La nave per Kobe
Passa la nave mia colma d’oblio
per aspro mare, a mezza notte il verno
[...] La vela rompe un vento umido eterno
di sospir, di speranze e di desio.
Francesco Petrarca, Le rime
I ricordi, queste ombre troppo lunghe
Del nostro breve corpo.
Vincenzo Cardarelli,
Passato da Poesie
L’acqua è insegnata dalla sete
La terra dagli oceani traversati.
La gioia, dal dolore.
La pace, dai racconti di battaglia.
L’amore, da un’impronta di memoria.
Gli uccelli, dalla nave.
Emily Dickinson, Poesie
Traduz. di Margherita Guidacci
Nota
Nelle tavole fuori testo è stata riprodotta una parte cospicua delle pagine dei quaderni tenuti da Topazia Alliata durante il soggiorno giapponese (1938-1941), quaderni che Fosco Maraini ha recentemente ritrovato e donato alla figlia Dacia. Il materiale iconografico è stato integrato in qualche caso con foto dell’archivio di famiglia. Il disegno del percorso di viaggio verso il Giappone proviene sempre dai diari ed è di mano di Topazia.
Mio padre un giorno mi ha regalato questi quaderni, dicendo «Ti riguardano, prendili». Ho cominciato a sfogliarli e mano a mano che andavo avanti ero acciuffata dalla commozione. Il passato ha la capacità di saltarti addosso a tradimento attraverso una fotografia, una lettera. Ti racconta di un tempo che non c’è più e che pure si fa vivo ai tuoi occhi con una vivacità e una corposità assolutamente insospettate. Favoleggia nel tuo orecchio di una parte di te ormai sparita, che credevi del tutto morta e che invece stava in letargo in qualche angolo della memoria. Sono io questa bambina, mi dico, ma non sono più io. Ho perso per sempre quel corpo che nelle fotografie appare così reale, così nitido e consistente. Oggi un nuovo corpo, sciupato, offeso dal tempo e dalle esperienze, ferito come un vecchio soldato che ha fatto troppe guerre, siede al sole cercando di scaldare un sangue che circola con lentezza esasperante.
Cosa ho da spartire con quella bambina lontana?
Ammetto che non mi importa più molto di lei. È morta, pazienza. Ho fatto tanta fatica a crescere che quasi la sento come una lontana nemica.
Quello che allora mi provocava dolore, e ancora oggi lo fomenta, è invece la perdita della giovinezza di mia madre, così fresca e tenera e lontana. La giovinezza di mia madre mi è quasi più cara della mia, è parte integrante di una mitologia dello spirito a cui mi appiglio per credere nella realtà .
Da bambina qualcuno, forse la balia Masako Moriokasan, detta Okachan, mi spiegava che dovevo dormire perché dormendo mi sarei allungata. Ma poi aggiungeva, non senza una punta di malignità , che allungandomi avrei fatto invecchiare mia madre e che questo era il giusto moto della natura: i miei piedi di bambina si sarebbero fatti grandi, robusti e avrebbero spinto a piccoli colpi gentili il corpo di mia madre verso la vecchiaia.
Questa notizia mi allarmava e mi feriva. L’idea che mia madre invecchiasse per colpa mia, era intollerabile. E cercavo delle strategie per fermare quel tempo che cacciava avanti me verso l’adolescenza e mia madre verso la maturità . Insomma ero abitata da un rovello insistente: come fare per non crescere o almeno per rallentare questa crescita crudele e sconsiderata?
La soluzione, mi sembrava di capire, era quella di non dormire affatto. Se dormire significava allungarmi e allungarmi significava accorciare la giovinezza di mia madre, la sola cosa possibile era rinunciare al sonno. Così io sarei rimasta bambina e mia madre si sarebbe fermata sulla soglia della giovinezza: una gioiosa e delicata donna dal passo deciso e le mani sempre in movimento. Sorridente e festosa. Così necessaria all’equilibrio del mio pensiero e così indispensabile alla pienezza della mia fiducia nei riguardi del mondo e della famiglia.
Credo che da quel proposito derivi l’insonnia, di cui ho sempre sofferto e che si accanisce in certi periodi con una tenacia radicale. Tendenzialmente dormo poco e, quando dormo, basta un soffio per svegliarmi, proprio come se ogni ora persa nel sonno fosse ancora oggi una offesa fatta alla rotondità e all’ allegria di mia madre.
