
- 350 pagine
- Italian
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Le città del mondo
Informazioni su questo libro
Due pastori attraversano la Sicilia, ognuno in compagnia del figlio. Il viaggio è in realtà una fuga, la spinta inquieta verso un orizzonte temuto e inseguito, diverso per ciascuno. Durante il cammino - che sfiora e a tratti si immerge nelle città brulicanti di pericoli e tentazioni - le loro storie si incontrano e si intrecciano a quelle di altri personaggi: meretrici, fanciulle fuggiasche, giovani donne viziate, contadini in rivolta. Tutti, affannosamente, alla ricerca di qualcosa. Pubblicato postumo e incompiuto nel '69, il romanzo ricevette una calda accoglienza dalla critica e da alcuni è considerato una delle opere migliori dello scrittore siciliano. PREFAZIONE E NOTA AL TESTO DI GIUSEPPE LUPO
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Informazioni
Print ISBN
9788817062428eBook ISBN
9788858639368Le città del mondo
I
Uno degli anni in cui noi uomini di oggi si era ragazzi o bambini, sul tardi d’un pomeriggio di marzo, vi fu in Sicilia un pastore che entrò col figlio e una cinquantina di pecore, più un cane e un asino, nel territorio della città di Scicli.
Questa sorge all’incrocio di tre valloni, con case da ogni parte su per i dirupi, una grande piazza in basso a cavallo del letto d’una fiumara, e antichi fabbricati ecclesiastici che coronano in più punti, come acropoli barocche, il semicerchio delle altitudini. È a pochi chilometri da Modica, nell’estremità sudorientale dell’isola; e chi vi arriva dall’interno se la trova d’un tratto ai piedi, festosa di tetti ammucchiati, di gazze ladre e di scampanii; mentre chi vi arriva venendo dal non lontano litorale la scorge che si annida con diecimila finestre nere in seno a tutta l’altezza della montagna, tra fili serpeggianti di fumo e qua e là il bagliore d’un vetro aperto o chiuso, di colpo, contro il sole.
L’uomo e il ragazzo che vi arrivarono quel pomeriggio con le loro pecore tornavano da un inverno passato in prossimità del mare: prima lungo le rive dei tristi fiumi malarici che corrono a ponente di Vittoria, poi tra le dune dai pendii biancheggianti di gesso che si chiamano Maccòni di Cammarana, infine sulla landa coperta d’assenzio ch’è in bocca alla cava d’Aliga, dove non si vede volare altro uccello che il corvo avanti e indietro verso il promontorio o dal promontorio che porta il suo nome.
Seguito per qualche chilometro il terrapieno d’una ferrovia e avventuratisi, diversamente da altre volte, su strade dirette a nord che salivano tra campi di verde giovane, tutti chiusi da cinte di pietrame, essi s’eran trovati a condurre il gregge, cercandogli un luogo non coltivato che potesse servirgli da pascolo, molto più in alto di quanto forse non volessero. Il posto appariva solitario: una spianata di roccia con cielo intorno quasi da ogni lato; e padre e figlio, stanchi e accecati dal sole, non aspettarono di raggiungere uno dei suoi limiti per fermarsi a mangiare un po’ di pane e olive. Poi il sonno s’era posato in fronte a entrambi con un peso misto di odori campestri e di luce diventato a poco a poco anche di musica per via dei belati e dei rintocchi di bronzo che si alzavano, alle distanze più varie, dalle pecore.
Ma al risveglio si accorsero che in quella musica vibrava uno strano miele come se un’orchestra suonasse davvero da qualche parte: o di sopra a loro nella profondità del cielo, o di sotto a loro nella profondità della terra su cui sedevano. Istintivamente, sollevarono gli occhi a cercarla entro il culmine dell’azzurro. Nel frattempo distinguevano note anche familiari attraverso il rombo dei suoi metalli sconosciuti. Voci umane? Rumori dell’attività degli uomini? Pareva che si udisse persino il cigolio di un carretto. Era come qualcosa che arrivasse lassù a un compimento immortale da uomini lontani di migliaia di anni o di migliaia di chilometri.
