1
Quando finisce il mattino? A mezzogiorno? All’una? All’una e mezza? Per il professor Lorenzo Cremona, quella mattina durava da un tempo infinito, per la precisione da quando – ore, giorni, anni prima? – qualcosa lo aveva svegliato.
Erano le cinque appena passate, così indicava la radiosveglia. Cremona aveva aperto gli occhi ed era rimasto a fissare con un certo stupore i numeri verdi. Per un motivo che non sapeva spiegare, si svegliava sempre con la testa voltata da quella parte. Dunque la sveglia si era attivata due ore prima di quanto stabilito? O era stato il campanello alla porta?
Cremona occupava la parte destra di un letto a due piazze. Il posto nella parte sinistra era vacante e nel recente passato era stato occupato saltuariamente e mai per più di qualche ora consecutiva.
L’altra metà del letto serviva perlopiù ad accogliere i suoi vestiti, tolti e gettati alla meglio quando rientrava con il passo incerto e la nausea da alcool. Altre volte l’intero letto era invaso da fogli protocollo a righe e a quadretti, da tavole numeriche, libri di grammatica, lapis e quaderni ad anelli. Sul comodino di destra – quello di sinistra serviva unicamente come punto di raccolta della polvere – oltre alla radiosveglia, trovavano posto il telefono cellulare con il suo caricabatterie, il portafogli e parecchi libri mal impilati, che poggiavano su qualche base inconsistente, forse della biancheria che non aveva trovato posto nei cassetti. Ogni tanto la colonna si inclinava come una torre costruita sul fango e si scrollava di dosso la massa che superava il punto di equilibrio, facendo franare i piani più alti.
Cremona non era certo che lo avesse svegliato il campanello. Poteva anche essere stata l’eco di un sogno. Di qualunque sogno si trattasse, voleva riprenderlo, perché l’alternativa non gli piaceva: essere svegliati da qualcuno di notte è quanto di peggio possa accadere. Se erano notizie, quelle che bussavano alla porta, non potevano che essere cattive o pessime. Non si bussa a un amico, a un vicino o a un parente alle cinque di mattina per comunicargli una notizia che sia semplicemente “cattiva”. Per giustificare una sveglia anticipata, la notizia deve essere nefasta. Per questo Cremona rifiutava di prendere in considerazione il campanello. Preferiva pensare che si fosse trattato di un malfunzionamento della sveglia o di un rumore proveniente dalla strada. Tuttavia rimase immobile ad aspettare, con i sensi allerta. Se qualcuno aveva suonato una volta, avrebbe suonato di nuovo. Di giorno forse no, ma di notte sicuramente.
Due nuovi colpi secchi contro la porta lo avevano strappato del tutto dal torpore e gli avevano confermato che cercavano proprio lui. Stavano bussando e la sensazione negativa cresceva. Chi poteva essere? E perché lo chiamavano? Era successo qualcosa ai suoi genitori? Ma perché non telefonare?
Cremona si affrettò a sedersi sul bordo del letto, pur sapendo che era illogico aver fretta. Se fosse accaduto qualcosa di tremendo e irreversibile, non avrebbe avuto bisogno di vestirsi di furia e correre fuori, con il cuore in gola. In certi casi il tempo non rappresenta più un problema. All’ospedale si corre, all’obitorio si va.
Pensò a suo padre. Lo aveva visto una settimana prima. Aveva cenato a casa dei suoi e dopo cena si erano seduti tutti insieme sul divano per guardare la televisione, come facevano una volta. Suo padre era apparso più stanco del solito, quasi sofferente. Si era anche addormentato un paio di volte durante il film. Che fossero i sintomi di qualche accidente in arrivo? Ricordava di averlo pensato già in quel momento, mentre osservava l’anziano appisolato con la bocca aperta. Avrebbe voluto investigare un po’ intorno a quella stanchezza, ma la pigrizia e la paura di parlarne, di sapere, di insinuare, era stata più forte di lui. Non era ancora pronto al rovesciamento dei ruoli. Fino a qualche anno prima erano stati i suoi genitori a occuparsi di lui. E nonostante le sue proteste, i suoi scatti di impazienza e le sue suppliche, sua madre aveva tentato di continuare ad amministrare la sua vita anche in tempi recenti.
Mentre il richiamo alla porta si ripeteva ancora una volta – adesso bussavano e nel ritmo dei colpi si poteva cogliere una certa impazienza – nella sua mente si stava facendo strada un pensiero abbastanza definito: il cuore. Poteva essere stato il cuore. O un ictus. Cos’altro? Certo non un incidente stradale: i suoi genitori non erano in viaggio e non avevano in programma nessuno spostamento; dovevano trovarsi in casa a dormire a quell’ora.
