La porta del paradiso
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La porta del paradiso

  1. 462 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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La porta del paradiso

Informazioni su questo libro

Napoli, 1637. Primogenito di una nobile famiglia, Leone Baiamonte ha ventitré anni e la spavalderia di chi può vivere senza dover lavorare. A differenza del padre, astronomo dilettante dedito solo allo studio, Leone non è privo di senso pratico e di iniziativa. Ma il giorno in cui scopre che la sua famiglia è finita nelle mani di Giorgio Terrasecca, un usuraio senza scrupoli, è troppo tardi per evitare il disastro. Per quell'uomo, infatti, la rovina dei Baiamonte rappresenta una vendetta lungamente attesa, cui non intende rinunciare. Macchiatosi di una grave colpa nel tentativo di proteggere i familiari, Leone non ha altra scelta che fuggire oltreoceano. Una fuga dolorosa e solitaria, che lo costringe a lasciare la sua futura sposa Lisa, ma che gli offre anche una speranza: in Messico, infatti, uno zio missionario ha scoperto una miniera d'argento e ha invitato il nipote a farsene carico. Il giovane confida così di poter dare sostegno alla propria famiglia. E in fondo al cuore, serba la speranza di riabbracciare la sua amata. Ma il Nuovo Mondo non è il paradiso, e mentre a Napoli i Baiamonte vivono nell'indigenza e il popolo vessato dalle tasse prepara la rivolta capeggiata da Masaniello, nuove peripezie metteranno Leone duramente alla prova. In un'epoca di luci e ombre, una storia di passioni profonde, un'avventura tra due continenti popolata di personaggi indimenticabili.

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Informazioni

Parte Seconda

LA MINIERA

XVI

El Durazno, Messico, Nuova Galizia, febbraio 1638
Gli avevano detto che d’inverno in quei luoghi aridi non pioveva mai, eppure quando Leone arrivò a cavallo nel villaggio di El Durazno, alla fine di febbraio, l’acqua scendeva fittissima. La chiesa dipinta di bianco e l’abbeveratoio al centro della piazza fangosa tremolavano come riflessi in un lago.
Leone contemplava ogni cosa da sotto la visiera gocciolante dell’ampio cappello di feltro marrone. Intorno alla piazza si stringeva un villaggio di case in mattoni di adobe, la mistura di argilla, sabbia e paglia secca che in Messico si usava dappertutto per le costruzioni. Oltre i gruppi di case, si stendevano a perdita d’occhio colline rossastre punteggiate di cactus e bassi cespugli.
In pratica non c’erano strade, solo corsie fangose tra le case. La piazza con l’abbeveratoio in quel momento era un pantano rossastro in cui le zampe del cavallo affondavano ben oltre lo zoccolo.
Leone si fermò davanti all’abbeveratoio e lasciò bere l’animale, senza badare alla pioggia. Finalmente era arrivato a destinazione. C’era stato più di un momento in cui aveva temuto di non farcela.
Lo avevano salvato due marinai, rinvenuti prima degli altri dopo la botta in testa di Juan e dei suoi amici. Uno era rimasto con lui a cercare di fermare il sangue premendogli sulla ferita un pezzo della sua stessa camicia, l’altro era corso a chiamare il medico di bordo e a dare l’allarme.
Per fortuna la coltellata non aveva leso organi vitali. Dopo che lo squarcio nello stomaco era stato chiuso e ricucito, Leone era stato tre giorni tra la vita e la morte, con la febbre alta e il delirio. Poi aveva cominciato a guarire, ma il suo destino era rimasto incerto per molti giorni. La maggior parte delle ferite trattate dai medici, soprattutto in quei climi caldi, all’improvviso suppuravano, si sviluppava un’infezione e il paziente moriva. I dottori davano una quantità di spiegazioni sul perché questo succedeva, ma la verità era che non lo sapevano.
