo ancora la prima bugia che mi capitò di dire per gioco a mia madre, a imitazione di un’amichetta che spesso diceva bugie. Avevo cinque anni e la mamma si è accorta subito che si trattava di una bugia. Ha fermato la macchina, mi ha guardato con serietà e mi ha dato un piccolo schiaffo con uno sguardo molto serio. Mai più ho detto bugie, poiché quello schiaffo mi ha fatto prendere la radicale consapevolezza dell’importanza di essere sempre onesti e corretti con tutti.
Mia mamma mi ha sempre guidato con grande affetto, amore, verità, sapienza ed è stata una figura luminosissima a cui guardare.
Mia madre mi aiutò, giorno dopo giorno, a comprendere il significato del peccato, che non è semplicemente il compimento di un’azione cattiva, quanto la scelta di chiuderci all’Amore di Dio, e acquisii la coscienza che tutto ci è lecito, ma non tutto ci giova (come dice san Paolo nella Prima Lettera ai Corinzi 6,12). In quel tempo abitavamo a Cagliari e le mie giornate erano caratterizzate da tanti amici, giochi, serenità e l’estate andavamo tutti i giorni al mare. Eravamo tre fratelli (il quarto, Carlo, non l’ho mai conosciuto poiché era già salito al cielo dopo pochi mesi di vita a causa di una malformazione congenita al cuore): Marco, Luca e io, che ero considerata la piccolina di casa.
Mio padre Silvano era un dirigente dell’Automobile Club e lo stress professionale, dovuto a ritmi molto intensi di lavoro, gli provocò un forte esaurimento nervoso che, fra alti e bassi, lo ha perseguitato per tutta la vita. Anche la spensieratezza della nostra infanzia venne messa alla prova da questa croce. Mia madre Maria Teresa – tutti però l’hanno sempre chiamata Mietta – aveva invece studiato Giurisprudenza poiché desiderava seguire le orme del papà (che era stato primo presidente della Corte di appello) ma poi aveva scelto di accantonare il lavoro per dedicarsi completamente a noi tre figli.
A cinque anni cominciò a farsi prepotente in me il desiderio di poter vivere più in profondità la Messa, ricevendo il dono immenso dell’Eucaristia. Con la semplicità di una bimba, percepivo che mediante quell’ostia consacrata si rendeva possibile una comunione particolarissima con il Signore, per quanto tutto ciò fosse incomprensibile alla mia mente.
Quindi ho iniziato a non dare pace ai miei genitori, insistendo che anch’io volevo fare la comunione. Sentivo proprio come un innamoramento nei confronti di Gesù, per cui per me non c’era niente di più bello che poter ricevere Gesù nel mio cuore. Devo averli talmente martirizzati che alla fine hanno deciso di chiedere a un sacerdote focolarino di svolgere qualche incontro di verifica per capire quanto questo desiderio fosse un entusiasmo infantile o un vero impeto interiore. Il sacerdote, dopo alcuni colloqui con me, disse che potevo ricevere subito la prima comunione e questa fu per me una notizia meravigliosa.
Proprio durante una Mariapoli a Cagliari, alla presenza di un migliaio di persone, si svolse questa grande festa nella quale io e mio fratello Luca, più grande di un anno e mezzo (mentre Marco ha cinque anni più di me), abbiamo fatto la prima comunione. Fu un giorno straordinario, in cui acquisii una più profonda consapevolezza che Gesù, che in tanti modi avevo già sentito vicino e che riempiva con il suo tangibile amore le mie giornate, mi amava così pazzamente da decidere di prendere dimora nel mio piccolo cuore. Quando presi l’ostia mi sembrò davvero di toccare il cielo con un dito, di essere stata catapultata in paradiso e che tutto il cielo si riversasse in qualche modo nella mia anima. Dentro di me avevo la concreta percezione dell’Eucaristia come una porta che unisce terra e cielo, la nostra piccolezza con l’infinità di Dio, il tempo che siamo chiamati a vivere qui con la pienezza dell’eternità.
Quando avevo sei anni ci siamo trasferiti ad Ancona, dove siamo rimasti per due anni. Quindi siamo stati per altri quattro anni a Brindisi, prima del rientro definitivo a Roma. Nonostante mi legassi alle nuove amicizie, poiché ero un tipo molto socievole, incredibilmente non sentivo lo strappo dei trasferimenti grazie alle comunità del movimento dei Focolari che mi consentivano di ritrovare ovunque lo spirito di famiglia. Ero molto vivace, mi piaceva ogni tipo di sport e quindi mi mettevo a giocare subito con tutti e facevo rapidamente nuove amicizie.
