Gentile signore,
invio il mio documento a lei, signore, perché non posso portarlo con me1, e perché gli alti ufficiali e comandanti delle nostre forze clandestine in Polonia potrebbero trovare interessanti questi particolari su un’area di attività dell’Esercito Nazionale che è completamente sconosciuta. Mi è stata offerta una grossa cifra per pubblicarlo in America, ma per il momento ho deciso di non fare questo passo perché non ho avuto il tempo di perfezionarlo dal punto di vista stilistico, e anche perché proverei rimorso a venderlo per denaro. Altri avrebbero voluto impadronirsene, ma secondo me la cosa giusta da fare è metterlo nelle sue mani, generale. Forse anche qualcuno a Londra potrebbe trovarlo interessante. La prego di non trattarlo come un resoconto (puramente) sensazionalistico, perché si tratta di esperienze estreme di tanti polacchi onesti. Non tutto è stato riportato qui, perché non era possibile farlo in poco tempo. Nulla è stato “esagerato”; anche la minima bugia profanerebbe la memoria di quelle degne persone che persero la vita laggiù.
Tomasz di Auschwitz
capitano di Cavalleria Witold
che si è presentato a lei qualche giorno fa.
19 ottobre 1945
Estate 1945
Così, eccomi a mettere nero su bianco i fatti nel modo più asciutto, come vogliono i miei amici.
Mi hanno detto: «Più ti attieni ai fatti nudi e crudi senza alcun tipo di commento, più tutto avrà valore».
Bene, lo farò… ma non eravamo fatti di legno, men che meno di pietra, anche se a volte sembrava che anche una pietra avrebbe sudato freddo.
Quindi di tanto in tanto inserirò un pensiero tra questi fatti per spiegare cosa provavamo.
Non credo che questo debba per principio svalutare la descrizione.
Non eravamo fatti di pietra, anche se spesso lo avrei preferito; avevamo ancora un cuore che batteva, a volte in gola, e certo nel cervello ci ronzava ogni tanto un pensiero che a volte facevo fatica a cogliere…
Penso che inserire una frase o due su questo, di quando in quando, serva a presentare un quadro veritiero.
19 settembre 1940 – la seconda retata per le strade di Varsavia.
Sono ancora vive alcune persone che mi videro andare, solo, alle 6 del mattino all’angolo tra Aleja Wojska e Felińskiego per unirmi alle “cinquine” di uomini rastrellati dalle SS.
In Plac Wilsona fummo poi caricati su camion e portati alla caserma dei cavalleggeri.
Dopo aver preso nota dei nostri dati nell’ufficio provvisorio e averci alleggerito degli oggetti taglienti, minacciando di giustiziarci se in seguito ci avessero trovato addosso anche solo un rasoio, ci trasferirono al maneggio dove rimanemmo per tutto il 19 e il 20.
In quei due giorni alcuni di noi fecero l’esperienza di un manganello di gomma sulla testa, ma entro limiti accettabili per chi era abituato all’uso di tali metodi da parte delle forze dell’ordine per far rispettare la legge.
Nel frattempo, alcune famiglie compravano la libertà dei propri cari, versando alle SS enormi somme di denaro.
Di notte dormivamo tutti per terra uno accanto all’altro.
Il maneggio era illuminato da un enorme riflettore collocato vicino all’entrata.
Uomini delle SS con armi automatiche erano appostati su tutti e quattro i lati.
Eravamo circa milleottocento.
Ciò che mi infastidiva di più era la passività di quel gruppo di polacchi. Tutti i prigionieri mostravano già segni di una psicologia di massa, col risultato che il nostro intero gruppo si comportava come un gregge di pecore.
Un semplice pensiero continuava a ronzarmi nella testa: scuotere tutta quella gente e farla reagire.
Suggerii al mio compagno Sławek Szpakowski (che a quanto so era vivo a Varsavia prima della rivolta2) un’operazione congiunta durante la notte: prendere il comando del gruppo e attaccare i posti di guardia, mentre io, andando al gabinetto, sarei “inciampato” sul riflettore rompendolo.
Ma io ero lì per un altro motivo.
Questo sarebbe stato un obiettivo molto meno importante.
Quanto a lui… trovò l’idea totalmente folle.
Il mattino del 21 fummo caricati su camion e scortati da motociclisti con armi automatiche fino alla stazione ferroviaria occidentale, dove ci fecero salire su vagoni merci.
I vagoni dovevano essere stati usati per trasportare calce, che era disseminata sul fondo.
I carri furono chiusi. Viaggiammo per un giorno intero. Non ricevemmo nulla da mangiare o da bere. E comunque, nessuno aveva voglia di mangiare. Il giorno prima ci avevano dato un po’ di pane, che non sapevamo ancora se mangiare o conservare. Avevamo solo molta sete. La calce, smuovendosi, si traformava in polvere. Riempiva l’aria, irritandoci le narici e la gola. Non ci dettero niente da bere.
Dalle fessure tra le assi inchiodate ai finestrini vedemmo che stavamo andando in direzione di Częstochowa.
Verso le 10 di sera (le 22) il treno si arrestò da qualche parte e non andò più avanti. Sentimmo grida e strilli, i vagoni che venivano aperti e un latrare di cani.
Considero questo punto della mia storia il momento in cui dissi addio a tutto ciò che avevo conosciuto fino a quel momento su questa terra, per entrare in qualcosa che apparentemente non ne faceva più parte.
