Pianeta terra ultimo atto
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Pianeta terra ultimo atto

Perché sarano gli uomini a distruggere il mondo

  1. 170 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Pianeta terra ultimo atto

Perché sarano gli uomini a distruggere il mondo

Informazioni su questo libro

Anno 2019. La tempesta sismica iniziata a Sumatra nel 2004 ha già distrutto Catania, Los Angeles, Istanbul, Osaka, uccidendo milioni di persone. Nel 2016 il supervulcano di Yellowstone è esploso, ricoprendo di cenere gli Stati Uniti. I ghiacci polari sono spariti, il livello del mare si è alzato e Venezia, New York, Londra sono state sommerse. Il clima è impazzito, con estati bollenti e picchi di gelo invernale, e tempeste, uragani e alluvioni. I nove miliardi di uomini hanno sempre più fame, le terre da coltivare non bastano e molto di quanto producono ingrassa animali che diventeranno bistecche. In mare nuotano solo meduse. L'acqua è diventata una merce e per controllarla si combattono guerre feroci. Il petrolio è finito, e le energie alternative non sono sufficienti. Quando esplode il reattore nucleare di Osaka, e dopo qualche mese altre centrali in Slovenia e Slovacchia, si innesca una reazione a catena che porta al blakout planetario e alla contaminazione radioattiva totale. Gli uomini, fiaccati e impreparati, non ce la fanno. Ne sopravvive uno solo, che chiuso in un rifugio racconta come tutto questo sia stato possibile. Uno scenario fantascientifico? Tutt'altro, ci spiega Mario Tozzi. È solo la proiezione immaginifica di quanto la scienza ci prospetta come il nostro futuro. Ma noi preferiamo ignorarlo, senza modificare il nostro stile di vita. Divoriamo, sporchiamo, devastiamo e ci illudiamo che alla fine sarà la tecnologia a salvarci. Il pianeta è stanco di noi ma non sarà a causa sua che spariremo. Se continuiamo così, ad annientarci ce la faremo benissimo da soli.

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2012
Print ISBN
9788817062022
eBook ISBN
9788858639184

1

L’innesco

Report 1

Scrivo dal mio rifugio sotterraneo. Ci sono entrato circa sei mesi fa, quando il livello di radioattività si è fatto rischioso. Ho rimosso gli arbusti che ne occultavano l’ingresso e sceso la rampa di scale, inoltrandomi in un corridoio che come in una tomba a thòlos conduce al portone di cemento armato a doppia chiusura stagna, a circa cinque metri sottoterra. Sono entrato rapidamente, richiudendolo subito con le due grandi maniglie. Lo stesso ho fatto con il secondo portone di cemento armato: finalmente mi sentivo al sicuro.
Mi sono liberato dei vestiti e mi sono infilato sotto la doccia, insaponandomi meticolosamente per rimuovere dal corpo eventuali scorie radioattive. Solo a questo punto ho potuto superare il terzo portone a chiusura stagna e guadagnare il cuore del rifugio. Il guscio è interamente in cemento armato e il rosa di cui è dipinto aiuta ad alleggerire il grigio opprimente del calcestruzzo. Questo buco potrebbe ospitare, in autonomia completa, fino a 12 persone per tre mesi. Io ero solo, quindi avrei potuto resistere almeno per un anno, ma contavo di fare di meglio.
Ho controllato il sifone che purifica l’aria in entrata dall’esterno: al momento non avrei potuto utilizzarlo, visto il livello di radiazioni, così ho attivato il sistema di ricircolo interno. È solo da poco che mi è stato possibile riaprire quel canale e respirare aria proveniente da fuori, purificata dai catalizzatori al platino. Le bombole di ossigeno per arricchire la miscela, comunque, erano numerose e ben cariche. Potevo resistere.
La cisterna dell’acqua era piena, e virtualmente avrei potuto depurarla più volte, ma contavo che dopo un anno mi sarebbe stato possibile attingere alle riserve nei dintorni. Inoltre avevo a disposizione almeno 200 casse di acqua in bottiglia. Per le prime settimane ho consumato con parsimonia le riserve di cibo liofilizzato e in scatola. Solo dopo, quando il livello di radioattività si è abbassato, sono potuto uscire in cerca di cibo fresco. In quel momento mi sono accorto di quanto fosse cambiato l’ambiente attorno a me. Un’esplosione rigogliosa di vita selvaggia stava avvolgendo ogni precedente opera dell’uomo: ma che specie di viventi avevo di fronte? Frutta e verdura di fogge e colori improbabili, gatti, cani e uccelli mostruosamente deformi. Tutta la vita intorno era riesplosa, ma era una vita diversa. Una vita che incuteva spavento.
Da allora mi nutro di vegetali e frutta mutati geneticamente. Prima di raccoglierli ne misuro il grado di radioattività con un contatore geiger, ma non posso fare troppo lo schizzinoso se voglio sopravvivere.

