Non ho mai volato.
Sempre viaggiato in pullman o in automobile. Un paio di volte in treno.
Ho sempre pensato che il primo viaggio in aereo mi avrebbe portato lontano. Magari sulla West Coast, oppure in Europa. Ho sempre pensato che mi sarei preparato per bene, avrei scelto le cose da mettere in valigia, magari avrei fatto una playlist apposta, e non avrei avuto paura.
Alice dice che il primo viaggio in aereo te lo ricordi. Se non hai paura al primo volo non ce l’avrai più. Quando avevo otto anni stavamo per prendere l’aereo, saremmo dovuti andare dalle parti di Providence, dove abitavano i suoi. Non li avevo mai visti. Sembrava che le cose si fossero messe a posto, si potessero aggiustare. Ma alla fine non siamo partiti più. Le cose non si sono aggiustate.
Adesso sono qui, seduto su una poltrona di plastica tutta bucherellata, davanti al gate numero sedici.
Accanto a me un tizio alto e grosso, con una giacca spiegazzata, lavora per i servizi sociali. Deve assicurarsi che entri nell’aereo e non scappi. Qualcuno verrà a prendermi all’arrivo. Forse Antonia e Marcos. Non lo so.
Le pareti sono tutte di vetro. Puoi vedere gli aerei atterrare e decollare. Sembrano cavallette giganti, uccelli preistorici, delle cose vive con un becco e le ali. Ma non senti il suono.
Le persone che aspettano di partire hanno un sacco di cose da fare, controllare la posta sul portatile, parlare al telefono, mettere e togliere cose dalla valigia. Oppure dormono. La testa reclinata su un lato e la bocca aperta. Non sono sempre belle le persone che dormono. Rivoltate su un fianco.
In questo istante Zoe si sta imbarcando sul volo che la riporta a casa. Non abbiamo avuto molto tempo per parlare, il tempo è diventato stretto. E ci siamo persi, in questo tempo stretto.
Ci scriveremo. Ce lo siamo detti prima di salutarci. Quando è andata via mi ha dato un bacio sulla fronte, e mi ha abbracciato. Poi mi ha stretto le mani e mi ha guardato a lungo. Aveva gli occhi lucidi e i capelli che le cadevano storti sulla fronte. Non mi ha detto più nulla, si è girata ed è andata via.
Penso che quando sarò grande mi ricorderò tutto.
Non dimenticherò nulla di questi giorni. Me li porterò sempre con me.
Oppure la memoria mi farà uno scherzo, e questi giorni se ne andranno a finire in un angolo buio della mia testa. Chissà che faccia avrò, tra vent’anni, quando ci penserò. Chissà che cosa succederà .
Gli anni passano in fretta, mi ha detto Alice. Sono come le perline di una collana a cui ti affezioni, e poi un giorno il gancio si scioglie, e le perline scivolano via. E qualcuna la perdi, per sempre, puoi cercarla quanto vuoi. Una perlina sparirà per sempre dalla collana.
Nello zaino ho poche cose, molte meno di quelle che avevo con me in automobile. Pantaloni magliette una felpa e il termos con la polvere di Alice. A pensarci bene, questo è l’ultimo viaggio che ho fatto con lei. Non mi è mancata. Mi mancherà .
Bill ha deciso di restare a Tuba City. Bisognerà risolvere solo qualche problema burocratico, saldare i conti con la Green House, e con le assicurazioni. Si occuperà lui della Toyota, fino a quando potrò tornare a riprenderla. I medici dicono che quello che è successo è una cosa che nessuno poteva prevedere. Sì, insomma, una cosa straordinaria. È come se uno si fermasse a pensare per un pezzetto di tempo, ma quel pezzetto di tempo sono dieci anni.
È come se lo shock avesse riportato a zero il problema. Bill ha smesso di vivere dieci anni fa, e ha ripreso a vivere allo stesso modo. I medici non sanno dare una spiegazione precisa. Non sono neanche sicuri che durerà .
Ma io non la vedo così complicata. Bill aveva smesso di parlare, e adesso ha ricominciato.
Andrà a vivere nella riserva. C’è una parte della sua famiglia. Una sorella, dei nipoti. Si sono rivisti, hanno parlato. Per ora si appoggerà da loro, poi prenderà una casa con un pezzo di terra intorno, e magari un cavallo.