Che dolore constatare che le mie strategie sono servite a poco! Anche se mia madre dimostra dieci anni meno della sua età , anche se conserva una voce squillante e dei folti capelli che, da castani, sono diventati grigi dopo gli ottant’anni, ma non sono ancora del tutto bianchi. Anche se il giudizio è lucido e fermo. Non a caso, quando ho troppo da fare, le consegno i nuovi libri che arrivano perché li legga e faccia una prima selezione. Le sue valutazioni sono intelligenti e di grande modernità . Non ha pregiudizi, mia madre. La sua testa di ragazza invecchiata si trova sempre all’avanguardia nelle questioni che riguardano la convivenza civile. Eppure non sono riuscita a impedire che diventasse più piccola e più fragile, che mettesse su rughe e dolori come una qualsiasi persona anziana.
31 Ottobre 1938. C’imbarchiamo a Brindisi sul "Conte Verde", scrive mia madre nel suo diario: La nonna Yoi ha portato a Dacia un cappottino grigio modello quasi maschile che le sta un amore.
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Si sente ancora la cadenza palermitana nelle parole di mia madre. La giovane siciliana a cui avrebbero voluto far sposare un conte è fuggita con un ragazzaccio fiorentino senza arte né parte, biondo, robusto, con un ciuffo ribelle che gli scivola sulla fronte, innamorato della madre, in lite col padre.
La partenza è triste e siamo tutti stanchissimi. Dacia non ha dormito abbastanza ed è difficile e nervosa.
Il mio bellissimo padre, Fosco, appena laureato, senza un soldo, ricco solo di una borsa di studio non cospicua ma esaltante, si affacciava dal ponte della nave scrutando il mare spumoso come se aspettasse di vedervi spuntare un pesce drago dalle orecchie giganti. La giovane Topazia gli appoggiava teneramente il mento su una spalla come per aiutarlo a scacciare la nostalgia per l’Italia, per Firenze, per la madre tanto amata, per la casa di Torre di Sopra. Chissà se ripensava a come aveva rotto col padre che gli offriva un lavoro e una tessera del Fascio, stracciata in mille pezzi, lì per lì sotto i suoi occhi.
Non soffriamo il mare, scrive mia madre e certamente era sincera. Ma lo trovo ugualmente curioso perché io ho sempre patito il mal di mare. Possibile che a poco più di un anno la nausea non si facesse ancora sentire? O dipendeva dal fatto che il mare era battuto dal vento solo in superficie e la grossa pancia di ferro scorreva su quelle onde con quieta determinazione, senza eccessivi scossoni?
Primi di novembre. 1-2. Fa ancora freschino ma ogni ora meno. Non soffriamo il mare. Porto Said — di sera — pioviggina. Fosco non vuole scendere a terra per paura di infezioni. Io non voglio stancare D., così non scendiamo.
Siamo già a una settimana di navigazione. Il mare è calmo. Ci stiamo dirigendo verso il sud. Mi rimane la curiosità di Porto Said che i miei non hanno voluto visitare. Posso solo attingere ad alcune fotografie d’epoca, che mostrano ricsciò tirati da uomini scalzi, donne dalle gonne lunghe e l’ombrellino in mano che sembrano uscite da un racconto di Cechov; una grande sala dell’hotel Victoria, oggi distrutto, in cui si vedono dei suonatori in frac su una pedana, due o tre tavolini coperti da tovaglie ricamate e un paio di palme dalle lunghe foglie che protendono le molli frange verso quattro finestre di vetro dipinto.
Più tardi, in una sala come quella, avrei conosciuto, per via cinematografica, una Ingrid Bergman dalle luci soffuse riflesse negli occhi morbidi, dai riccioli castani che guizzano attorno al collo. Qual è l’incantesimo che ti allaccia ad una attrice dal sorriso flou e la voce cristallina? In lei vedevo mia madre giovane: le gambe snelle, il taglio del tailleur stretto in vita, le scarpe dal tacco ortopedico. La vedevo camminare veloce, con un cappello di feltro color castagna che le nascondeva in parte la fronte e mi pareva di scorgere una intera generazione di donne dal piede segreto e l’occhio scintillante. Dove vai? avrei voluto chiederle... Dove vai così in fretta? il futuro è appena cominciato, non correre!
