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La penisola dei privilegi
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Benefit di Stato
A ciascuno il suo tesoro
I 26 mila insegnanti di religione godono d’un trattamento retributivo di favore rispetto a chi insegna matematica o latino. E oltretutto vengono scelti dal vescovo, anziché dallo Stato (canone 805 del codice di diritto canonico). Ai servizi segreti viene riconosciuta un’«indennità di silenzio» in busta paga. Ai dipendenti della Siae invece tocca un’«indennità di penna», per compensarli dell’imposizione del computer al posto del vecchio calamaio. I 360 avvocati dello Stato incassano, oltre allo stipendio, una «propina»: in spagnolo significa «mancia», e la mancia nel 2011 valeva 55 milioni di euro. I sindacalisti, grazie a due leggi del 1974 e del 1996, sono esentati dai contributi pensionistici. In compenso i permessi sindacali sono costati 151 milioni nel corso del 2011: come se 4569 statali non lavorassero per un anno. E i sindacati non pagano l’Imu, come d’altronde la Chiesa cattolica e i partiti.
I tassisti si proteggono con il numero chiuso, al pari dei farmacisti, dei dentisti, dei notai (che oltretutto nel 2011 erano 4697, quando la loro pianta organica ne contemplava 5779). I ferrovieri hanno il treno gratis: per loro, per il coniuge, per i figli fino a 25 anni. Chi è impiegato all’Enel ha uno sconto sulla bolletta della luce. I commessi dell’Assemblea regionale siciliana intascano un assegno fisso da 700 euro per l’acquisto di calze e camicie. Militari e poliziotti fruiscono del libero accesso negli stadi. I giornalisti entrano nei musei senza pagare, come i dipendenti del Ministero. In più ottengono tariffe scontate se noleggiano un’auto alla Maggiore, se montano su un volo Alitalia, se acquistano libri Laterza, se aprono un conto corrente al Monte dei Paschi, se prendono una camera d’albergo nei circuiti convenzionati.
A Milano, in virtù di due ordinanze firmate dal sindaco Albertini nel 2000, le squadre di calcio hanno il pass per la corsia preferenziale (Inter batte Milan 12 a 8). A Bologna, per i dirigenti regionali un anno d’abbonamento al bus costa 50 euro invece di 300. Lo stesso sconto che la Provincia del capoluogo emiliano elargisce a tutti i suoi dipendenti (quasi 700), anche senza gradi e stellette sulle spalle. I loro colleghi di Trieste ottengono mutui a tasso zero (legge regionale n. 53 del 1981). Quelli di Palermo hanno diritto al contributo per le pompe funebri, a un sussidio extra per il matrimonio, alla colonia estiva per i figli, a un regalino per la festa della Befana (budget per il 2011: 582 mila euro). Senza dire dei benefit che toccano in sorte ai dipendenti delle assemblee parlamentari: quelli del Senato intascano pure la sedicesima, alla Camera uno stenografo può guadagnare più del capo dello Stato (259 mila euro lordi l’anno contro 239 mila). Senza aprire il capitolo delle pensioni d’oro, dove rimane ineguagliato il record di Felice Crosta, ex dirigente dell’Assemblea regionale siciliana: 1400 euro al giorno.
I magistrati s’accontentano di un sussidio da 52 euro per l’acquisto degli occhiali, o al massimo di 1033 euro (ma ne farebbero volentieri a meno) quando passano al Creatore. In compenso, finché sono vivi e vegeti, incassano 45 giorni di ferie, che in realtà diventano 51. Un po’ come i professori universitari, obbligati a 350 ore di didattica l’anno, o a 250 se professori a tempo definito (decreto presidenziale n. 382 del 1980). Praticamente un’ora al giorno, escluse le domeniche; per i docenti che non spendono energie sulla ricerca (ce n’è un buon numero, generalmente assiso sullo scranno di preside o rettore), una vacanza permanente. Sicché, per non girarsi i pollici, si dedicano a più laute attività professionali; e anche in questo la carriera universitaria riflette quella giudiziaria. O meglio riflette l’opportunità del doppio stipendio, che per i magistrati amministrativi significa in media 300 mila euro l’anno: metà te li paga la magistratura presso cui (in teoria) presti servizio, metà il ministero presso cui sei distaccato. E i «distaccati» sono poi sempre gli stessi, un circolo esclusivo e inamovibile di Grand Commis di Stato; il governo Monti, che giurò nel novembre 2011 con un programma all’insegna del rigore, ne aveva in seno 23.