Padre e figlio si scambiarono un’occhiata; e di nuovo percorsero con lo sguardo la superficie del deserto di pietre fin dove l’aria lo tagliava; poi si misero a riunire le pecore. L’uomo fischiava loro. Il ragazzo correva intorno insieme al cane. Ma egli si arrestava ogni tanto dietro a un arbusto o dietro una roccia; e anche otteneva, per un minuto o due, che il cane smettesse di abbaiare. Egli voleva sentire, evidentemente, se lo strano suono vi fosse sempre. Correva e scompariva. Ricompariva e correva. E d’un tratto, mentre le pecore affluivano in un’ultima ondata, l’uomo l’udì che lo chiamava con voce piena d’urgenza: «Papà. Babbo. Babbo».
II
Non era un grido d’allarme, o che chiedesse aiuto. Anzi sembrava gioioso, addirittura esaltato, esultante. Solo che non dava tregua, e l’uomo si affrettò a strapparsi fuori dalla massa delle groppe che lo incalzavano. «Rosario!» gridò in risposta. «Rosario!»
Fu con voce carica di preoccupazione, fors’anche perché non vedeva da che parte Rosario si trovasse.
«Eccola lì» poté udirlo richiamare. «Papà. Babbo.»
L’uomo strinse forte il bastone e raccolse inoltre una pietra.
Il cane era emerso dall’orlo di roccia in un punto poco lontano. Abbaiava fitto ma festoso, ai cieli, al sole, saltando e dimenandosi. Ed egli andò in quella direzione, correndo.
«Vengo. Vengo.»
Ma la pietra la lasciò cadere, appena arrivato. Il volto di Rosario si era alzato radioso dinanzi ai suoi piedi dalla roccia che scendeva tra cielo e cielo. Insieme gli si era aperta dinanzi la città di Scicli, con le corone dei santuari sulle teste dei tre valloni, con le rampe dei tetti e delle gradinate lungo i fianchi delle alture, e con un gran nero di folla che brulicava entro a un polverone di sole giù nel fondo della sua piazza da cui parte e s’allarga verso occidente un ventaglio di pianura. Rosario era felice, indicandola al padre, come se avesse temuto di vederla svanire prima del suo arrivo. Che ora il padre fosse lì a guardarla lui pure sembrava gliela rendesse più reale, o comunque più durevole. Abbracciò il cane al collo, in un gesto di entusiasmo, e di nuovo indicò tutta la valle di case; poi i quartieri delle pendici ch’erano deserti e immobili nell’azzurro dell’ombra; poi la folla ch’era in fondo, immersa nel sole, e in essa indicò l’origine della musica che s’udiva vibrare ogni tanto, filtrata dalle diecimila stanze vuote e dalle gole d’organo della montagna.
«Ma che cos’è?» domandò. «È Gerusalemme?»
Aveva negli occhi punte aguzze di sole che gli impedivano di distinguere che faccia facesse suo padre. L’udì in ogni modo rispondergli: «Non so che città sia». Egli, con questo, non aveva detto che non poteva essere la Città per eccellenza: Gerusalemme o altro che si chiamasse. Sicché Rosario andò avanti a indicarne come conferme d’un prodigio anche i particolari più semplici: un aquilone color topazio che fluttuava fisso in un punto con una lunga coda inanellata; una gazza che si era posata sulla ringhiera di un balcone guardandosi nello specchio d’un vetro chiuso; la nera figura di una donna che accendeva il fuoco nel forno, su una specie di cortile o di pianerottolo…
La donna era l’unico essere umano che si scorgesse in tutto il quartiere della pendice dirimpetto. Soltanto lei e il fumo del suo forno si muovevano tra quei tetti, entrambi silenziosi allo stesso modo. Il fuoco era una tonda macchia rossa ora più vivida e ora meno vivida, e la donna lo alimentava di fascine o vi frugava dentro con un’asta senza che ne venisse alcun rumore. A volte la si vedeva anche sollevare una piastra da terra e tappare con essa la bocca del forno, o, viceversa, staccare la piastra dal forno e posarla in terra, sempre senza che ne venisse il minimo rumore. E a volte invece accadeva, pochi secondi dopo di averla vista spezzare un ramo contro la gamba, che giungesse il suono secco del legno spezzato, misteriosamente più forte del tremito di musica che sbarrava l’aria.