E se fosse successo qualcosa a suo fratello o alla sua famiglia? Il primo pensiero era corso di nuovo a suo padre. Non avrebbe sopportato di perdere un altro figlio, non così presto. Era semplicemente inconcepibile, statisticamente improbabile, affettivamente inaccettabile. Era escluso.
E chi poteva esserci fuori dalla porta? Forse era proprio suo fratello Renato, o il figlio Paolo, l’unico nipote che aveva, ormai abbastanza grande per guidare l’automobile. Infatti aveva preso la patente da qualche settimana. Forse suo fratello aveva mandato il figlio a prenderlo, per poter rimanere ad assistere suo padre o sua madre in ospedale. Poteva anche essere successo qualcosa alla mamma, in effetti. Sembrano sempre forti le madri e proprio per questo non ci si aspetta mai che capiti loro qualcosa, ma poi...
– Arrivo! – avrebbe voluto dire, ma non ci riuscì. L’angoscia e la paura per quello che avrebbe potuto trovare fuori dalla porta gli rendevano difficile mettere insieme il fiato necessario per urlare. Tuttavia, mentre lottava con le pantofole che non volevano rovesciarsi dalla parte giusta, pensò che probabilmente si stava preoccupando troppo. Colpa della notte e del buio, che fanno vedere le cose più nere di quello che sono: l’angoscia è un rapace tipicamente notturno; certi timori di notte si amplificano, le più piccole difficoltà si atteggiano a problemi insolubili. Certi dolorini, ai quali di giorno non si presterebbe attenzione, di notte pungono di più, sembrano diversi da ogni altro dolore mai provato prima e prendono nomi spaventosi. La peggiore insidia notturna è però la gelosia che, se di giorno si limita a tormentare la coscienza e se ne sta nascosta nell’ombra, quando si presenta dopo il tramonto fa scempio delle lenzuola fino al mattino.
Cremona raggiunse la porta a piedi nudi, mentre il bussare insistente riprendeva. Dimenticò ogni norma di prudenza e armeggiò con le chiavi senza chiedere chi ci fosse dall’altra parte. Era ormai certo di trovare suo nipote Paolo appena fuori dall’uscio. Mentre lottava con il mazzo di chiavi troppo affollato, si accorse che faceva freddo e che l’impianto di riscaldamento non era ancora in funzione. Fece scivolare il catenaccio e aprì il battente.
Fu dapprima sorpreso e poi anche sollevato quando vide che non si trattava di suo nipote, ma dei carabinieri. Erano tre, tutti e tre in uniforme. I due ai lati portavano la bandoliera sopra il cappotto scuro. Quello in mezzo no. Teneva i guanti in una mano e lo guardava come in attesa. Forse aspettava che lui chiudesse la bocca, stupidamente spalancata per lo stupore.
2
I muri perimetrali eretti in pietra e calce erano l’unica concessione del rifugio Vittorio Emanuele alla tradizionale architettura alpina. Il tetto si presentava senza spioventi, interamente ricoperto di lamiera zincata, e si arrotondava al colmo, senza spigoli, ripetendo, in una scala assai maggiorata, le forme di un cioccolatino gianduiotto.
Il rifugio era affiancato, una decina di metri più in alto, da un’altra costruzione, risalente al secolo precedente, che veniva chiamata “Vittorio Emanuele vecchio”. Era costituito da una lunga baita in pietra divisa in quattro locali e dotata di un unico vano servizi. Nell’800 il “vecchio” era l’unico rifugio esistente ed era considerato quasi un palazzo, una reggia, per quelle altezze.
Le due costruzioni erano collegate da una fitta rete di sentieri, frutto del via vai degli alpinisti che negli anni avevano fatto la spola dall’uno all’altro dei due edifici e da questi al laghetto morenico, nel quale si riflettevano il cielo e alcune cime, dai nomi prestigiosi e dai colori glaciali.
La mattina non tanto, ma nel tardo pomeriggio, quando la luce del sole restituiva i colori al cielo e alle montagne, il rifugio Vittorio Emanuele era solito trasformarsi: da tappa per alpinisti, diventava una piccola borgata, i cui abitanti si riunivano a crocchi e si spostavano pigramente lungo i viottoli che la attraversavano, muovendo tra l’edificio principale e il rifugio vecchio, tra la piccola cappella e le rive del laghetto, senza avere null’altro da fare se non aspettare l’ora di cena.
Era, quello, il momento ideale per bere un bicchiere, discutere dell’altezza di una cima o di un colle, per raccontare storie di montagna o, ancora meglio, per ascoltarne.