Non ricevo segnali dai miei simili ormai da tempo. Sono stato in contatto, all’inizio, con gruppi di sopravviventi che come me avevano trovato scampo in rifugi. La rete telematica è stata l’infrastruttura a resistere meglio in questo disastro. È incredibile quanti sistemi di webcam in tempo reale fossero attivi sul pianeta: praticamente ogni luogo notevole da un punto di vista naturalistico era tenuto sotto controllo video 24 ore su 24. Inoltre i satelliti geostazionari hanno continuato a funzionare e a riversare dallo spazio le loro immagini della Terra direttamente nel web mondiale: attraverso Google Earth nessun angolo del pianeta era sottratto all’osservazione diretta. Per non parlare delle videocamere fisse nelle grandi città e attorno ai monumenti. E per finire con il sistema di videocamere prossimali di pertinenza di questo rifugio, collegate a un sistema a circuito chiuso. Con gli altri pochi fortunati, ci siamo scambiati mail condividendo esperienze e dandoci consigli: gli umani in pericolo diventano sempre solidali. Ora però non ricevo più notizie.

Se i miei conti sono corretti, oggi è il 16 giugno dell’anno 2019 dell’era moderna. E l’era dell’Antropocene si è ufficialmente conclusa.
Lascio questi appunti ai discendenti di eventuali sopravvissuti o a chi prenderà il posto degli uomini. Sperando che possano servire da monito.
Perché quella che intendo raccontare è la fine del mondo. O, almeno, del mondo come noi lo conoscevamo.
Fine che non è arrivata all’improvviso, ma si è fatta preannunciare da segnali talmente evidenti che solo degli idioti potevano non vederli. O dei malati. Ecco, forse questa è la spiegazione più convincente: eravamo a tal punto resi insani dalla smania di possesso che non ci siamo saputi moderare neanche quando gli avvertimenti erano diventati allarmanti.
Ora il mondo è molto diverso.
È un mondo forse senza gli uomini.
O, meglio, abitato da un solo uomo.
Da me.

L’inizio della fine

Yellowstone esplose una mattina di aprile del 2016. Quasi nessuno pensava sarebbe accaduto. Non così presto, almeno.
I soffioni caldi e i geyser non erano solo bizzarrie naturali che tanto dilettavano i visitatori del parco. Erano manifestazioni vitali di quanto si celava sotto la superficie: un supervulcano con un livello di attività estremamente elevato. I supervulcani colpivano con regolarità, almeno uno ogni 50.000 anni, la metà del tempo medio in cui colpisce un asteroide. Non assomigliano ai vulcani tradizionali, non sono neppure montagne, tantomeno a forma di cono. Si tratta piuttosto di grossi «pentoloni» pieni di magma ribollente, e le loro eruzioni non solo sono difficilissime da prevedere, ma hanno ripercussioni a livello planetario. Come tutti i supervulcani, anche Yellowstone era soggetto a una ciclicità, calcolata dagli esperti in circa 600.000 anni. L’ultima grande eruzione era avvenuta 640.000 anni prima e per tutto quel tempo il cuore bollente del vulcano aveva continuato a battere, un cuore magmatico smisurato ad appena 8000 metri di profondità. Il gigante era vivo e si sarebbe risvegliato, anche se non tanto presto. Le previsioni, però, non sempre ci prendono.

