
eBook - ePub
Fino a quando la mia stella brillerà
- 200 pagine
- Italian
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- Disponibile su iOS e Android
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Fino a quando la mia stella brillerà
Informazioni su questo libro
La sera in cui a Liliana viene detto che non potrà più andare a scuola, lei non sa nemmeno di essere ebrea. In poco tempo i giochi, le corse coi cavalli e i regali di suo papà diventano un ricordo e Liliana si ritrova prima emarginata, poi senza una casa, infine in fuga e arrestata. A tredici anni viene deportata ad Auschwitz. Parte il 30 gennaio 1944 dal binario 21 della stazione Centrale di Milano e sarà l'unica bambina di quel treno a tornare indietro. Ogni sera nel campo cercava in cielo la sua stella. Poi, ripeteva dentro di sé finché io sarò viva, tu continuerai a brillare. Questa è la sua storia, per la prima volta raccontata in un libro dedicato ai ragazzi.
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Informazioni
Editore
EDIZIONI PIEMMEAnno
2015Print ISBN
9788856639490eBook ISBN
9788858513088
Dentro Auschwitz
Sul treno io e papà eravamo stretti l’una all’altro. Papà non aveva più lacrime né parole, solo ogni tanto mi diceva, come in preda a un delirio, di perdonarlo per avermi messo al mondo. Era consapevole che non poteva fare più niente per salvarmi e non riusciva a sopportarlo. Io sapevo che era la disperazione a farlo parlare, così mi stringevo a lui cercando di dargli conforto. Almeno eravamo insieme, questo era per me sopra ogni cosa.
In viaggio gli dissi: «Papà, io sono felice di essere con te in questo momento, non avrei voluto essere da un’altra parte». Improvvisamente ero diventata adulta.
Il viaggio fu lungo, circa una settimana. Eravamo tutti ammassati dentro i carri bestiame, senza acqua né luce. Un secchio in ogni vagone per i bisogni di tutti. Poca paglia a terra, come nelle stalle per gli animali. C’era chi pregava, instancabilmente. C’era chi piangeva, instancabilmente. Ma la maggior parte di noi era muto, come me e papà. Non c’era più niente da dire. Arrivammo ad Auschwitz, infine. Eravamo 605. Qualcuno era morto nel viaggio, li tirarono fuori dal treno solo allora.
Ci fecero scendere con la solita violenza gridata. Auschwitz si presentò ai nostri occhi come un’enorme spianata di neve. Intorno a noi, freddo e desolazione. Una volta scesi dai vagoni ci ritrovammo subito circondati da tanta gente, c’erano i prigionieri del campo che avevano l’ordine di prendere e smistare le valigie, c’erano i soldati nazisti che smistavano noi, le guardie con i cani al guinzaglio che abbaiavano. Mi ricordo tanta confusione.
Dopo un po’, un soldato nazista cominciò a parlare e calò il silenzio. Qualcuno tradusse le sue parole.
«Calmi, state calmi, noi vi dobbiamo solo registrare. Gli uomini da una parte e le donne dall’altra, stasera sarete di nuovo insieme, gli uomini lavoreranno e le donne faranno i lavori di casa. Adesso vi registriamo e poi le famiglie si riuniranno.»
Ci volevamo credere. Come potevamo immaginare che degli esseri umani, come noi, avessero programmato le camere a gas per altri esseri umani?
Invece, quello era un modo per tenerci calmi, per farci fare quello che volevano. Obbedimmo, non avevamo altra scelta.
Subito ci divisero, io e papà ci abbracciammo, pensavamo che poco dopo ci saremmo rivisti e riuniti. «Poi torniamo insieme» mi diceva papà per farmi coraggio. Io gli credevo.
Tutti in riga, gli uomini da una parte e le donne e i bambini dall’altra. Papà era stato messo in fila con gli uomini, lontano da me. Aspettavamo la “registrazione”, così la chiamavano. Non sapevamo ancora che cosa significasse, ma lo capimmo presto.