E quel vecchio decreto del 1993, che stabilirebbe la rotazione nei ruoli apicali di governo? E i controlli interni dello stesso apparato giudiziario? Quanto alla giustizia amministrativa, l’autogoverno è garantito da un doppio Csm in miniatura, uno per i Tar, l’altro per i giudici contabili. Ma a leggere le cifre, la loro principale occupazione parrebbe quella d’accendere il verde del semaforo sugli incarichi esterni dei togati. Nel primo semestre 2010, 84 autorizzazioni da parte del Consiglio di presidenza della Corte dei conti; nel semestre successivo, 131 autorizzazioni dal Consiglio di presidenza della Giustizia amministrativa.
Insomma, a ricevere sono sempre in tanti, e ricevono in contanti. Da chi? In genere da amministrazioni pubbliche, ossia dagli stessi organi sui quali s’esercita il sindacato dei giudici amministrativi. Ma se è per questo, un quarto dei membri del Consiglio di Stato è di nomina governativa, benché questa magistratura costituisca il più alto grado di giudizio contro gli abusi del governo. Idem per la Corte dei conti: vigila sulle spese dell’esecutivo, però l’esecutivo nomina 39 consiglieri. Idem a Palermo (9 giudici del Consiglio di giustizia amministrativa vengono scelti dal presidente regionale), non meno che a Bolzano (il governo nomina 4 giudici del Tar, il consiglio provinciale gli altri 4). E i giudici comuni? 1423 incarichi extragiudiziali autorizzati dal Csm nell’arco del 2011. In passato c’era un tetto di 40 ore l’anno, ma nel 2010 una sentenza del Consiglio di Stato ne ha fatto carta straccia.
L’unica carta che i nostri più alti magistrati non strapperanno mai è quella delle banconote infilate nel proprio portafoglio. Intendiamoci: una retribuzione adeguata fa parte del decoro che s’accompagna alla funzione resa in nome dello Stato. Vale per i giudici, vale per i parlamentari. Tanto che l’indennità parlamentare è protetta dalla Costituzione italiana (art. 69), anche per evitare che l’accesso alle due Camere sia riservato – di fatto – solo ai ricchi, a chi possa permettersi di trascorrere un quinquennio senza lavorare. Mentre la Costituzione americana (art. III, sez. I) vieta di diminuire gli emolumenti del corpo giudiziario, per garantirne l’indipendenza dal governo, per scongiurare il rischio che quest’ultimo usi la leva finanziaria come arma di pressione o di ricatto.
C’è una misura, però, che andrebbe rispettata, specialmente adesso, specie durante una crisi economica impietosa, che morde alle caviglie gli italiani. Sta di fatto che in Italia l’indennità dei deputati tocca 11.283 euro al mese (cui s’aggiunge una diaria di 3500 euro), contro 7668 euro in Germania, 8500 nei Paesi Bassi, 7100 in Francia, e appena 2813 in Spagna. Lo ha appurato, nel gennaio 2012, la commissione Giovannini, incaricata dal governo di calcolare la media europea di queste retribuzioni, in vista d’un riallineamento: missione fallita, tre mesi dopo la commissione si è dimessa. Quanto alle magistrature superiori, la soglia massima coincide con il trattamento riservato al Primo presidente della Cassazione (305 mila euro l’anno). Ma i giudici costituzionali fruiscono d’una maggiorazione del 50%, e d’altronde alla Consulta il Segretario generale – vertice dell’apparato burocratico – ha emolumenti superiori a quelli del capo dello Stato (283 mila euro l’anno). Senza dire delle authority, che sono almeno una dozzina (dal Garante della privacy all’Antitrust, dalla Consob all’Agcom), e i cui membri intascano in media 300 mila euro l’anno.