Rosario si girò verso il padre e gli sorrise, nell’indicare la donna. «La mamma» disse, col sorriso che gli si allargava sulla faccia.
«Certo ha fatto il pane» disse il padre «fino a due giorni prima che tu nascessi.»
«Faceva un buon pane?» Rosario disse. «Mi piacerebbe che non fosse morta e che ora lo stesse facendo per noi.» Ma egli desiderava, non rimpiangeva. E annusò nello spazio che lo divideva dalla donna e dal suo forno. «Non avresti potuto sposarti di nuovo?» chiese. «Dopotutto avrebbe fatto comodo anche a te di avere di nuovo una moglie…»
Egli fu quindi completamente assorto nella contemplazione del minuscolo nocciolo di vita ch’era la donna di là dal cristallo dello spazio. Essa aveva portato in casa il resto d’una fascina e, tornata fuori, se ne stava adesso accanto alla porta muovendo un braccio intorno al capo. Cos’era che combinava? Il ragazzo indovinò il suo viso, e indovinò la sua mano. «Vedi!» esclamò, con gli occhi che scintillavano. Disse trionfante che si ravviava i capelli entro al fazzoletto che glieli proteggeva. E precisò, al colmo del trionfo: «Se li liscia, sai!».
Il padre non trovava più nulla che gli potesse dire. Lo guardò un po’ perplesso come ogni tanto guardava i luoghi ch’erano in faccia e sotto a lui. E lo vide volgere altrove i suoi occhi di furetto.
Un clamore s’era alzato dalla città insieme a centinaia di gazze e di cornacchie che avevano lasciato di colpo le rocce sparse tra i tetti. O erano campanili ch’esse avevano lasciato? Certo nella musica ferma al centro del cielo sembrava che scalpitassero anche i metalli di uno scampanio. Le cornacchie andarono a posarsi, in turbini di foglie nere, sulle rocce che sovrastavano i quartieri delle pendici. Batuffoli di fumo galleggiavano in faccia a balconi zeppi di folla giù tra i luoghi da cui era cominciato il loro volo. Più avanti nella scia del loro percorso s’erano invece palesati zaffiri e ametiste di palloncini che sballottavano, e ancora aquiloni che si contorcevano qua e là, un secondo, un terzo, un quarto, un quinto, tutti con la coda inanellata come il topazio del primo, ripigliando tutti quota nell’aria sconvolta dalla raffica di tante ali. Ora le cornacchie strepitavano affacciate dai cornicioni di roccia. Erano giunte le detonazioni dei primi batuffoli di fumo, e le cornacchie strepitavano. Altre ne giungevano di altri, e le cornacchie strepitavano. Esplodevano gradinate, esplodevano cancellate, esplodevano e s’incendiavano schiere di palloni variopinti saliti a dondolarsi nel cielo, e le cornacchie erano sempre là sopra che strepitavano.
Infine accadde che esplosero le cinquantamila mani della folla di cui brulicava la piazza; allora lo strepito delle cornacchie fu anche di fanciulli, e di trombette e fischietti ch’essi suonavano; e Rosario poté distinguere, su ballatoi, o in cortili, o su pianerottoli di scale all’aperto, figure che sventolavano un fazzoletto salutando come da un treno, dove in gruppi e dove isolate. La donna del forno s’era tirato fuori dalla scollatura del vestito il fazzoletto col quale salutava. Essa si teneva sulla punta dei piedi al centro del suo cortile e salutava alle case più in alto e a quelle più in basso. «Come devono essere contenti in questa città!» esclamò Rosario.
III
Il padre allora si rialzò, calcandosi in testa il berretto dalla visiera mangiucchiata. Il suo sguardo passò sopra le pecore che aspettavano cento metri più indietro, coi musi posati sul collo l’una dell’altra. E il suo piede si avviò, ma diede di cozzo nella pietra ch’egli aveva portata fin là come un’arma e poi lasciata cadere.
Rosario continuava: «È la più bella città che abbiamo mai vista. Più di Piazza Armerina. Più di Caltagirone. Più di Ragusa, e più di Nicosia, e più di Enna…».