Faceva freddo e c’era tanta neve quel giorno. Io mi giravo verso papà e gli facevo dei piccoli saluti per farmi coraggio. Mi veniva da piangere perché vedevo che papà si allontanava sempre di più dal mio gruppo. Non capivo cosa succedeva, quale fosse la logica che i nazisti usavano nella divisione delle persone, dopo la registrazione. Mi sembrava strano che qualche gruppo di persone, miste, venisse portato via dentro i camion, altri a piedi, in direzioni diverse. Cominciavo a pensare che ci avessero mentito sui ricongiungimenti, avevo il magone e seguivo tutti i movimenti che faceva papà nella fila degli uomini. Però, intanto noi andavamo avanti e io dovevo stare attenta a cosa succedeva nella mia fila, se non sentivi un comando ti picchiavano. A un tratto mi girai per salutare ancora papà… ma lui non c’era più, non lo vedevo più… Cominciai ad agitarmi, mi sembrava di impazzire perché non potevo correre e andarlo a cercare come avrei voluto fare, non potevo muovermi, staccarmi dalla fila dove mi avevano messa. Continuavo a guardarmi intorno sperando di vederlo… fino a quando capii che era inutile. Era sparito, era stato portato lontano da me, insieme ad altri prigionieri. Era il 6 febbraio 1944.
Eppure istintivamente cercai di non perdermi d’animo. Mi dissi che comunque l’avrei rivisto, una volta passata la confusione. Ci avrebbero riuniti nel campo, l’avevano detto. In fila ero insieme a una mamma e ai suoi due figli. Papà aveva chiesto a questa signora dolcissima, Mafalda Morais, quando eravamo ancora a San Vittore, di tenermi con lei se ci avessero divisi. Si preoccupava sempre che non restassi sola. Mafalda aveva accettato subito e adesso mi teneva accanto a lei e ai suoi due figli, Graziella e Alberto. Ma, a un certo punto, mi accorsi che era arrivato il mio turno di registrarmi. Non so perché ma non l’aspettai e andai da sola davanti al soldato.
L’istinto mi salvò perché, lo seppi dopo, i nazisti avevano deciso di far passare trentuno donne. Io rientrai nelle trentuno che passarono, tutte le altre furono mandate direttamente a morire nelle camere a gas.
Mi presentai davanti alla guardia nazista e questa mi chiese se ero sola, risposi di sì e mi disse di raggiungere la fila di sinistra.
Poco dopo essere passata, vidi Violetta abbracciata a sua mamma andare nella fila di destra e anche la signora Morais e i suoi due figli furono mandati dalla stessa parte.
Non sapevo ancora, in quel momento, che i nazisti avevano deciso di farmi vivere, almeno fino a quando sarei stata in grado di lavorare. Non sapevo, invece, che Violetta e la sua mamma, e così Mafalda e i suoi figli Alberto e Graziella, stavano andando verso le camere a gas. Fu solo una questione di fortuna, o destino, capitare fra le trentuno donne che i nazisti avevano deciso di far vivere perché era il numero che serviva in quel momento dentro il campo. Se avessi aspettato a presentarmi alla registrazione sarei stata mandata nella fila di destra anche io.
Un’altra cosa che scoprii più tardi fu che quel giorno mi salvai anche per un altro motivo: la guardia non mi chiese quanti anni avevo, per mia fortuna ero alta e dimostravo più di tredici anni. I nazisti avevano una regola che seguivano alla lettera quando eseguivano la registrazione degli häftling, i prigionieri: dai tredici anni in giù i bambini venivano mandati direttamente nelle docce, ovvero nelle camere a gas. Avevano deciso che, sotto i tredici anni, i ragazzi non fossero abbastanza forti per lavorare nel campo, erano stücke inutili. Stück… ci chiamavano così, facendo seguire a questa parola i numeri tatuati sul braccio. In tedesco significa “pezzo”. Non eravamo più uomini. Ad Auschwitz diventammo… pezzi.