Durante le settimane trascorse sulla nave ancorata in porto, nel letto di una cabina passeggeri, concessa dal comandante per intercessione del signor Puig, Leone aveva avuto il tempo di riflettere, mentre attendeva di scoprire se sarebbe morto oppure no. Aveva compreso quanto fosse facile perdere la vita e quanto fosse stupido sprecarne anche un solo giorno in esitazioni, sensi di colpa e rimpianti.
Quando era guarito non aveva perso tempo. Appena era stato in grado di reggersi a cavallo si era messo in cammino e finalmente, dopo quasi due settimane di viaggio, era arrivato a destinazione. Ora, davanti al compito immenso che l’aspettava, si sentiva calmo, tranquillo come non ricordava di essere mai stato. Non aveva denaro, non sapeva nulla di miniere e non aveva mai diretto i lavori di altre persone. Ma era disposto a provarci. Se gli fosse andata male, non sarebbe stato peggio che se fosse morto a Veracruz, o a Napoli per mano dello sgherro di Terrasecca.
Dalle case uscirono dei bambini scalzi che gli vennero incontro sotto la pioggia, sguazzando nel fango. Si fermarono a qualche passo da lui e restarono immobili a fissarlo, senza parlare, senza fare un gesto. Leone ormai era abituato alla ritrosia di creoli e indios. Scese da cavallo con cautela, perché nonostante fossero passati sei mesi la ferita gli faceva ancora male, soprattutto quando pioveva. La coltellata non aveva toccato il cuore e non aveva leso organi vitali, ma gli aveva squarciato stomaco e intestino.
Guardò in alto, sperando di scorgere un indizio di bel tempo in arrivo, ma restò deluso. Oltre il tozzo campanile ad archi sovrapposti, su un lato della facciata, il cielo era di un color piombo uniforme fino all’orizzonte, senza neppure uno spiraglio di azzurro. Chiese ai bambini di andare a chiamare il parroco, ma loro scossero le teste brune.
«È molto arrabbiato» disse il più alto. «Ha detto che i bambini non possono entrare.»
«Come mai è arrabbiato?» chiese Leone.
«Padre Tomás si sposa» fu la risposta.
Uno dei ragazzini si offrì di portare il suo cavallo nella stalla del convento annesso alla chiesa. Leone gli mise in mano le briglie ed entrò.
La costruzione era molto semplice ma non brutta, con la pianta a croce latina a una sola navata sulla quale si aprivano due cappelle, una per lato. Dalle file di finestre in alto entrava una luce biancastra. Non c’erano banchi per i fedeli. Evidentemente a El Durazno tutti ascoltavano la messa in piedi. Nel transetto, a poca distanza dall’altare, era riunito un gruppo di monaci e laici. Al centro del gruppo un monaco robusto, con gli occhi azzurri e una barbetta grigia che terminava a punta sotto il mento, tuonava contro un uomo alto e magro, con ispidi capelli neri e il naso adunco. Avvicinandosi Leone vide anche due o tre donne che seguivano con occhi appassionati la discussione. L’uomo dai capelli ispidi indossava solo brache di lana, una camicia e sandali di cuoio. Reggeva su entrambe le braccia un saio nero che sembrava essersi appena tolto e lo porgeva al prete, che si rifiutava di prenderlo.
«Questa storia sta diventando ridicola» disse l’uomo. «Ormai ho preso la mia decisione, e non tornerò indietro.»
«Dimmi almeno come ti guadagnerai il pane» chiese il prete. «Come pensi di mantenere la tua sposa e i figli che il Signore vi manderà?»
«Lavorerò nei campi a giornata.»
«Tu, un sacerdote, un letterato, il mio braccio destro nell’amministrazione del convento, vuoi diventare un bracciante?» Il prete si guardò intorno, come a cercare l’approvazione del pubblico. «E perché non un barretero?»
«Un che?» chiese Leone a un giovane monaco accanto a lui. L’uomo gli spiegò sottovoce che i barreteros erano i minatori che con una barra di ferro scalzavano il minerale grezzo dalla roccia nel sottosuolo. Poi aggiunse, facendo un cenno con il mento. «Gli occhi di quella donna hanno stregato Tomás.»