Prima di salutarci gli ho fatto la stessa domanda che gli avevo fatto undici anni fa.
«Mio padre dov’è?»
In quello stesso istante Bill smette di essere Bill.
Mi ha accarezzato la testa e me lo ha detto.
E io sono stato zitto per un po’.
Lui si è tolto il laccio di pelle con il dente d’orso e me lo ha messo al collo. Poi mi ha abbracciato.
Mentre mi stringeva ho sentito il suo odore, di corteccia, e ho pensato che quello è mio nonno.
Si chiama Ahiga. Colui che va in guerra.
Piccolo mio, piccolo amore mio,
se stai leggendo questa lettera vuol dire che qualcosa è andato storto.
Vuol dire che non ce l’abbiamo fatta. Ma tu ce la farai. Hai la scorza dura tu, come tuo nonno. A volte mi chiedo da dove sei venuto fuori, quale miracolo ti abbia risparmiato quello che io e tuo padre ti abbiamo scaricato addosso.
Non mi riesce facile scrivere, non ci sono più abituata, quanto tempo è che non uso una penna per scrivere una lettera? Ma ok, devo dirti delle cose. E mi faccio forza.
Ho dato questa lettera a Bill, la conserverà . Mi fido soltanto di lui, non è matto come dicono.
E io gli voglio bene, come se fosse mio padre. Anzi molto di più, mio padre era una testa di cazzo. Lo so che non è bello sentire dire una cosa del genere da una figlia, ma è la verità .
Questa lettera Bill non la aprirà mai. E se succederà qualcosa, stai certo che te la consegnerà , nella sua bella busta celeste con il risvolto bianco e rosa. L’ho comprata oggi da Reydolds e ci ho speso un dollaro e cinquanta e quindi tienila da conto ok? Ci ho spruzzato anche il mio profumo al muschio bianco e l’ho chiusa col sigillo di ceralacca, con una delle spighe che stanno appiccicate alla nostra foto in soggiorno. Quella con noi due e Wolf che se ne frega di stare in posa, come sempre. Il bello delle spighe è che possono diventare secche, e continuare a vivere, in un modo o nell’altro. È il bello di certe cose.
Non sono stata una madre perfetta, te ne ho fatte passare di belle e di brutte. Ma mi taglierei un braccio per te se fosse necessario, lo sai. Hai dovuto vedere cose che un bambino non deve vedere, maledizione, che nessuno dovrebbe vedere. Non sono stata neanche una figlia modello. Mai andata liscia con i miei. Loro a un certo punto sono spariti, e sono sparita anch’io. Non so chi dei due abbia fatto il primo passo, a dire il vero. Quel che è certo è che loro non mi hanno più cercato.
A riguardarla oggi penso che sarebbe bastato poco per fare le cose meglio di così. Boh, non lo so, alla fine è un problema di tempo, ti devi dare del tempo, lo devi dare agli altri. Forse è questo.
Non siamo pazienti, maledizione, non siamo abbastanza pazienti, abbiamo una stramaledetta fretta. Troppa fretta di vivere, essere indipendenti, darsi quel fottutissimo primo bacio, e poi fare l’amore, diventare grandi, mettersi su una macchina, partire, conquistare questo cazzo di mondo che tanto non ci riesci quasi mai, a conquistarlo. Troppa fretta di risolvere il problema. Questo maledetto problema. E sbagliamo. E forse ho sbagliato anch’io, con i miei. Non lo so.
Ma mio padre resta una testa di cazzo e mia madre una che non è stata mai capace di dire no.
Ma non era di questo che volevo parlarti.
Credo che sia arrivato il momento che tu sappia certe cose. Non voglio che in fondo alla tua coscienza rimanga una domanda senza risposta, nascosta da qualche parte, in un angolo buio dell’anima. Una domanda senza uno straccio di risposta.
Ho imparato che qualche risposta la devi dare, accidenti, se vuoi andare avanti nella vita, almeno qualche risposta la devi dare. Tu potresti dirmi, ok sono qui e ascolto. Parlami. Dimmi che cosa è successo. Qual è il problema. Racconta. Tra due ore torno da scuola e ne parliamo, abbiamo mai avuto problemi a parlare noi due?
