INTRODUZIONE
Stefano Carrai
Se Dante non avesse scritto, negli anni della maturità, quello straordinario poema che è la Commedia, sarebbe rimasto comunque nella storia della letteratura italiana ed europea grazie al capolavoro della sua giovinezza, la Vita nova. Il libriccino, assemblato in epoca imprecisata, ma probabilmente fra il 1293 e il 1295, è la storia dell’amore per Beatrice: dall’infanzia fino a poco dopo la morte di lei, cioè dal 1274 fino al 1292 circa. Il racconto è scandito dall’alternanza fra i brani prosastici, che sospingono avanti la narrazione, incaricandosi di colmare i vuoti tra una poesia e l’altra, e le soste liriche, determinate dall’inserzione delle singole rime. A queste ultime si aggiungono poi le divisioni, ovvero le scomposizioni delle poesie nelle loro sezioni tematiche, a scopo esplicativo. Per questo Gianfranco Folena poté parlare di «un testo unico ma costituito di tre testi: le poesie originali, le loro occasioni narrative, o provenzalmente ragioni, e le loro divisioni».1
In breve, si tratta della storia di una penosa malattia d’amore risoltasi nell’acquisizione di una nuova consapevolezza di sé e della natura del proprio sentimento: dall’innamoramento alla finzione da parte di Dante di amare donne diverse, per proteggere il suo vero amore dalle maldicenze; poi Beatrice che si sdegna, perché le ostentate attenzioni rischiano di compromettere una di queste donne schermo, e nega a Dante quel saluto che era per lui fonte di felicità; le altre donne che, accortesi della sua infatuazione e del suo dolore, lo scherniscono; l’enunciazione di una nuova filosofia dell’amore, che si appaga tutto nell’elogio dell’amata; infine la morte di Beatrice, preceduta da quella di suo padre e, dopo il momentaneo turbamento provocato in Dante dall’interesse per una nuova donna, il definitivo ritorno alla contemplazione di Beatrice assunta in Paradiso. La trama, pur esile, dà rappresentazione a un’esperienza erotica che si propone al tempo stesso come una maturazione spirituale. Ma il testo è anche il resoconto idealizzato di una evoluzione poetica, dalle prime prove fino alla scoperta di una nuova concezione di poesia.
Nell’ultimo quarto del Duecento, ai lirici in volgare si era imposto il problema di coniugare l’esperienza della lirica d’amore con la fede cristiana. La spiritualizzazione dell’amore profano in poesia era stata avviata da Guittone d’Arezzo. La generazione di rimatori che, come Dante, si affacciavano alla scena poetica della Toscana negli anni Ottanta era ormai pronta al superamento della mentalità sensuale per cui scopo dell’amante era il piacere carnale: ossia un peccato capitale, se al di fuori dell’amore coniugale. Nella Vita nova, ponendo al culmine del suo percorso poetico lo stile della lode, Dante si avvale tempestivamente della nuova poetica di Guinizzelli, rimuovendo anche concettualmente l’ostacolo che si frapponeva tra il poeta e il suo canto d’amore. La nozione di «dolce stil novo» risale a un passo famoso del XXIV canto del Purgatorio, in cui Dante, immaginando di incontrare l’anima di Bonagiunta Orbicciani, si fa chiedere se chi gli sta davanti è veramente colui che ha inventato la nuova maniera di fare poesia con la canzone Donne, ch’avete intelletto d’amore. E non a caso la canzone citata è proprio quella centrale della Vita nova, nella quale Dante aveva dichiarato per la prima volta il proprio sentimento nobilmente disinteressato. Per i trovatori provenzali e per i rimatori siciliani vigeva un concetto quasi feudale dell’amore, finalizzato a soddisfare il desiderio sessuale, sulla base dell’analogia fra il servizio amoroso prestato dall’amante verso la donna corteggiata e il servizio prestato dal vassallo al suo signore, sicché, come il signore era tenuto a ricompensare il vassallo, anche la donna era moralmente obbligata a ricambiare l’innamorato. L’invenzione dello stile della lode, poi detto stile nuovo per antonomasia, rappresentò quindi una novità soprattutto nei contenuti, che ebbero una inevitabile ricaduta sulle scelte poetiche, improntate a una particolare levità e dolcezza. In quello che è uno dei suoi snodi principali, il racconto della Vita nova enuncia dunque, in maniera esplicita, i fondamenti teorici dello stilnovo.