Ai diplomatici toccano vari privilegi tributari. Non ne avrebbero granché bisogno, dato che il loro stipendio viaggia in alta quota: l’ambasciatore italiano a Berlino guadagna il doppio del Cancelliere tedesco (20 mila euro netti al mese). E le esenzioni fiscali s’estendono alla segreteria, ai parenti, perfino ai domestici dell’agente diplomatico. In più ogni ambasciatore ha l’affitto pagato dallo Stato, la macchina di servizio, un’indennità di prima sistemazione, il rimborso delle spese di trasloco. Nonché un doppio stipendio se risiede all’estero: trattamento di favore che s’estende a tutti i 4752 dipendenti di ruolo delle nostre ambasciate. Troppi? No, sono troppe le 325 sedi aperte dall’Italia fuori dai propri confini, più degli Stati Uniti (271) e della Russia (309), per la modica spesa di un miliardo e 700 milioni l’anno. Ma il denaro non è tutto. C’è per esempio l’immunità dalla giurisdizione, che diventa un terno al lotto per chi affitta casa a un diplomatico: se lui non paga il canone, è impossibile portarlo in tribunale. C’è un ventaglio di ulteriori privilegi, da quelli doganali al «diritto di cappella». E c’è poi la rete dei 90 Istituti italiani di cultura all’estero, dove ciascun direttore viene pagato come un manager, e dove la politica si è riservata 10 nomine al di fuori di ogni procedura concorsuale (legge n. 401 del 1990).
Se poi è la Banca d’Italia a pagarti lo stipendio, lavorando almeno 241 giorni l’anno ti metti in tasca un premio Stakanov. Certo, in passato andava pure meglio. C’era il caro-legna (un sussidio extra per il riscaldamento), l’affitto agevolato, l’indennità di gondola per gli autisti della sede di Venezia, quella di bilinguismo per i dipendenti di Aosta o di Bolzano. Neanche adesso, però, le vacche sono magre. Le retribuzioni restano il sogno proibito del travet, oltretutto distribuite a un esercito di 7226 dipendenti (al 31 dicembre 2010), quando l’Antitrust ne impiega meno di 300. Quelle dei cinque vertici (il governatore, il direttore generale e i tre vice), pur dopo la sforbiciata del 10% decisa dal governo Monti nel 2011 per tutte le alte cariche, sommano 2 milioni e 700 mila euro. Agli altri tocca, per esempio, un contributo per i corsi di danza o di judo. L’indennità di trasferta per chi lavora a Roma Vermicino. Il buono-sarto semestrale (8500 euro ai funzionari generali), per coprire le spese di rappresentanza. Infine una garanzia di nepotismo, benedetto con tutti i crismi del diritto. L’art. 15 del regolamento del personale della Banca d’Italia riserva infatti un posto al sole per figliolanza e vedove degli ex dipendenti; ne sono testimonianza il concorso bandito nel 2006 per 15 assistenti e quello del 2008 per 10 viceassistenti.
Figli e figliastri
Ma nel mondo bancario questa è la regola, non l’eccezione. Si chiama job property, proprietà del posto di lavoro, che perciò rientra a pieno titolo nell’asse ereditario. Ultimo, o forse penultimo caso della serie: l’accordo fra Unicredit e i sindacati dell’ottobre 2010. Ma la serie è più lunga di un lenzuolo. Nello stesso anno due grandi banche del mondo cooperativo (Bcc di Roma e Popolare di Milano) si impegnano ad assumere non soltanto il figlio, ma anche il nipote, il cugino, il fratello dell’ex dipendente; basta che lui anticipi l’età della pensione. Nel 2009 il Monte dei Paschi delibera «100 nuove assunzioni tramite scorrimento delle graduatorie di figli di dipendenti di Siena (80) e Grosseto (20)». Nel 2006 Intesa San Paolo distribuisce 213 posti per gli eredi, su un totale di 390 nuovi assunti. E così via: i sindacati di settore calcolano che almeno il 20% del turnover nelle banche si svolge con una staffetta tra padri e figli.