Tutto cominciò con un tremore improvviso, che fece sussultare per giorni l’intera catena delle Montagne Rocciose. Da Denver a Salt Lake City e poi verso nord, fino oltre il confine con il Canada, e poi a Ovest, in California, e a Est, fino ai grandi laghi e a Chicago: un pezzo degli Stati Uniti grande come mezza Europa divenne di colpo la regione più geologicamente attiva del pianeta. Tonfi e colpi dall’interno della Terra cominciarono a rompere il silenzio nelle selvagge vallate in prossimità del parco. Inquieti, gli orsi e gli altri animali presero a girovagare fuori dei loro abituali percorsi. A Cody non si poteva più uscire di casa per il pericolo; lungo la strada statale 15, che da Salt Lake City si spinge verso nord, gli automobilisti dovevano prestare attenzione a non investirli.
Andò avanti così per giorni. Poi dall’altopiano di Yellowstone si sprigionò una nube bianca a forma di cavolfiore, che superò i 50 chilometri di altezza raggiungendo un’estensione inaudita. Era semplice vapore d’acqua, ma presto le sue volute vennero avvolte da pennacchi di nubi nere gonfie di ceneri, al cui interno si scatenavano tempeste di fulmini e lampi.
Ormai era chiaro che qualcosa di imponente stava per accadere.
I terremoti incrementarono di numero, frequenza e magnitudo. Non era solo la terra a muoversi sotto i piedi, anche l’aria tremava, con vibrazioni che la attraversavano per centinaia di chilometri: una sensazione inconsueta, ma comune in caso di eruzioni, spiegavano gli esperti alla gente in preda al panico e costretta a evacuare. Perché ormai si sapeva, era solo questione di tempo: il gigante si era ridestato dal sonno e stava per fare sentire la sua voce. Tra colpi e tonfi sempre più cupi e terrifici, fratture gigantesche cominciarono a fendere il terreno: spaccature lunghe chilometri arrivavano a sfregiare la catena montuosa del Grand Teton, a sud, e sconvolsero Lake Village, Canyon Village e i piccoli centri attorno al parco. Gli ultimi abitanti non ancora evacuati si misero in fuga appena prima che il campo di fratturazione del terreno stravolgesse per sempre la morfologia del luogo in cui erano nati, e che tutta la regione iniziasse a sollevarsi sensibilmente. Ma non di 2-8 centimetri all’anno, come aveva fatto fino ad allora, bensì di un paio di metri a settimana. Come un gigantesco tumore, il pennacchio caldo al di sotto di Yellowstone fece lievitare la crosta terrestre in un raggio di centinaia di chilometri.
All’improvviso la nube, in cui il nero aveva fagocitato le ultime tracce di bianco, collassò e si sparse tutto attorno rovinando sulla regione. Muovendosi a centinaia di chilometri all’ora, flussi bollenti a temperature di oltre 500 gradi si insinuarono devastanti nelle valli e spianarono le colline precipitando dai 2400 metri di altezza media dell’altopiano di Yellowstone. Una specie di aerosol rovente e carico di ceneri, lapilli e blocchi rocciosi ancora semifusi si precipitò sul terreno come una valanga ardente cancellando ogni forma di vita. Le ceneri più leggere si dispersero nell’atmosfera cominciando a precipitare sui tetti delle città vicine e poi di quelle più lontane, come Chicago e San Francisco.