Questa concezione del rapporto amoroso, ispirata al principio della nobiltà del cuore, si cala peraltro in un clima socialmente nuovo e favorevole ad accoglierla. Negli anni in cui Dante concepisce e monta il suo primo libro, a Firenze sono in atto trasformazioni importanti anche sul piano della vita civile. Nel 1293 Giano Della Bella ha promulgato i suoi Ordinamenti di giustizia, che escludono il ceto magnatizio dalla gestione del Comune e aprono l’ingresso, invece, a coloro che sono iscritti a una delle corporazioni artigiane: le cosiddette Arti. Due anni dopo, gli Ordinamenti vengono confermati nella sostanza, ma rivisti e corretti, fra l’altro riammettendo la possibilità per i magnati di essere eletti negli organi di governo, purché si iscrivano a un’Arte. All’incirca negli stessi mesi in cui pubblica la Vita nova, Dante coglie al volo l’occasione, registrandosi all’Arte dei medici e degli speziali, e inizia un’attività politica che lo porterà all’assunzione di vari incarichi, prima di subire la condanna all’esilio.
Beninteso nel libello, come ha scritto Erich Auerbach, «gli avvenimenti che si succedono, gli incontri, i viaggi, i discorsi possono non aver avuto luogo nel modo che vi si dice, e non consentono neppure conclusioni che possano essere messe a profitto per la biografia».2 A qualcosa del genere pensava anche Étienne Gilson, quando scriveva: «Autobiografia poetica, la Vita nova può permettersi accorciamenti o dilatazioni di prospettiva secondo il gusto del poeta».3 E Maria Corti ha accennato, sia pure un po’ fugacemente, al tema del rapporto fra memoria e vita vissuta nella Vita nova, avvertendo che «il libello non è trascritto da un’autentica memoria esistenziale, ma da una memoria che si innesta sulla immaginazione e sulla poetica dell’autore».4 Più di recente, ha sollevato la questione in termini espliciti Sergio Cristaldi, scrivendo: «Si deve sospettare che una segreta regia manipoli e sofistichi il ricordo, di legittima proprietà del personaggio dunque, molto meno dell’autore».5
In effetti, Dante ha inanellato una serie di tópoi lirici come veri e propri episodi di un romanzo,6 seguendo una strategia volta a reinquadrare anche i riflessi autobiografici entro una cornice tanto esemplare quanto fittizia. Non che non ci siano agganci biografici e realistici, ovviamente, come quello della morte del padre di Beatrice, anteriore di poco a quella di lei; ma sono ridotti al minimo indispensabile, proprio perché devono rientrare in un disegno di esemplarità, programmaticamente idealizzante e modellizzante. Lo schema narrativo della Vita nova è caratterizzato, per giunta, da accorgimenti sottili, da narratore avveduto, che meritano di essere messi nel giusto rilievo. Si pensi a un episodio che sembrerebbe, a prima vista, estravagante rispetto alla vicenda narrata: mi riferisco alla morte, cui Dante dà spazio poco dopo l’inizio del libro, di una non meglio precisata amica di Beatrice. L’avvenimento, privo di addentellati effettivi con il racconto amoroso, costituisce una sorta di parentesi, collocata dopo la partenza della prima donna schermo. Potrà anche essere stato un banale pretesto per includere i due sonetti funebri relativi (o presentati come tali), ma più che altro serve, da un punto di vista propriamente narratologico, a distanziare l’assunzione della prima donna schermo da quella della seconda, e insieme a introdurre subito nella storia il tema della morte, gettando così un ponte verso gli eventi luttuosi che campeggiano nella parte centrale.
Il lungo tratto che sta fra la visione del cuore mangiato e l’episodio del gabbo, inoltre, ha quasi l’aria di un innesco lento, come se Dante avesse pensato di ritardare adeguatamente l’arrivo al picco costituito dalla scoperta dello stile della lode, sì da non scalarlo subito dopo l’inizio del libro, ma un po’ più in là, e conferirgli, nella strategia del racconto, la giusta enfasi. Quale altra valenza poteva avere, per esempio, la reduplicazione dell’episodio della donna schermo? A Dante sarebbe bastato scegliere una sola donna schermo per connotarsi come il perfetto amante secondo il precetto del «soi celer», codificato da Guillaume de Lorris (Roman de la Rose, 2372-78), ovvero per la preoccupazione di mantenere segreto il vero amore per Beatrice sì d...