Accanto a lei un Humphrey Bogart con l’impermeabile appoggiato sulle spalle e la sigaretta complice fra le dita. Ma lui era diverso da mio padre, che si muoveva con meno grazia, era più sportivo, più schivo, più ragazzo. La bellezza dei due divi era meravigliosamente legata a quel tempo che conteneva la giovinezza e la bellezza dei miei genitori. Sono lì, in un quadro mobile, a raffigurare la gioia di esistere. Si sarebbe mai ripetuta una simile gioia?
Il primo sapore che ho conosciuto, e di cui conservo la memoria, è il sapore del viaggio. Un gusto di bagagli appena aperti: naftalina, lucido da scarpe e quel profumo che impregnava i vestiti di mia madre in cui affondavo la faccia con delizia. Il baule che occupava gran parte della nostra cabina si apriva come i forzieri dei teatranti di una volta: era un armadio vero e proprio fatto di un legno robusto e leggero, tenuto insieme da strisce di ottone. E quando lo si metteva in piedi, aperto a libro, fungeva da guardaroba mobile con cassetti che si schiudevano sui lati, un angolo attraversato da un tubo a cui si appendevano le grucce con i vestiti e le giacche. C’era perfino lo spazio per nascondersi dietro la tendina tirata e per me bambina era un rifugio voluttuoso, in mezzo al profumo di spigo della biancheria materna.
A pagina tre, ecco la cartina che racconta l’itinerario del Conte Verde da Brindisi al Giappone: Porto Said, Aden, Bombay, Colombo, Singapore, Manila, Hong Kong, Shanghai, Tokio, Sapporo. La mano di pittrice di una madre giovane e avventurosa ha tracciato la rotta di un viaggio che segnerà le nostre vite. Sono linee, righe, ondulazioni che marchieranno il palmo della mano come le impronte di un destino. Ed è un destino che ha radici orientali.
Una nave dal procedere lento, la vedo con la memoria di una mente avvezza a sognare sui libri; una nave a vapore con i suoi grandi ambienti illuminati da lampade di vetro a testuggine fissate alle pareti con reticoli di metallo, scale che scendono e salgono attraversate da guide di fibra di cocco, una sala da pranzo spaziosa in cui giovani camerieri in guanti bianchi servono le pietanze tenendosi a gambe larghe sul pavimento scivoloso e sempre in movimento.
La nave è rimasta per me il luogo del piacere narrativo; non a caso i primi grandi amori letterari sono stati romanzi di mare: Stevenson e i suoi navigli che sfidano gli arcani movimenti sotterranei delle acque salate, Conrad con i suoi battelli che custodiscono segreti indicibili e straordinari, Melville con il suo sovrumano tentativo di dominare le forze maligne dei fondali, Verne con le sue meravigliose macchine sottomarine. Ancora oggi un racconto di mare mi conquista subito. Sono una consumatrice delle collezioni di Iperborea, la casa editrice che con tanta cocciuta passione pubblica romanzi scandinavi su navi fantasma, lotte coi ghiacci eterni, vascelli che si perdono negli abissi marini, fantasmi che compaiono sul far della sera lungo le rotte delle barche a vela.
C’è a bordo un simpaticissimo missionario — padre Rovelli che va in Cina. Lui conquista D. facilmente portando sempre qualche caramella in tasca per lei, scrive mia madre. Io non ricordo questo missionario. Ma so che le caramelle non mi sono mai piaciute. Ho avuto modo di conoscere altri missionari, soprattutto in Africa, anni dopo, e posso dire di essermi innamorata di qualche meravigliosa barba bianca dalla gravità celeste, mentre mi è capitato in altre occasioni di imbattermi in piccole mani prelatizie avide di piaceri e di denaro.
Nella mia memoria risvegliata si affaccia il ricordo di una strada africana, una Land Rover dal semiasse spaccato e noi sulla carreggiata ad aspettare un passaggio. Era quasi notte e tra noi ci ripetevamo storie di predoni che uscivano dalle foreste per tagliare la gola ai turisti e rubare il rubabile. Eppure era così tranquillo intorno. Si sentivano i grilli cantare nell’aria bruna, le rane gonfie di aria che gracidavano festose, certi versi di uccelli che si indovinavano enormi. Tutto è gigantesco in Africa, nutrito da acque abbondanti e calori da serra. Solo la presenza della foresta buia e impenetrabile a lato della strada gettava qualche inquietudine nel gruppetto di europei in viaggio.
Improvvisamente avvertiamo il rumore di un motore: una macchina arriva. Niente di meno che una Mercedes, ce ne accorgiamo mentre si avvicina, una bellissima Mercedes color champagne. La vettura avanza in un nuvolone di p...