Poi l’eruzione si interruppe. Le settimane successive passarono senza che il gigante desse segno di sé, e a poco a poco l’inquietudine andò scemando, tanto che si pensava che l’allarme sarebbe presto rientrato. Allo scadere del terzo mese dai primi eventi, però, si capì che non sarebbe stato così.
Migliaia di nuove fumarole si spalancarono su aree vastissime sputando fuori gas e vapore roventi. La colonna di nubi eruttive, ora alimentata da quantità impressionanti di materiali, arrivò a superare l’incredibile altezza di 100 chilometri. La coltre di ceneri nell’atmosfera si fece sempre più densa, oscurando minacciosamente l’azzurro del cielo e rivestendo ogni cosa di un greve strato di grigio.
A quel punto arrivò il botto.
La detonazione più forte che gli uomini avessero mai udito fu percepita nell’intero emisfero boreale. Un boato assordante seguito da uno spostamento d’aria massiccio come mai se n’erano avvertiti. Un terremoto nell’aria che compì decine di volte il giro del mondo: a Londra come a New York, a Parigi come a Mosca e a Pechino, gli uomini condivisero la sensazione che qualcosa di spaventoso era accaduto.
Simultanea all’esplosione partì anche l’onda di base, il cosiddetto base-surge, una vera e propria ondata fisica che muove il terreno increspandolo come se fosse liquido e spostando ogni cosa. È un fenomeno noto fin dai primi esperimenti nucleari sotterranei e riscontrato dai geologi che hanno studiato i vulcani le cui eruzioni avvenivano in presenza di acqua di falda o in prossimità di laghi o del mare. Anche a Yellowstone l’interazione acqua-magma amplificò di centinaia di volte la violenza dell’esplosione, che neppure la deflagrazione di migliaia di bombe atomiche al minuto avrebbe potuto eguagliare.
Una tempesta di pietre roventi, lapilli e ceneri rese oscuro il cielo su tutti gli Stati Uniti, gettando nel panico gli abitanti delle metropoli e dei più sperduti insediamenti. Nubi ardenti si gonfiarono per settimane, evacuando oltre 10.000 chilometri cubi (altre stime parlavano addirittura di 50.000 chilometri cubi) di magma, la quantità più elevata mai rilevata per un’eruzione. Furono chiusi gli aeroporti e la circolazione stradale divenne impossibile per via della fitta pioggia di ceneri.
Le ripercussioni economiche, sociali e politiche furono enormi. Wall Street crollò ben al di sotto delle soglie critiche dell’era della speculazione: i capitali furono ritirati e le stesse riserve dello Stato federale messe in discussione. Nessun cittadino volle lasciare in banca capitali o titoli: come a Pompei duemila anni prima, gli statunitensi volevano disporre dei loro beni paventando di dover lasciare il paese. Come in realtà avvenne.
Muovendosi con mezzi di fortuna, chi poté si affrettò a lasciare le zone colpite. Gli Stati Uniti centrali si spopolarono quasi interamente e le città costiere occidentali furono prese d’assalto da migliaia di profughi impauriti e privi di tutto. E fu il caos. Dalle Montagne Rocciose fino agli Appalachi si creò un deserto di ceneri e lapilli su cui cominciarono a cadere abbondanti piogge dilavanti. L’effetto fu quello di generare colate di fango di dimensioni colossali, che spianarono per chilometri ogni ostacolo incontrassero sul loro cammino. Intere foreste vennero soffocate, ogni forma di vita residua fu sepolta da strati di mota che rendevano i paesaggi uniformi distese di desolazione.