Gli arrivi di alpinisti e gitanti cominciavano la mattina e proseguivano fino a sera. Talvolta giungevano ospiti anche di notte. Molti partivano dalle città di pianura una volta terminato il lavoro, viaggiavano per circa due ore e poi, lasciata l’auto nel piazzale di Pont, imboccavano la mulattiera che in altre due ore e mezzo, e con l’aiuto di una torcia elettrica, li conduceva al rifugio. Per questo, la porta rimaneva aperta fino a mezzanotte. Non che dopo mezzanotte fosse chiusa, ma dopo quell’ora nessuno avrebbe accolto e registrato eventuali nuovi arrivi e i ritardatari si sarebbero dovuti arrangiare da soli, bivaccando in un corridoio o in sala da pranzo fino al mattino.
3
– Lorenzo Cremona? – domandò il capo pattuglia, quello senza bandoliera e con i guanti in mano.
L’uomo con i piedi nudi annuì mentre poneva la domanda che lo tormentava da alcuni minuti: – È successo qualcosa? –.
Il fatto che fossero i carabinieri invece di suo nipote non cambiava di molto le cose. Se fosse accaduto un incidente a qualcuno dei suoi, chi altri sarebbe venuto ad avvertirlo a casa? Il sollievo era durato soltanto pochi istanti.
– È solo in casa? – domandò il brigadiere.
– Sì.–
– Possiamo entrare? –
– Ma cosa è successo? –
Il brigadiere fece un gesto come per dire “non si preoccupi”. Cremona si scostò per lasciar passare la pattuglia. Due dei militari portavano il pizzo e i baffi. Se fossero stati degli impostori meritavano di rapinarlo di tutto quello che aveva in casa e di farla franca: erano perfetti.
– Ha un documento di identità per favore? – domandò uno dei due carabinieri con la bandoliera.
– Lo prendo – rispose prontamente Cremona.
In quell’istante, Renzo Cremona comprese che non poteva essere accaduto nulla di grave ai suoi genitori. Altrimenti i militari non avrebbero chiesto un suo documento e sarebbero rimasti nell’ingresso. Invece un carabiniere lo stava seguendo nell’alloggio a un passo di distanza. Aveva appena archiviato una possibile disgrazia, ma non aveva nessun motivo per essere di buon umore. Che significato aveva quell’irruzione in casa sua a quell’ora?
Raccolse il portafoglio dal comodino e vide che conteneva qualche banconota da venti euro. Un tempo erano lire e c’era stata una volta in cui in un suo portafoglio simile a quello erano entrate due banconote da diecimila lire che erano azzurre come quelle da venti euro. Era per quel denaro che i carabinieri venivano a casa sua a quell’ora? Erano passati tanti anni, forse quindici o sedici, eppure l’episodio era scolpito nella sua mente con rara chiarezza di dettagli.
Era in caserma. Erano le ultime settimane del suo anno di leva obbligatoria e quel giorno era di servizio in mensa, come spesso capitava il giovedì. Doveva apparecchiare i tavoli della sala da pranzo ufficiali, controllando che i bicchieri fossero perfettamente lavati e che le posate fossero lucide e, soprattutto, non sapessero di aceto. Dopo tutto quel tempo, l’odore dell’aceto di infima qualità dell’esercito se lo sentiva ancora addosso. Lo usavano per tutto: per sciacquare le stoviglie, per pulire i mobili di acciaio, per lavare i pavimenti. Era lo stesso aceto che finiva sui tavoli della truppa, assai diverso da quello che invece riempiva le ampolle in mensa ufficiali.
Quando il servizio era in cucina, anziché in mensa, era anche peggio. Si rischiava grosso in cucina. I forni elettrici vomitavano teglie ricolme di cibi bollenti con l’olio che friggeva e minacciava di tracimare. Quelle in basso erano pesanti e spezzavano la schiena. Quelle in alto erano le peggiori: per estrarle dal forno occorreva farle sporgere nel vuoto, sperando che non si inclinassero. Rovesciarle avrebbe significato farsi colare l’olio bollente in faccia o sulle braccia.
In quell’anticamera dell’inferno che era la cucina della caserma “Generale Anzardo”, comandava un sardo. Era sergente. Piccolo, magro per essere un cuoco, ma con le braccia più muscolose che Cremona avesse mai visto. Non sorrideva mai, non scherzava mai, non dava confidenza a nessuno. Impartiva solo ordini. Cremona non ricordava il suo nome dopo tanto tempo, ma ricordava quell’episodio accaduto verso la fine del suo anno. Aveva terminato di preparare i tavoli per il pasto della sera ed era tornato in camerata per fare la doccia. Invece di infilarsi nei bagni, aveva cambiato programma ed era ridisceso per chiedere al sergente di firmargli un permesso per il giorno seguente.
Aveva attraversato il corridoio ormai deserto ed era entrato in ufficio. Il sergente non c’era. Lo aveva cercato nei locali, ma senza fortuna. Poi aveva notato la porta della dispensa aperta ed era entrato. Il sergente era lì, che cercava di chiudere la cerniera lampo di un borsone che conteneva un’intera forma di par...