Voglio vivere
Quando entrai nel campo non facevo che piangere. Per oltre una settimana andai avanti così. Piangevo, piangevo, piangevo. Provavo una disperazione assoluta. Era come se mi rendessi conto solo allora che tutto era finito, ormai tutto era perduto. Non avevo più niente, niente. Neppure un fazzoletto per asciugare le lacrime. Non ci avevano lasciato niente. Solo il corpo, un corpo che piano piano diventava uno scheletro.
Giorno dopo giorno mi guardavo riflessa nelle altre prigioniere, come in uno specchio: visi da scheletro e occhi senza vita, le gambe magrissime da spostare una sull’altra, con fatica.
Era una realtà talmente spaventosa che quando mi resi conto che il campo era pieno di mucchi di cadaveri, di scheletri che camminavano come fantasmi, di persone in punizione per un nonnulla, di violenza gratuita che poteva scatenarsi per uno sguardo sbagliato o una parola sussurrata a un altro prigioniero… dentro di me, senza che ne fossi conscia, scattò qualcosa.
Il desiderio di sopravvivenza, fortissimo. Un desiderio selvaggio, primitivo, che era prima di tutto del mio corpo, che voleva farcela, che non voleva arrendersi. Non fu un ragionamento consapevole, ma un istinto di cui mi sono resa conto solo dopo, quando tutto era finito.
Però non sarebbe bastato. Lì dentro non sarebbe bastato voler sopravvivere.
Nei primi giorni le prigioniere adulte mi dissero poche regole non dette del campo, le regole di sopravvivenza. Mi restarono impresse. Le seguivo scrupolosamente.
Prima di tutto, imparare il tedesco per rispondere subito ai comandi, se non capivi gli ordini le guardie e le kapò, le prigioniere che erano state “promosse” anche loro a guardie dai nazisti, si arrabbiavano, venivi messo in punizione, bastonata, o peggio.
Imparare il proprio numero tatuato sul braccio, in tedesco, in modo che quando sentivi il numero sapevi di essere stata chiamata, se li facevi aspettare finiva male.
Mai guardare in faccia gli assassini, rendersi invisibile. Non distinguersi per nessun motivo.
Non farli aspettare quando impartivano un ordine, l’obbedienza doveva essere cieca e immediata.
Se anche ti ammalavi non dovevi mai dirlo perché chi andava in una specie di ospedale chiamato revier raramente tornava indietro.
Ma anche sapere tutto questo poteva non bastare per sopravvivere perché se a una guardia nazista, o alla kapò della baracca, non piacevi, avrebbe potuto mandarti a morte con qualunque scusa. Avevano potere assoluto sui prigionieri.
Io ho avuto la “fortuna” di lavorare in fabbrica. Lavorare al coperto ti esponeva meno al freddo, ci si ammalava meno. Rimasi un anno in una fabbrica di munizioni, tuttora esistente in Germania. Settecento donne e ragazze di giorno e altrettante nei turni di notte. Non si fermava mai la fabbrica. Eravamo schiave, lavoravamo fino all’esaurimento delle forze, poi diventavamo pezzi che non servivano più.
Con il passare dei giorni, smisi di piangere, iniziai a chiudermi in me stessa, non parlavo con nessuno. Mi avevano rinchiusa nel settore femminile del complesso di Auschwitz-Birkenau. Auschwitz era il campo per gli uomini, Birkenau quello per le donne. Nel lager vivevo minuto per minuto. Un conto era il mio corpo - una gamba davanti all’altra a testa bassa - e un conto era il mio cervello che cercava di non essere lì.