Tutto sommato non è nemmeno troppo, quando in Italia il 44% degli architetti ha il papà architetto, il 42% degli avvocati è figlio d’avvocati, il 39% degli ingegneri genera figli ingegneri, così come il 39% dei padri medici (X Rapporto Almalaurea, febbraio 2008). Quando tra i commercialisti il familismo è più che doppio rispetto ad altre categorie professionali, specie nelle province dove si registra un’alta evasione fiscale (Fondazione Rodolfo Debenedetti, luglio 2011). O quando l’eredità del posto di lavoro viene sancita dalla Gazzetta ufficiale, come succede ai farmacisti. Difatti la legge n. 362 del 1991 ha inventato la figura del farmacista mortis causa, assegnando al coniuge o all’erede, anche se privo delle qualifiche richieste, il diritto di gestione del negozio fino al compimento dei 30 anni, o altrimenti per un periodo di 10 anni se si fosse iscritto a una facoltà di Farmacia. Nel 2006 un’altra legge ha poi temperato questa regola, ma senza reciderla del tutto.
D’altronde nella patria del diritto le leggi non scritte valgono assai più di quelle scritte. È il caso della regola che fin qui ha allevato generazioni di notai, benché il sigillo notarile spetti soltanto a chi supera un concorso particolarmente impegnativo. Sta di fatto, però, che nel marzo 2007 il presidente del Consiglio nazionale del notariato (Paolo Piccoli), durante un’audizione alla Camera, ha dichiarato che il 17,5% dei notai italiani è figlio di notai. Dunque un posto su 6 messo a concorso resta in famiglia, è riservato a chi nasce con il gene notarile. E i geni non si mescolano, ne andrebbe di mezzo la purezza della specie. Nel 2011 l’Ocse ci ha raccontato come in Italia il matrimonio sia ormai un fattore di polarizzazione del reddito: i prof sposano prof, i commercianti scambiano l’anello nuziale con altri commercianti, al massimo una colf potrà sposare un giardiniere.
Da qui il primo effetto di questa colata di cemento: se ogni categoria si chiude a riccio, se difende a denti stretti i propri privilegi, non c’è affatto da sorprendersi quando il 53% degli italiani rimane intrappolato nel suo ceto d’origine (Censis 2006, Banca d’Italia 2008, Italia futura 2009). In breve, significa che 7 figli d’operai su 10 continueranno a fare gli operai. Che arrivano alla laurea solo i figli dei laureati (da noi l’eccezione è il 10%, mentre in Gran Bretagna misura il 40%). Che il miglior ufficio di collocamento rimane la famiglia (quanto a mobilità sociale, siamo penultimi in Europa). Che in Italia la probabilità di schiodarsi dalla classe di reddito dei propri genitori è 3 volte più bassa rispetto agli Stati Uniti. Che per un impiegato la possibilità di diventare dirigente è del 21,9%, contro il 40,1% della Svezia. E che le élite sono pietrificate, senza ricambio, oltre che senza un’idea per il futuro. Difficile pretenderla, quando all’interno della nostra classe dirigente coloro che non hanno compiuto 35 anni sono appena il 3%, o quando fra politici e sindacalisti gli ultrasettantenni toccano il 60%, contro il 4,3% della penisola iberica (Rapporto Luiss 2008).