Leone seguì il suo sguardo e vide una india sui diciotto anni, bassa e flessuosa, con lineamenti fini, capelli nerissimi legati in una spessa treccia e occhi così intensi da far male al cuore. I loro sguardi si incrociarono e Leone comprese immediatamente le ragioni del prete che voleva spretarsi. Alla fine dovette comprenderle per forza anche padre Mariano, che accettò finalmente la restituzione dell’abito da Tomás, ricordandogli tuttavia che doveva andare dal vescovo a Guadalajara per chiedere la dispensa.
Tomás annuì e disse che non rimpiangeva nulla degli anni passati a servire Dio con l’abito talare ma ora desiderava servirlo lavorando e formando una famiglia. Poi si voltò, prese per mano la sua promessa sposa e insieme si avviarono verso l’uscita. Leone scoprì con sorpresa e con uno strano sollievo che la donna non era l’india di cui aveva incrociato lo sguardo, ma una creola vistosamente incinta che le stava accanto. La ragazza dagli occhi profondi uscendo dalla chiesa insieme agli altri fedeli gli passò vicino senza guardarlo. Emanava un profumo come di erba umida. Leone seppe che avrebbe dovuto rivederla, a qualsiasi costo.
Intanto i monaci si erano ritirati attraverso una porta laterale che probabilmente immetteva nel convento. Davanti all’altare restava solo il sacerdote, con l’abito di Tomás tra le mani e un’aria tra irritata e confusa. Leone si avvicinò.
«Zio Mariano» disse in italiano. «Sono vostro nipote Leone.»
Il prete spalancò gli occhi e la bocca, e l’espressione confusa prese il sopravvento sull’irritazione. Poi scoprì i denti bianchi in un gran sorriso. «Leone! Ma certo!» tuonò, gettandosi su una spalla l’abito smesso dal confratello e abbracciandolo. «Sei uguale a tuo padre. Cioè, a com’era tuo padre alla tua età. Finalmente sei arrivato. Non sai come sono stato felice quando ho ricevuto la tua lettera da Veracruz. Come mai ci hai messo tanto? Cominciavo a temere che non venissi più.»
«È una storia lunga. Se possiamo sederci da qualche parte vi racconto tutto. »
«Certo, certo. Sei arrivato in un brutto momento» disse lo zio. «Un prete che rinuncia ai suoi voti è una sconfitta di Dio.»
Leone non fece commenti e lo seguì attraverso la porta laterale. Durante la convalescenza aveva scritto due lettere. Una a casa, per far sapere che stava bene, naturalmente senza dire di essere stato ferito, e una allo zio, dove gli spiegava che aveva deciso di accettare la sua proposta. Ma anche a lui aveva preferito comunicare solo lo stretto necessario. I due missionari a cui aveva affidato le lettere avrebbero potuto leggerle, anche se le aveva chiuse con la ceralacca imprimendovi sopra il sigillo dell’anello. O sarebbero potute finire in altre mani. Era sempre meglio essere prudenti.
Lo zio lo condusse nella piccola canonica dietro la chiesa, lo fece spogliare e gli diede il saio di Tomás da indossare mentre i suoi vestiti venivano mandati in cucina ad asciugarsi davanti al fuoco.
«Che ti è successo?» chiese, vedendo la lunga cicatrice verticale lungo lo stomaco di Leone.
Leone ne seguì il contorno con un dito. «Una brutta coltellata a Veracruz» disse. «È il motivo per cui sono arrivato solo adesso. Ci sono voluti mesi prima di poter cavalcare di nuovo.»
Indossò il saio, sentendosi strano vestito da prete. Si sedette sulla sedia davanti allo scrittoio e gli raccontò una succinta versione dell’incidente.
«Ma perché questo Juan e i suoi amici hanno stordito gli altri per rubargli le paghe e hanno accoltellato solo te?» chiese Mariano alla fine.