Ad Ancona c’era una vivace comunità del movimento dei Focolari e con molti ho sperimentato una comunione bellissima. I focolarini e le focolarine venivano spesso a casa nostra, ci incontravamo tutti i giorni a Messa e rappresentavano un grande aiuto nel mio percorso spirituale fatto non tanto di catechesi, ma piuttosto caratterizzato dall’impegno nel cercare di incarnare nella vita di ogni giorno l’esempio di Maria e di Giuseppe a Nazareth e la loro gioia, frutto di una forte coerenza nel vivere quanto suggerisce il Vangelo nella semplicità quotidiana delle piccole cose. Ero davvero affascinata dai focolarini che vivono pienamente nel mondo e nel contempo consacrano tutta la loro vita a Dio.
La mia formazione non è stata teorica, ma pratica: meditavamo il Vangelo cercando ogni mese di concentrarci a vivere una specifica frase proposta e commentata da Chiara Lubich: la Parola di Vita. Fin da bambina mia mamma mi parlava delle vite dei santi e mi colpiva vedere come queste persone avessero lasciato qualsiasi cosa per raggiungere la comunione con Dio. Di qui l’intima certezza che, se volevo dare un senso alla mia esistenza, non c’era niente di più grande e di più bello che puntare alla piena e perfetta comunione con colui che è l’Amore, cioè vivere l’anelito alla santità.
Avevo letto con entusiasmo le storie di martiri come Tarcisio, morto nel III secolo per difendere l’Eucaristia. E l’idea di questi primi cristiani che avevano dato la vita per Gesù mi aveva suscitato il desiderio di aspirare anch’io al martirio: pensavo che poter dare la vita per colui che è l’Amore, morire martiri e così poter andare direttamente in paradiso, fosse una cosa bellissima.
I santi che più mi affascinavano erano: l’apostolo Giovanni, il discepolo che teneva il capo sul cuore di Gesù per mostrargli tutto il suo affetto; Francesco d’Assisi per la sua radicalità, la sua follia d’amore; san Paolo per il suo sacro zelo per l’evangelizzazione; Teresina di Lisieux per la semplicità della “piccola via”, il suo vivere nelle piccole cose l’amore a Gesù. In seguito ho conosciuto meglio anche Giovanni Bosco e Teresa d’Avila, della quale mia madre mi suggerì prima la sua autobiografia e poi Il castello interiore. Mi ha davvero conquistata la grandezza di questa donna, l’eroicità del suo cammino di ascesi mistica nella preghiera. Di don Bosco mi affascinava la sua divina pazzia nell’inventarsele tutte per fare conoscere l’amore di Dio ai ragazzi, soprattutto a quelli più emarginati e sofferenti. Da loro ho imparato una cosa che per me è essenziale: ho una vita sola e non posso sprecarla, voglio viverla per qualcosa di grande, per qualcosa che non passa: soltanto Dio non passa, solo l’amore resta.
Insieme con i santi del passato, c’era una personalità vivente che mi affascinava in modo entusiasmante: Chiara Lubich, una donna che, per essersi fidata di Dio, aveva suscitato un’incredibile cambiamento nella vita di centinaia di migliaia di persone. Sin da piccolina i miei genitori mi raccontavano di lei, di quello che diceva, delle cose che faceva.
Il mio primo incontro personale con lei, che ha segnato una tappa fondamentale della mia vita, è avvenuto nel novembre del 1977, durante un congresso “Gen 3” – così sono chiamati i ragazzi appartenenti al movimento dei Focolari – a Rocca di Papa, dove Chiara venne a rispondere alle nostre domande. Una Gen 3 le aveva chiesto di rivelarci quale fosse il suo segreto. Un interrogativo che mi aveva molto incuriosita. Avevo subito pensato: “Chissà adesso quale cosa straordinaria ci dirà...”.
Come sperimenterò anche in seguito, in tante altre occasioni, Chiara ci sorprese con la sua capacità di rendere alla portata di chiunque i misteri più incomprensibili. Iniziò a parlarci di Gesù abbandonato, un mistero che tuttora non riesco a comprendere bene poiché mi sembra troppo alto e troppo grande. In quel momento però, tali erano la forza del suo carisma e la presenza dello Spirito Santo, mi apparve tutto chiarissimo. Poche e scarne parole, le sue: «Il mio segreto è l’amore a Gesù abbandonato. Ho scoperto che in ogni croce, in ogni dolore c’è la presenza misteriosa di Gesù che ha preso su di sé per amore ogni nostra sofferenza. Perciò, ogni volta che arriva un dolore, faccio festa perché è arrivato anche Gesù».
Questa sua condivisione che ogni sofferenza non è soltanto una prova alla quale veniamo sottoposti, ma anche un possibile “incontro”...