Successe una cosa dentro di me senza che me ne rendessi conto: a un certo punto la mia mente cominciò a rifiutare di partecipare alle cose terribili che succedevano nel campo. Non mi voltavo quando qualcuna di noi era messa in punizione, non ascoltavo quando le prigioniere parlavano di violenze a cui avevano assistito o alle quali erano state sottoposte. Non sentivo se qualche prigioniera raccontava cose successe in altri campi di cui aveva sentito parlare, o quando qualcuna ricordava i tempi prima del lager. Io non volevo sapere. Non lasciavo il mio cervello libero di registrare quello che accadeva intorno a me. Se avessi partecipato con il cuore alle sofferenze spaventose che vedevo ogni giorno, se mi fossi affezionata a qualche prigioniera che avrei potuto veder morire da un giorno all’altro, non ce l’avrei fatta a sopportare quei giorni, uno dopo l’altro.
Solo il mio corpo - con la mia magrezza, la fame, il freddo, le piaghe, le febbri, le punizioni che subivo - mi riportava nel campo, dentro Auschwitz. Ma la mente no, la mente distoglieva lo sguardo, e io ricominciavo a fuggire. Senza vedere, senza sentire le grida di giorno e di notte. Avanti, una gamba dopo l’altra, a testa bassa, senza guardare in faccia chi mi stava intorno. Io non mi appoggiavo a nessuno e nessuno doveva appoggiarsi a me per sopravvivere. Ero diventata egoista. Era l’unico modo per continuare a vivere.
Ma c’era un pensiero che non mi abbandonava. Non potevo chiudere gli occhi e far finta che non esistesse come facevo per la realtà che avevo intorno. Pensavo a papà. Dov’era? Cosa gli avevano fatto? Ormai conoscevo la vita del campo, sapevo con quanta facilità morivano le persone. Sapevo dei forni che mandavano fumo tutto il giorno. E se fosse morto? Se lo avessero mandato al gas? Non ce la facevo a sopportare anche solo il pensiero. Era terribile non avere notizie, mi si affacciavano alla mente le situazioni più angoscianti e non riuscivo a fermarle, a non farle passare davanti agli occhi. Che fine aveva fatto papà? Non sapevo a chi chiedere notizie.
Fino a che un giorno, nella fabbrica, incontrai degli uomini che avevano viaggiato con noi sul treno. Facendo attenzione a non essere vista dalle kapò, chiesi a loro notizie di papà. Mi dissero che l’avevano messo a lavorare al campo di Buna-Monowitz. Era vicino ad Auschwitz. Sapevo che era un campo durissimo, tutti dicevano che da Buna-Monowitz difficilmente si tornava indietro. La notizia mi gettò nella disperazione. «Però» pensai subito dopo «almeno era vivo».
Papà era vivo!
Lo pensavo continuamente. Ero sicura che lui stesse soffrendo, soprattutto perché mi immaginava dentro quell’inferno. Avevo paura che si lasciasse andare alla tristezza per via di quella pena nel cuore.
In ogni prigioniero vedevo lui, vestito a righe e con la testa rasata, il berrettino che dovevamo levare di corsa quando c’era un ufficiale delle SS o una guardia nazista. Se qualcuno tardava a toglierlo, veniva preso a calci e sottoposto a punizioni terribili. Quante volte succedeva… Io pensavo a papà e lo vedevo picchiato, deriso, offeso. Era un pensiero fisso che mi tormentava.
Ma poi, c’era la fame, la stanchezza, la fatica per la sopravvivenza… Passavano i giorni, poi le settimane e i mesi. Il pensiero di papà cominciò a restare sullo sfondo. In primo piano restavano le grida, i pianti, la sofferenza fisica e quella psicologica. Non smisi mai di pensarlo, ma cessai di vederlo in tutti i prigionieri che soffrivano, in quelli che andavano a morte o erano picchiati. La mia mente e il mio cuore non potevano reggere quella pena.