«È una storia lunga e poco interessante, zio. Il succo è che Juan mi odiava e mi voleva morto. E probabilmente è convinto di avermi ucciso.»
«Probabilmente?» chiese Mariano. «Vuoi dire che non li hanno presi?»
Leone scosse la testa. «Si sono calati in mare dai portelli della fiancata e sono riusciti a salire sul molo eludendo le guardie. Da allora si sono dati alla macchia, nei dintorni della città. Ho sentito che rapinano, uccidono e violentano e nessuno è ancora riuscito a catturarli.»
Mariano sospirò. «La volontà di Dio è imperscrutabile» disse. «Se ti ha permesso di sopravvivere a una prova come questa, significa che ha dei piani per te. Ci mette alla prova per farci scoprire quanto siamo forti. Ma parliamo d’altro» disse battendo le mani, come per disperdere la tristezza del racconto. «Non mi hai ancora detto come stanno mio fratello e mia cognata. Tua sorella Concetta ormai starà per sposarsi.»
Leone scrollò le spalle. «Dio ci ha mandato molte prove, negli ultimi tempi. È per questo che mi trovo qui.»
«Racconta» disse Mariano, con uno sguardo attento negli occhi azzurri. Forse fissava così i peccatori che venivano a confessarsi.
Leone raccontò e lo zio si fece sempre più cupo, fino a chiudersi in un lungo silenzio quando gli disse che non solo non aveva portato i cinquecento scudi necessari a far partire i lavori della miniera, ma aveva solo il denaro necessario per pagarsi qualche notte in una locanda, ammesso che a El Durazno ce ne fosse una.
Suo zio non disse nulla per molto tempo. Alla fine si alzò, aprì il cassetto dello scrittoio e ne tolse un grosso tomo rilegato che posò sul tavolo. Leone lo aprì con curiosità. Sul frontespizio della prima pagina c’era scritto “Georgii Agricolae, De Re Metallica”. Più in basso, sotto un caduceo con due serpenti attorcigliati venivano luogo e data di pubblicazione: Basilea, 1566. Lo sfogliò e vide che era pieno di illustrazioni di macchine in legno, utensili, tabelle, descrizione di processi di lavorazione dell’argento.
«Lo ha scritto un tedesco» spiegò Mariano. «Georg Bauer, latinizzato in Georgius Agricola. Contiene tutto ciò che bisogna sapere per estrarre i metalli dalla terra. Su queste montagne ricche di argento pochissimi ne possiedono una copia, e lo custodiscono con lo stesso zelo che riservano alla Bibbia. L’ho pagato carissimo e ci ho messo due anni per procurarmelo, pensando che ne avresti avuto bisogno, poiché immagino che tu, come me, non sappia nulla di miniere. E ora scopro che non servirà a niente.» Fissò il crocifisso sopra il letto, come a chiedergli spiegazioni. «Prendi quel foglio che c’è in mezzo.»
Leone fece scorrere le pagine e trovò un foglio piegato a metà, punteggiato di macchie unte. Lo aprì sul tavolo e lo studiò con attenzione. «La mappa del giacimento?» chiese.
Lo zio annuì. «Quando ho ricevuto la lettera di tuo padre, dove diceva che non saresti venuto, ho pregato e ho aspettato, dicendomi che se ero entrato in possesso di quella mappa c’era un motivo, e qualcosa sarebbe successo.» Si grattò il mento sotto la barba a punta. «Quando è arrivata la tua lettera da Veracruz mi sono detto che avevo fatto bene, che il Signore aveva premiato la mia fede.»
«E ora che sapete come stanno le cose, che suggerite di fare?»
Lo zio allargò le braccia. «Comincerò a cercare uno spagnolo facoltoso che voglia prendere la concessione, sperando che non mi derubi.»
Leone scattò in piedi. «Ma la miniera è l’unica speranza di riscatto per la nostra famiglia!» esclamò. «Io sono venuto per questo.»
«E cosa vorresti fare? Scavare l’argento con le mani?»