Il padre non lo negava. Egli considerava la pietra senza dir nulla, e Rosario poté soggiungere: «Forse è la più bella di tutte le città del mondo. E la gente è contenta nelle città che sono belle. Non ti ricordi che gente contenta c’era nelle belle città che abbiamo girate per la novena dell’altro Natale? E che gente contenta c’era a Caltagirone per lo scorso Carnevale? E che gente contenta c’era a Ragusa per i Morti dell’anno prima? E che gente contenta c’era per l’ultima Pasqua che abbiamo passata a Piazza Armerina?».
Il padre non negava niente di niente, era solo soprapensiero, sempre considerando la pietra ai suoi piedi, e Rosario non si fermò che un attimo, poi riprese: «E si capisce che sia contenta. Ha belle strade e belle piazze in cui passeggiare, ha magnifici abbeveratoi per abbeverarvi le bestie, ha belle case per tornarvi la sera, e ha tutto il resto che ha, ed è bella gente. Tu lo dici ogni volta che entriamo a Nicosia. Ma che bella gente! E lo stesso ogni volta che entriamo a Enna. Ma che bella gente! Lo stesso ogni volta che entriamo a Ragusa. Ma che bella gente! E se incontriamo un uomo vecchio tu dici ma che bel vecchio. Se incontriamo una donna giovane tu ti volti e dici ma che bella giovane. Vorresti negarlo? Tu dici che dev’essere per l’aria buona, ma più la città è bella e più la gente è bella come se l’aria vi fosse più buona…».
Il padre sorrise, di sotto ai pensieri che gli annuvolavano la fronte, e anche mormorò, tra quei suoi pensieri: «Può darsi». Il suo sguardo, tuttavia, non si staccava dalla pietra, e Rosario incalzò, a braccia spalancate: «Figurati in questa città che è la più bella del mondo la bella gente che vi deve abitare. I bei padri che qui devono avere tutti i figli. I bei nonni con barba bianca che devono avere. E le belle mamme che devono avere. Le sorelle. Le zie. Le cugine. Le mamme…».
La sua mano si mosse, certo a indicare la donna del forno. Ma, cercando il cortile dove l’aveva vista, egli trovò più in alto un terrazzino dove una seconda donna dondolava un ferro da stiro con dentro fuoco di carbone che sprizzava scintille a sciami, e allora indicò in lei e nei suoi movimenti giovani la stessa cosa che intendeva indicare nell’altra. Gridò: «Come lei che ha infornato il pane e che ora scalda il ferro per stirare e che…». Gridò con tutta la sua voce di ragazzo: «E che… E che…». E non seppe più finire, nello stupore del miracolo ch’era ai suoi occhi, così da lontano, una donna scoperta ad accendere il fuoco in un ferro da stiro tra il folto d’un bosco di case.
«Può darsi» ripeté il padre, senza che si fosse voltato.
Egli non vedeva Rosario indicargli la nuova Vestale con l’arco di scintille intorno alla sua figura nera, e fu inaspettatamente che lo sentì chiedergli: «Era bella la madre che ho avuta?».
Ma lo sentì, subito dopo, che se ne infischiava d’ogni risposta sua, e che gli importava unicamente di seguire il proprio filo, e svolgerlo. Lo sentì che diceva: «Io non vorrei esser nato da una donna brutta come sono le donne delle città brutte. Di Alimena, per esempio. Che schifo! O di Resuttano. Che schifo di schifo! O di Licata. Che schifo di schifo di schifo! Fortuna che mia madre era di Aidone, e che Aidone non è brutta. Ma vorrei che fosse stata di una città più bella, e per questo non mi dispiace troppo che sia morta, e che tu sia un vedovo che potrebbe sposarsi un’altra volta e farmi avere un’altra madre in una città come Nicosia o in una come Enna o come questa…».
Stavolta il padre non ripeté il suo «può darsi». Allungato lo sguardo di sopra alla spalla egli considerava la testa del ragazzo, enorme d’una nera massa di capelli come una nidiata nera. La considerò con la concentrata attenzione che aveva avuto fino a poco prima per la pietra. Con lo stesso annuvolamento di pensieri tutto in giro alla fronte. Quindi sollevò il bastone che ancora teneva stretto verso metà come quand’era accorso, armata di esso una mano e della pietra l’altra. Lo sollevò per fare che cosa? Non fece nulla. Lo riabbassò. Ma era certo per fare qualcosa che lo aveva sollevato.