Eccolo insomma il prezzo che paghiamo: un sistema bloccato, dove l’ascensore sociale è sempre fermo al piano. Dunque un sistema ingiusto, oltre che inefficiente: e infatti lungo il decennio 2001-2010 l’Italia ha realizzato la crescita più bassa di tutta l’Unione europea (Istat 2011). Da qui una crisi di fiducia verso le istituzioni, verso le autorità che governano il Paese. Da qui, in secondo luogo, una crisi di legalità. Perché se il gioco è truccato finisci anche tu per adeguarti, e allora t’arrangi, corri fuori dalle regole. E d’altronde come potremmo mai prendere sul serio Sua Maestà la Legge, quando secondo il Global Competitiveness Index 2006-2007 l’Italia è terz’ultima (su 117 Paesi) circa l’acquiescenza del suo sistema fiscale verso il privilegio? O quando la stessa fonte ci situa al 91° posto (su 134 Paesi) per l’inclinazione al favoritismo nelle decisioni di governo?
Questa fabbrica di privilegi ha un costo economico, oltre che un costo etico. Anzi: la paghiamo due volte. Perché genera un sistema improduttivo, dove i salari perdono valore per effetto della recessione. E perché alleva una fiscalità rapace, dato che i favori alle corporazioni costano, e costano all’erario. Dunque a noi tutti, anche se magari non ci facciamo troppo caso. A meno che non si tratti di sussidi privati, finanziati dalla stessa categoria che poi li elargisce ai soci. Succede per esempio ai notai, la cui Cassa garantisce un «assegno di integrazione» (25 mila euro l’anno) per chi non raggiunga un certo fatturato. Fatti loro, vuol dire che possono permetterselo. La Goldman Sachs, del resto, si permette anche di più: dal 2008 dispensa il cambio di sesso gratis per i propri dipendenti (costo dell’intervento chirurgico: 150 mila dollari). Ma sono viceversa benefit di Stato, quelli elencati un po’ a casaccio in questo capitoletto. Li paghiamo con le tasse. E c’è quasi sempre una legge che li somministra. Ah, la legge. Nella sua solenne equità proibisce al ricco come al povero di dormire sotto i ponti, diceva Anatole France. Ma nell’Italia delle corporazioni è caduta anche l’ipocrisia dell’eguaglianza: ogni casta ha la sua legge, ognuna ha in appalto un ponte sotto cui riposare.
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Privilegi corporativi
Quando manca la regola
I favori di Stato alle corporazioni non si misurano con il solo metro dei quattrini. Conta altrettanto l’abito normativo cucito addosso ai diversi egoismi collettivi: una somma di poteri e competenze, o meglio di prepotenze santificate dal diritto. Non sempre, tuttavia, la prepotenza è figlia della legge. Qualche volta alligna nel vuoto legislativo, nel Far West dove l’unica legge è quella del più forte. Succede per le due corporazioni più potenti del sistema politico italiano: partiti e sindacati. E in entrambi i casi l’assenza di regole esprime al contempo un tradimento della Carta costituzionale. Rispetto ai primi, risuona ancora la domanda che Piero Calamandrei sollevò in Assemblea costituente: come può respirare una democrazia, se i suoi attori principali non sono a loro volta democratici? Ecco perché – aggiunse Costantino Mortati – una legge sui partiti sarebbe stata «consona a tutto lo spirito della Costituzione». Per costringerli a osservare il «metodo democratico» di cui parla l’art. 49 della Carta, traducendolo in una griglia di diritti e di doveri. E perché, in sua assenza, i partiti fanno un po’ come gli pare.
Le prove? Basta rievocare il battesimo dei due principali protagonisti sulla scena politica italiana, Pdl e Pd. Il primo, sorto nel 2008 dalla fusione di Alleanza nazionale e Forza Italia, ne ha violato in un colpo solo entrambi gli statuti. Lo scioglimento di An venne deliberato infatti dall’assemblea nazionale anziché dal congresso; quello di Forza Italia fu deciso in solitudine dal suo presidente, arrampicato sul predellino di una Mercedes davanti alla folla di San Babila. Dopo di che i due gruppi dirigenti firmarono accordi segreti alla presenza d’un notaio: 70% dei posti (e dei soldi) a Forza Italia, 30% per gli orfani di An. Quanto al Partito democratico, venne al mondo nel 2007 dal ventre di un’assemblea elettiva (2858 delegati). Tuttavia, quando nel giugno 2008 questo pletorico organismo si riunì di nuovo per modificare lo statuto, l’80% dei suoi membri lasciò la sedia vuota. Riunione invalida, per difetto del numero legale. Ma l’assemblea cambiò ugualmente lo statuto, mentre i probiviri cestinarono senza troppi complimenti il ricorso di Mario Lettieri, giacché per i partiti ogni appello alle regole del codice civile si tradurrebbe in «un’interferenza esterna».