Leone cominciò a misurare la stanza a grandi passi, dal letto alla finestra. Fuori dalla canonica c’era un patio sterrato, delimitato a destra dalla parte posteriore della chiesa, a sinistra dalle stalle e sugli altri due lati dal convento dei monaci e dalla canonica stessa. Vide il suo cavallo legato sotto una tettoia, davanti a una mangiatoia con del fieno. Non aveva immaginato che lo zio fosse così povero.
«Sono venuto fin qui perché me lo avete chiesto voi» rispose. «Avete l’obbligo di lasciarmi almeno provare, prima di affidare la miniera a qualcun altro.»
«Senza soldi non si può fare nulla, credimi.» Suo zio sospirò e scosse la testa. «Puoi restare qualche giorno, se vuoi. Dormirai in canonica, mangerai alla mensa. Dovrai aiutare nei lavori della missione, perché la regola è che chi non lavora non mangia. Poi, quando ti sarai riposato, prenderai liberamente la tua decisione.»
«La decisione di andarmene, volete dire?»
Mariano sospirò. «Che altro? Il villaggio l’hai visto. A parte le case c’è un posto che funziona da locanda, taverna ed emporio. Al piano di sopra c’è il bordello. Questo è tutto. A meno che tu voglia entrare in convento come novizio, qui per te non c’è niente.»
«Come l’avete costruita, questa missione?» chiese Leone.
«Cosa c’entra?»
«Voglio dire, avevate il denaro per assumere gli operai, acquistare il terreno e tutto il resto?»
«Capisco dove vuoi arrivare, ma una miniera è una cosa diversa. Non basta la benedizione del vescovo per aprirla, e non si può chiedere ai minatori di lavorare gratis, spinti dalla fede.»
«Comprendo perfettamente le difficoltà che abbiamo di fronte» disse Leone. «Tuttavia c’è ancora una strada che possiamo tentare.»
«Cos’hai in mente?»
Leone spinse in fuori le labbra, pensieroso. L’idea che aveva avuto poteva portare più problemi di quanti ne risolvesse ma non vedeva alternative.
«Troverò i soldi» disse. «Fidatevi di me.»
Il giorno dopo, Leone volle andare a vedere il luogo del giacimento. Lo zio gli spiegò che non c’era nulla da vedere, in realtà. «Io ci sono stato una volta sola» disse. «In alcuni punti l’argento affiora dalla terra, se sai dove cercare. Ma a parte questo ci sono solo sassi, cactus e serpenti.»
Leone insistette. Si fece spiegare bene la strada e prese con sé la mappa del soldato morto, che lo zio aveva arricchito di particolari. Prese anche della carne secca da mangiare, due otri d’acqua, uno per sé e uno per il cavallo, poi si mise in cammino in direzione di San Luis Potosí.
Ci vollero parecchie ore. Il posto non era molto lontano dal villaggio, in linea d’aria, ma da un certo punto in avanti la strada finiva e la marcia tra le montagne deserte si faceva lentissima. Per fortuna il tempo era ideale. Non pioveva più dalla sera prima, ma il cielo era rimasto coperto, e ogni tanto spirava un po’ di brezza. Leone immaginava che sotto il sole, salire verso il picco del Zopilote tra le pietre e i cespugli spinosi, sarebbe stato un inferno. Se fosse riuscito ad acquistare la concessione, la prima cosa da fare era costruire una strada tra El Durazno e il giacimento. Altro denaro da spendere prima ancora di poter aprire la miniera. Altro denaro che non possedeva.
Si riposò all’ombra della macchia di vegetazione segnata sulla mappa, bevve e fece bere il cavallo, poi salì a mezza costa sulla montagna, dalla ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. La porta del paradiso
  3. Prologo
  4. Parte Prima - LA FUGA
  5. Parte Seconda - LA MINIERA
  6. Parte Terza - IL RITORNO
  7. Epilogo
  8. Nota dell’autore
  9. Ringraziamenti
  10. Copyright