No, amore mio, non ce l’abbiamo avuti questi problemi. Sei il figlio migliore che poteva capitarmi.
Ma questo è il problema. Voglio dire, prendere e parlarti di quello che è successo. È il mio problema. Non ce la faccio, probabilmente non ce la farò mai.
Quando ci ho provato la lingua mi si è attaccata al palato. La bocca si è cucita. Stretta stretta, come quella bambola di pezza che da piccolo ti faceva paura. E faceva paura anche a me.
Non sono stata capace, maledizione. E non avrò mai il coraggio di farlo, questa è la verità .
Quindi ti scrivo, adesso che sei a scuola e io dentro una casa che senza di te mi sembra una casa non mia, una fottutissima casa piena di fantasmi.
Ho passato mezza vita a nascondere la verità , a me stessa prima che a te, e al resto del mondo. Mi ci sono ammalata. Sono anni che mi impasticco come una stronza per paura di non farcela, per paura di perdere il controllo. Per quella schifosa paura di crollare che mi porto appresso.
Non sono capace di uscirne. Nonostante tutto non ne sono capace. Ci sono cose che non riesci a sradicare dalla tua testa, anche se alla fine magari una spiegazione esiste e bisognerebbe guardare le cose e spiegarle, un pezzo alla volta. Io non ce la faccio. La ferita resta aperta.
Magari da domani le cose cambiano e questa lettera la lascerò bruciare nel camino e fanculo al mondo. Forse andrà così, amore mio. Voglio pensare che andrà così. Ma oggi come oggi non ci giocherei un dollaro.
Tuo padre. Tuo padre non te lo ricordi. Non puoi ricordartelo. Eri troppo piccolo, e quello che ricordi sono immagini brevi, come i frammenti di un film visto un sacco di tempo fa. Un’altra vita, una specie di vita immaginaria, quella che ti ho raccontato, e che forse mi sono inventata, o che magari ti sei inventato tu stesso fantasticando su quelle foto di noi tre appiccicate sull’album. Eppure c’è stata, un’altra vita. Era la vita del mondo felice, con le giornate che correvano veloci, allegre, senza pensieri. Tuo padre era diverso ed ero diversa anch’io. E mi sentivo protetta.
Il mondo alla fine è una specie di casa, quando sei felice, anche se cammini per strada o sei in un grande magazzino pieno di rumori. Quando sei felice tutto il mondo è casa, sì.
Ma le cose cambiano. Amore mio.
Tuo padre è sempre stato un uomo pieno di rabbia. Lo è sempre stato, e io non l’ho capito. Forse non ho voluto vedere. Le mie amiche mi dicevano che ho sempre avuto un gran culo con gli uomini. E, quando ho incontrato tuo padre, dicevano che avevo fatto bingo. Era bello, questo sì, poi era simpatico, uno di compagnia, e mi voleva bene, sì. Non posso dire che non sia così. Ma era solo una faccia di quella fottuta medaglia. La verità è che ci aggrappiamo alle persone perché siamo fragili, ci innamoriamo della parte migliore di loro, e non riusciamo a vedere l’altra parte. Quella che non funziona.
I primi tempi la rabbia era un rumore lontano, non so come spiegartelo, una cosa che potevi intuire, da qualche dettaglio, che veniva fuori a tratti, raramente. E io la ricacciavo nel buco. Non le avrei permesso di rovinarmi la vita. Venivo da una famiglia assurda, i miei litigavano ogni giorno, urla, piatti e bicchieri in frantumi, quella cazzo di televisione a tutto volume, due estranei dentro la stessa casa. Ero scappata a sedici anni e me la sono vista da sola. E qualche volta non è stato facile. Io e tuo padre ci siamo messi insieme che io ne avevo diciotto, eravamo due ragazzini, in effetti, e all’inizio è stato tutto perfetto. Ci siamo divertiti, abbiamo riso a crepapelle, abbiamo fatto l’amore in tutti i posti possibili, lui lavorava io lavoravo, non avevamo problemi. La vita filava liscia.
Poi è cominciato l’incubo. Reginald ha ...