E i sindacati? In questo caso la legge viene prescritta nero su bianco dalla Costituzione: art. 39. Devono dotarsi infatti di «un ordinamento interno a base democratica», altrimenti i contratti collettivi di lavoro non possono spiegare effetti vincolanti. Ma la legge sulla democrazia sindacale non è mai uscita dal libro dei desideri dei costituenti, perché i sindacati si sono sempre ribellati all’idea che qualcuno ficchi il naso in casa loro. Ciò nonostante, ai contratti collettivi viene riconosciuta ormai da tempo efficacia obbligatoria, con l’avallo della giurisprudenza. Una frode alla Costituzione.
È in questo vuoto che prospera il potere delle oligarchie, mentre gli iscritti ai partiti e ai sindacati sono senza voce. L’esperienza, d’altronde, è fin troppo eloquente: votazioni truccate, espulsioni contrarie allo statuto, congressi fantasma, iscrizioni fittizie. Non a caso il primo progetto di legge sui partiti fu depositato da don Sturzo nella II legislatura. Ma non è nemmeno un caso che nessun progetto sia mai giunto in porto: quando i riformatori coincidono con i riformati, ogni riforma naviga sempre in alto mare. Quantomeno in Italia, dato che una legge sui partiti esiste in Germania (Parteiengesetz) come in Spagna (Ley Orgánica 6/2002, in riforma della preesistente normativa del 1978), oltre che in vari Stati occidentali. Con quali conseguenze? Che i partiti si presentano come associazioni non riconosciute, al pari d’un circolo di caccia. Non v’è dunque alcuna garanzia sulla democraticità della loro vita associativa, né sulle vicende che incidono sulla costituzione, sull’organizzazione, sull’estinzione di ogni forza politica. Le uniche leggi che i partiti hanno accettato a caratteri di piombo sono quelle sul proprio finanziamento. A spese dello Stato, naturalmente. E per un costo complessivo di 2 miliardi e 200 milioni dal 1994 al 2011. Ossia da quando la vecchia legge sul finanziamento pubblico, abrogata dal 90% dei votanti in un referendum del 1993, nello stesso anno venne riesumata sotto falso nome («rimborsi elettorali»).
Questa nuova legge è stata modificata nel 1997, nel 1999, nel 2002, facendo lievitare del 968% la misura dei contributi pubblici, e premiando per giunta anche i partiti che avessero ottenuto l’1% alle elezioni (prima occorreva il 4%). Sicché in passato ne hanno tratto beneficio liste esoteriche come Ual, Patt, Ppst, Fortza Paris. Senza contare una varietà di benefit fiscali, o i contributi ai giornali di partito. Ammontavano a 28 milioni di euro nel 1980; hanno superato i 600 milioni nel 2007. E senza contare infine le donazioni private, anche perché è impossibile contarle: un’altra leggina del 2006 (la n. 51) ha elevato da 6 a 50 mila euro la soglia al di sotto della quale i contributi non vanno denunciati. E infatti nel 2008 la Federfarma, per bocca del suo rappresentante Giorgio Siri, ha ammesso d’elargire 250 mila euro l’anno a parlamentari di destra e di sinistra, ma in tagli fino a 15 mila euro, e dunque senza mai sforare il tetto che renderebbe trasparente il contributo.
Ecco, le lobby. C’è almeno un attributo che le accomuna ai partiti e ai sindacati: viaggiano a fari spenti, nella notte delle regole. Anche per loro, niente legge. O al più qualche leggina, qualche disposizione introdotta alla rinfusa dentro un provvedimento omnibus, per inserire in q...