Nel giro di breve, in tutti gli Stati Uniti le temperature diminuirono in media di 15 gradi. Visto che il surriscaldamento climatico globale le aveva fatte innalzare di almeno 6 gradi oltre la media, l’escursione termica fu di una ventina di gradi: un’enormità. Che comportò a livello planetario un abbassamento temporaneo di circa 10 gradi delle temperature medie, con ripercussioni senza precedenti. Ormai, anche a San Diego o a Los Angeles gli abitanti si guardavano bene dal passare la giornata sulla spiaggia, dato che faceva freddo come a Vancouver.
Come se non bastasse, il golfo del Messico cominciò a caricare nel sistema meteorologico il calore residuo. L’esito fu lo scatenarsi di decine di uragani ogni mese: le piattaforme petrolifere vennero abbandonate e in molti casi si spezzarono tra le fiamme interrompendo il collegamento con i giacimenti sottomarini. Fu un susseguirsi di disastri ambientali tali da far sbiadire la drammaticità di quello provocato dalla Deepwater Horizon sei anni prima.
Fra le polveri da combustione che impregnavano l’aria e gli idrocarburi che annerivano la superficie dell’acqua e i fondali, quel pezzo di Oceano Atlantico fu irrimediabilmente perduto alla vita e alle attività produttive. Uomini e animali venivano colpiti da malattie respiratorie e della pelle con frequenza inusitata, e l’accumulo degli idrocarburi nella catena alimentare comportò l’insorgenza di migliaia di casi di tumore in più rispetto alla media. Pesci, plancton e coralli non sopravvissero all’impatto con la marea nera, i cetacei che non erano riusciti a fuggire ebbero il destino segnato, così come gli uccelli marini, alcuni dei quali (come il pellicano bruno) erano appena scampati al rischio di estinzione. New Orleans venne letteralmente avvelenata da piogge di quello stesso petrolio che l’aveva resa ricca. La tecnologia degli idrocarburi, che all’epoca era seconda solo a quella militare, non riusciva a trovare niente di meglio che inutili tappi di acciaio e cemento per occludere i pozzi. Si cercò di iniettare fango nelle perforazioni o di bombardarle con aerei militari, ma alla fine fu chiaro che solo un’esplosione nucleare avrebbe raggiunto lo scopo.
Non era certo la prima volta che gli uomini erano costretti a misurarsi con la propria incapacità di rimediare in modo pronto ed efficace ai danni provocati dal petrolio. Nel 1979 ci erano voluti nove mesi e nel 2010 ce n’erano voluti sei per tamponare disastri analoghi nel golfo del Messico. Per tentare di bonificare le aree contaminate dai 271.000 barili rilasciati dalla petroliera Exxon Valdez in Alaska, nel 1989, si erano impiegati almeno due decenni. Quanto ci avrebbero messo questa volta a bloccare il disastro e a restituire alla vita il mare e le coste, se dopo l’eruzione ogni giorno si riversavano in mare oltre 200 milioni di barili e basta un centimetro cubo di petrolio a uccidere il 90 per cento delle forme di vita presenti in un metro cubo di acqua?
Il precipitare degli eventi a livello planetario avrebbe reso insensata questa domanda e ridimensionato il disastro a uno dei tanti, e non dei più gravi, con cui avremmo dovuto fare drammaticamente i conti.
Ormai in gran parte coperta da metri di cenere, al freddo e col cielo perennemente oscurato, la nazione più potente del mondo si ritrovò in ginocchio. E tutto per un solo vulcano.