Non sto tentando di usare parole o termini fuori dal comune. Al contrario, credo che non ci sia bisogno di adottare parole insulse o preziose.
Era così e basta.
Ad abbattersi sulla nostra testa non fu solo il calcio dei fucili delle SS, ma qualcosa di ben più grande.
I nostri concetti di legge e ordine e normalità, tutte le idee alle quali ci eravamo abituati su questa terra, furono brutalmente calpestati.
Fu la fine di tutto.
L’idea era quella di colpirci con tutta la forza che avevano. Di farci crollare psicologicamente il più in fretta possibile.
A poco a poco sentimmo avvicinarsi un frastuono e voci che urlavano. Finalmente le porte dei nostri vagoni si aprirono di colpo. La luce penetrò all’interno, accecandoci.
«Heraus!rraus!rraus!…» le SS si accanirono su di noi insultandoci e picchiandoci sulle spalle, sulla schiena e sulla testa col calcio dei fucili. L’intento era quello di farci uscire il prima possibile.
Balzai fuori, riuscendo in qualche modo a schivare i colpi, e mi unii alle “cinquine” al centro della colonna.
Un gruppo più numeroso di SS menava pugni e calci strillando: «Zu fünfen! [Per cinque!]».
Cani eccitati dalla soldataglia impazzita si avventavano su chi non era in colonna.
Abbagliati dalle luci, spintonati, picchiati, presi a calci e assaliti dai cani, ci eravamo trovati di colpo in condizioni che nessuno di noi, immagino, aveva mai sperimentato. I più deboli furono così sopraffatti da cadere semplicemente in uno stato confusionale.
Ci spinsero verso un raggruppamento di luci più ampio.
Lungo il tragitto, uno di noi ricevette l’ordine di correre verso un palo a lato della strada; una raffica di armi automatiche lo inseguì abbattendolo. Poi dieci uomini furono estratti a caso dai ranghi e uccisi a colpi di pistola per “responsabilità collettiva” nella “fuga” che le stesse SS avevano inscenato.
Tutti e undici furono quindi trascinati via con delle corde legate alle gambe. I cani furono stuzzicati e aizzati contro i cadaveri insanguinati.
Il tutto con l’accompagnamento di risa e battute.
Ci avvicinammo al cancello di un recinto di filo spinato sul quale si leggeva l’insegna ARBEIT MACHT FREI [Il lavoro rende liberi].
Solo più tardi avremmo imparato a comprenderne il vero significato.
Oltre la recinzione c’erano file di baracche in mattoni tra le quali si vedeva una grande piazza d’armi.
Il passaggio tra le file delle SS attraverso il cancello ci concesse un breve intervallo di pace. I cani furono allontanati e ci fu ordinato di metterci in fila per cinque. A quel punto ci contarono con cura, aggiungendo alla fine i cadaveri trascinati via.
L’alta – e a quel tempo unica – recinzione di filo spinato e il cancello affollato di SS mi ricordarono per qualche motivo un detto cinese che avevo letto da qualche parte: «Entrando, pensa al ritorno, e andrai via integro…». Un sorriso ironico affiorò dentro di me e si spense… sarebbe servito a poco in quel luogo…
Dentro il recinto, nella grande piazza d’armi, ci attendeva ben altro spettacolo. Nella luce vagamente spettrale che pioveva su di noi dai riflettori su tutti i lati, vedemmo degli esseri che sembravano persone, ma si comportavano più come animali selvatici (per me si tratta di animali, la nostra lingua non ha ancora una parola per simili creature). Indossavano strani abiti a righe, come quelli che avevamo visto nei film su Sing Sing, con cose che nella luce incerta parevano medaglie appese a nastri colorati, ed erano armati di bastoni con cui aggredivano i nostri compagni tra risa selvagge, colpendoli sulla testa, prendendoli a calci nelle reni o in altri punti sensibili mentre erano a terra, saltando con gli scarponi sui loro petti e stomaci, dispensando morte con un ghigno allucinato.
“Dunque ci hanno messo in un manicomio!” fu il mio pensiero. “Diabolico!” Stavo ancora ragionando secondo categorie terrene. Quelle erano persone catturate durante un rastrellamento per strada, quindi anche dal punto di vista dei tedeschi non erano accusate di alcun reato contro il Terzo Reich.
Mi tornarono alla mente le parole di Janek W. [Jan Włodarkiewicz], pronunciate dopo la prima retata di agosto a Varsavia. «Hai perso una grande occasione, capisci, la gente presa nelle retate non è accusata di reati politici; è il modo più sicuro per entrare in un campo.»
Con quanta ingenuità, nella lontana Varsavia, pensavamo ai polacchi spediti nei campi.
Una volta sul posto, non bisognava essere un “politico” per perdere la vita.
Loro uccidevano quelli che avevano sottomano.
Si partiva con una domanda buttata lì in tedesco da un uomo a righe con un bastone: «Was bist du von zivil? [Che lavoro fai da civile?]».
Rispondere prete, giudice, avvocato, a quell’epoca significava essere ammazzati di botte.
Quando lo chiesero al tizio in fila davanti a me, agguantandolo per i vestiti sotto la gola, costui rispose in tedesco: «Richter [giudice]».
Fu un errore fatale. In pochi istanti finì a terra picchiato e preso a calci.
Dunque si stavano dando da fare per eliminare i professionisti.
Visto questo, cambiai idea.
Forse c’era del metodo in quella follia, e quello era un modo terribile di assassinare i polacchi a partire dalle classi colte.
Avevamo una sete disperata.
Arrivaron...