Stella stellina,
resta con me
Sognavo a occhi aperti. Mai a occhi chiusi. Non ho mai sognato di notte ad Auschwitz. Di giorno sì, immaginavo di correre su un prato che ricordavo, in mezzo ai fiori, nel sole; mi raccontavo i film che avevo visto, i libri che avevo letto, le mie canzoni preferite, le commedie ascoltate alla radio con nonno Pippo. In questo modo non permettevo al cervello di vedere quello che accadeva davanti a me, la realtà quotidiana della mia nuova vita all’inferno. Avevo un mondo di fantasia e di ricordi che mi trascinava lontano da lì. Ritornavo con la mente a una festa con le amiche, a una vacanza, a una gita in campagna… Ma niente che riguardasse la mia famiglia, la mia casa, i visi più cari, dei miei nonni e di mio papà. Quelli erano ricordi proibiti. Perché non potevo sopportarli, mi avrebbero fatto troppo male. Filtravo le cose che potevo ricordare e scartavo quelle che non avrei avuto la forza di sopportare. Non lo facevo consapevolmente, era un modo per sopravvivere. Usavo tutte le mie forze per restare lontana dal lager, almeno con la mente. Se sono sopravvissuta è anche per l’intensità con la quale esercitavo questa volontà.
Alla fine della giornata, il mio mondo di fantasia, al quale mi aggrappavo per “fuggire” dal campo, era diventato una piccola stella che vedevo in cielo. Sempre la stessa. L’avevo notata una sera di cielo terso, quando i nostri aguzzini ci davano pochi minuti di tregua.
Da quella sera, ogni giorno quando arrivava il buio la cercavo, le parlavo. Ero felice di ritrovarla, significava che un altro giorno era passato ed ero ancora viva. Mi identificavo con quella stella. Vedendola, dentro di me, le dicevo: «Finché io sarò viva, tu, stellina, continuerai a brillare nel cielo. Stai tranquilla, io non morirò. Io sarò sempre con te».
Da allora la stella è diventata un simbolo importante nella mia vita. La mia famiglia mi regala stelline d’argento e i miei nipoti disegnano per me cieli brillanti di stelle.
Eravamo tre ragazze italiane a lavorare nella fabbrica di munizioni. Il resto erano di altre nazionalità. Tutte le mattine i nazisti ci portavano fuori dal campo e ci facevano fare circa tre chilometri per raggiungere la fabbrica. Eravamo costrette a cantare le loro canzoni, in marcia. Era l’ennesima cattiveria, farci cantare come se fossimo state allegre. Eravamo degli scheletri invece, camminavamo a fatica, i corpi stremati dalla fame, dalle fatiche e dalle botte. Eppure dovevamo cantare come se stessimo andando a fare una gita in campagna.
In quel tratto di strada, ritrovavamo i rumori familiari. La campana di una chiesa, le grida dei bambini a scuola, un treno. I ricordi ti assalivano, ma era un attimo, i giorni cari non potevamo permetterceli. Ci avrebbero resi deboli e vulnerabili. E io non volevo diventare vulnerabile, volevo vivere.
E cantavo, obbedivo e marciavo.
In quel tragitto, la cosa più terribile era incontrare la Hitlerjugend, la gioventù hitleriana. Erano ragazzi fra i quattordici e i vent’anni, biondi e con la divisa nera. Erano belli, non erano scheletrici come noi, anzi. La croce uncinata sul braccio, correvano sulle loro biciclette sicuri di essere i vincitori, certi di appartenere alla razza superiore. Quando...
Indice dei contenuti
- Copertina
- Fino a quando la mia stella brillerà
- Prefazione di Ferruccio de Bortoli
- Prologo
- Prima Parte: Il papà e la bambina
- Seconda Parte: Cambia tutto
- Terza Parte: Sempre con me
- Epilogo
- Dialogo tra Daniela e Liliana
- Nota storica
- INSERTO FOTOGRAFICO
- Copyright