«Non parli tu?» gli chiese il ragazzo, proprio mentre lui riabbassava il braccio.
La sua testa nera aveva avuto un piccolo scatto e mostrava il faccino radioso a scrutare il padre con aria che sembrava d’ironica provocazione, canzonatoria.
«Tutto quello che sai dire» gli gridò «è solo può darsi…»
E gli rifece il verso: «Può darsi… Può darsi…».
IV
Ma l’attimo successivo i suoi occhi ridevano di tenerezza. Il padre ricambiò, sebbene a fior di labbra, quel sorriso. Si udì insieme qualche belato, si udì il cane, si udì l’asino, si udì qualche scrollo di campano da pecora: tutto dell’antico mondo loro che metteva fuori il consenso del proprio suono; e Rosario saltò su, imbaldanzito, dall’orlo della sponda di roccia.
«Vero?» esclamò. «Non è vero? Non ho ragione? Non lo pensi tu pure?»
Aveva afferrato un braccio del padre, se lo passò intorno al collo, e se ne teneva la mano sul petto, un irsuto ciocco di mano, con tutte e dieci le sue dita gentili di ragazzo. «Nelle città brutte» continuò «la gente è anche cattiva. Abbiamo visto a Licata come ci guardavano male con quei ceffi che hanno sempre avvolti in uno sciallaccio nero e coperti di barba. E l’abbiamo visto ad Alimena. L’abbiamo visto a Resuttano. L’abbiamo visto nei paesi delle zolfare. La gente è disgraziata, nei posti così, non ha nulla di cui rallegrarsi, nulla mai che la faccia un po’ contenta, e allora è per forza cattiva. È brutta ed è cattiva, è sporca ed è cattiva, è malata ed è cattiva…»
Il padre torceva un po’ la mano come se volesse ritirarla, e il ragazzo gliela stringeva più forte. «Non dico giusto?» domandava. Ma non insisteva. Era troppo pieno di fervore per aver bisogno che il padre gli rispondesse. Alzava gli occhi a guardargli in faccia la ritrosia: o il timore che poteva essere, l’inquietudine che poteva essere; e passava sopra a tutto, sicuro di sé, con un nuovo galoppo di parole. Disse che la gente delle città belle era anche buona né più né meno come la gente delle città brutte era anche cattiva. Le città belle, cioè, avevano anche questo merito: di render la gente brava e buona. «No?» egli diceva. «Non ti pare?» diceva. Il padre non negava e non assentiva, e lui andava avanti a parlare, guardatolo un’altra volta, come se ne ricevesse delle risposte affermative. Più una città era bella, diceva, e più la gente vi aveva modo di esser buona. Vi aveva di che rallegrarsi di più ed era più buona. Vi aveva di che essere più contenta ed era più buona. O il padre non ne conveniva? Il padre non lo negava, e Rosario, lo guardava e riattaccava.
Egli disse infine della città che avevano sotto gli occhi. A giudicare da com’era bella bisognava che la gente vi fosse straordinaria. Egli lo scommetteva. E andò oltre ogni limite di quanto padre e figlio si fossero detto mai, per dire della vita straordinaria che vi si doveva vivere…
«Qui ciascuno dev’essere come se fosse un re o un barone. Con tutti che lo chiamano Vossignoria. Con nessuno che può dargli del tu e trattarlo male. Con nemmeno il maresciallo che lo possa sgridare e insultare. Con niente che sia costretto a fare o non fare per paura. Invitato alle feste di ogni casa. Accolto dovunque voglia entrare. Con ogni ragazza che lo può prendere per marito anche se è un povero capraio. E poi con un cavallo che può montare invece d’un asino o un mulo, proprio come un re che cavalca anche se è solo un contadino che si reca a zappare…»
Rosario non...
Indice dei contenuti
- Cover
- Frontespizio
- Copyright
- Prefazione - di Giuseppe Lupo
- Nota al testo - di Giuseppe Lupo
- Le città del mondo
- Capitoli non numerati
- Frammenti vari
- Indice