Colli di bottiglia

L’esplosione di Yellowstone ribadì in maniera eclatante il divario di forze tra l’uomo e il pianeta, che recava sulla sua superficie i segni di eruzioni altrettanto imponenti. I centri eruttivi del Dekkan, per esempio, eiettarono lave basaltiche per migliaia di anni, colate spesse centinaia di metri che si espansero per chilometri e chilometri e che forse contribuirono all’estinzione di massa dei dinosauri 65 milioni di anni fa. Un vulcano senza nome sommerse le isole coralline che formarono poi le Dolomiti centinaia di milioni di anni fa: i cubetti di porfido che pavimentano molti marciapiedi d’Italia, il paese dove vivevo prima che la catastrofe trasformasse il continente europeo in una landa senza confini di distruzione e abbandono, sono quanto resta di quelle spaventose eruzioni. L’Italia, peraltro, vantava numerosi crateri di vulcani ancora attivi simili a quello di Yellowstone. I Colli Albani e Bolsena, per esempio, o i Campi Flegrei. E poi, acquattato sul fondo del Mare Tirreno, il Marsili, il più grande vulcano d’Europa con i suoi 65 chilometri di lunghezza e gli oltre 3000 metri di altezza, attivo da due milioni di anni. Poco lontano da lui, il vulcano sottomarino Vavilov, più vecchio di quattro-cinque milioni di anni.
Un’eruzione del Marsili, o un collasso di materiale favorito dalla presenza di numerosi apparati vulcanici sviluppatisi lungo i suoi fianchi con crateri di dimensioni anche ragguardevoli, avrebbe potuto provocare enormi tsunami, come spesso deve essere accaduto nella storia del Mare Tirreno, una storia cominciata oltre dieci milioni di anni fa. Oggi, se anche montagne di acqua si scagliassero sulle coste italiane, non incontrerebbero uomini sul loro cammino.
E sì che eravamo già sopravvissuti a catastrofi rovinose almeno quanto quella di Yellowstone, come l’esplosione del vulcano Toba, avvenuta 74.000 anni fa sulla porzione settentrionale dell’isola di Sumatra.
Dopo le grandi eruzioni di 840.000 e di 700.000 anni fa, la montagna si disintegrò, con un boato che si dovette sentire per tutto l’Oceano Indiano e il continente asiatico. Vennero emessi complessivamente 2800 chilometri cubi di ceneri, scorie e lapilli (ma alcune stime parlano di oltre 6000 chilometri cubi): un’enormità, se si pensa che il supervulcano di Yellowstone, prima di esplodere nel 2016, ne aveva eiettati oltre 1000, 600.000 anni fa, e 2500 due milioni di anni fa. Sostenuta dai gas, la colonna di ceneri sputate fuori da Toba si innalzò fino a 80 chilometri, andando a ricadere su un territorio di almeno quattro milioni di chilometri quadrati, un’area vasta come metà degli Stati Uniti, arrivando fino in Medio Oriente. Il cratere, con i suoi 100 chilometri di diametro, nel Ventunesimo secolo era ancora il più grande del mondo.
Gli esperti assegnarono all’eruzione di Toba un indice Vei (Volcanic Explosivity Index) pari a 8: la stimarono quindi due volte più potente di quella del Pinatubo nel 1991 e del Tambora nel 1815 (entrambi con un Vei pari a 7), e imparagonabile a quella del Vesuvio del -79. (Vei pari a 3 o forse 4) o del Mount St. Helens nel 1980 (Vei 5). Tanta potenza non poteva che produrre effetti a livello globale, secondo un copione che 74.000 anni dopo sarebbe stato ricalcato dall’esplosione di Yellowstone.
Circa cinque miliardi di tonnellate di acido solforico nebulizzate nella stratosfera – insieme alle ceneri – impedirono quasi del tutto la penetrazione della luce del sole, e il pianeta si trovò avvolto nel buio e nel freddo di un classico inverno vulcanico: nelle zone intertropicali le temperature crollarono di 15 gradi, mentre la diminuzione delle temperature medie dell’intera Terra si aggirò attorno ai 5-6 gradi. Questo inverno generalizzato e totale durò probabilmente circa cinque anni, che inaugurarono almeno dieci secoli di grande freddo, tanto che qualcuno pensò a quell’eruzione come al catalizzatore dell’ultimo periodo glaciale del Quaternario, cominciato appunto in quell’intorno di tempo.
La prima conseguenza dell’oscurità fu che la fotosintesi clorofilliana si ridusse o si annullò, facendo sparire prima le piante, poi gli animali che di esse si cibavano e infine i carnivori che li predavano. E con loro gli uomini. A partire da quel momento – e per circa 20.000 anni – gli esemplari di Homo sapiens che popolavano il pianeta presero a morire di f...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Questo libro
  4. Cronologia della fine del mondo
  5. 1 - L’innesco
  6. 2 - Fine corsa
  7. 3 - La fine delle risorse
  8. 4 - Questione di limiti
  9. Epilogo - Figli dell’impatto
  10. Appendice
  11. Scuse (e ringraziamenti)