Dedica
Per Leah
ABBREVIAZIONI
| AFSC | American Friends Service Committee Archive, Philadelphia |
| CID | Criminal Investigation Department (Polizia Giudiziaria) |
| CZA | Central Zionist Archives (Archivio centrale sionista), Gerusalemme |
| DBG | Yoman ha-milchamah tashah (Diari di guerra, 1948-49) di David Ben-Gurion |
| HHA | Ha-Shomer Ha-Za’ir Archives (Archivio HaShomer Ha-Za’ir) (Mapam, documenti del Kibbutz Arzi), Givat Haviva, Israele |
| HHA-ACP | Ha-Shomer Ha-Za’ir Archives (Archivio HaShomer Ha-Za’ir), Aharon Cohen Papers (documenti di Aharon Cohen), Givat Haviva, Israele |
| Histadrut | Federazione nazionale dei lavoratori ebrei in Palestina |
| IDF | Israel Defence Forces (Forze Israeliane di Difesa) |
| IRGUN | Si veda IZL |
| IRO | International Refugee Organization (Organizzazione internazionale per i profughi) |
| ISA | Israel State Archive (Archivio di Stato di Israele) |
| AM | Agriculture Ministry Papers (documenti del ministero dell’Agricoltura) |
| FM | Foreign Ministry Papers (documenti del ministero degli Esteri) |
| MAM | Minority Affairs Ministry Papers (documenti del ministero degli Affari delle Minoranze) |
| PMO | Prime Minister’s Office Papers (documenti dell’Ufficio del primo ministro) |
| IZL | Irgun Zevai Le’umi (Organizzazione nazionale militare) o Irgun |
| JNF | Jewish National Fund (Fondo Nazionale Ebraico) |
| KKL | Keren Kayemet ellsrael, si veda JNF |
| KMA | Kibbutz Meuchad Archives (Archivio del Kibbutz Meuchad), Ef’al, Israele |
| KMA-AZP | Kibbutz Meuchad Archives, Aharon Zisling Papers (Archivio del Kibbutz Meuchad, documenti di Aharon Zisling), Ef’al, Israele |
| KMA-PA | Kibbutz Meuchad Archives, Palmah Papers (Archivio del Kibbutz Meuchad, documenti delle Palmah), Ef’al, Israele |
| LA | Labour Archives (Histadrut, Archivio del Lavoro), Lavon Institute, Tel Aviv |
| LHI | Lohamei Cherut Ysrael (Combattenti per la libertà di Israele), organizzazione sionista dissidente nota anche come «banda Stern» |
| LPA | Labour Party Archives (Mapai, Archivio del Partito dei Lavoratori), Beit Berl, Tzofit, Israele |
| Mapai | Mifleget Po’alei Eretz Yisrael (Partito dei Lavoratori della Terra di Israele) |
| Mapam | Partito di Unione dei Lavoratori |
| NA | National Archives, Washington D.C. |
| ND | Yosef Nachmani Diaries (Diari di Yosef Nachmani) |
| Palmah | Plugot Mahatz (Compagnie d’assalto) |
| PRO | Public Record Office (Archivio di Stato inglese), Londra |
| CO | Colonial Office Papers (documenti del ministero delle Colonie) |
| FO | Foreign Office Papers (documenti del ministero degli Esteri) |
| WO | War Office (documenti del ministero della Guerra) |
| UNTSO | United Nations Truce Supervision Organization (Organizzazione delle Nazioni Unite per la supervisione della tregua) |
| UNRWA | United Nations Relief and Works Agency (Ente delle Nazioni Unite per soccorsi e lavori) |
NOTA
Per la traslitterazione dei caratteri ebraici e arabi si è deciso di privilegiare, per quanto possibile, la facilità di lettura da parte di un pubblico non specialistico. Per l’ebraico, soprattutto, è stata adottata una traslitterazione che tenesse conto dell’usuale abitudine semitistica, pur semplificando, necessariamente, in alcuni punti (così non si dà quasi mai distinzione tra le due z, ch va letto come nel tedesco «macht» e lo spirito aspro ’ indica la lettera «ayn», suono laringeo tipico delle lingue semitiche ma che la maggior parte degli israeliani non pronuncia più). Per quanto concerne poi i toponimi o i nomi di persona contemporanei, si è cercato di mantenere un equilibrio – comunque estremamente labile – tra regole fonetiche e uso. Tanto per l’ebraico quanto per l’arabo, infatti, la distanza tra scrittura e pronuncia è spesso considerevole, variando a seconda del periodo e dell’area geografica. Si è così preferito lasciare, specie nei toponimi, la trascrizione proposta dall’autore.
PREFAZIONE
ALL’EDIZIONE ITALIANA
FIN DALLA SUA NASCITA durante la guerra del 1948, lo Stato israeliano è stato caratterizzato da cambiamenti continui e rivoluzionari: la sua popolazione è cresciuta di nove volte, da circa 700.000 persone agli attuali 6 milioni; i suoi confini hanno subìto continui cambiamenti, ampliandosi e restringendosi durante ciascuna guerra (1956-57, 1967, 1973, 1982-85, 1994-95).
I suoi governi sono passati da un’impostazione socialista di sinistra favorevole alla pace, a una di destra ed espansionista; e il suo ethos nazionale, già ideologicamente orientato verso i valori collettivi, è ora in linea con la generale impostazione liberale, laica e individualista dell’Occidente.
Per essere all’altezza di questa «tradizione» di cambiamento, la storiografia nazionale ha subìto negli ultimi due decenni una trasformazione rivoluzionaria. Nei primi decenni di esistenza dello Stato, la storiografia israeliana è rimasta strettamente legata all’ideologia sionista, che ne definiva l’impostazione; ma in anni recenti un’ondata di revisionismo sovversivo ha cancellato molto di quello che era apprezzato e considerato certo, specie per quanto riguarda la storia dei rapporti del sionismo con il mondo arabo.
Il presente volume, in un certo senso, è insieme un esempio di questo revisionismo, che ho chiamato «la nuova storiografia» israeliana, e un tentativo di illustrare e accompagnare alcuni dei momenti critici della vicenda del Paese.
Il primo assaggio del volume cerca di descrivere la rivoluzione storiografica che ebbe luogo nei tardi anni Ottanta; perché si verificò e quali furono le sue caratteristiche e i suoi esiti (iniziali). I sette saggi successivi trattano di eventi legati alla prima guerra arabo-israeliana del 1948, che portò alla fondazione dello Stato di Israele e alla disgregazione della società palestinese. Tali saggi sono parte integrante della «nuova storiografia» sia nell’argomento che nell’analisi. Essi approfondiscono vari aspetti della genesi del problema dei profughi palestinesi – aspetti menzionati, ma non sviluppati, nel mio libro del 1988 The Birth of the Palestinian Refugee Problem, 1947-1949. I saggi rivolgono l’attenzione a specifiche persone, le cui azioni contribuirono a promuovere l’esodo degli arabi di Palestina; ai processi che caratterizzarono tale esodo; o a documenti che fanno luce su cosa accadde e perché. Due saggi, Il caso di Abu Ghosh e Beit Naqquba, Al Fureidis e Jisr Zarka nel 1948: perché quattro villaggi furono risparmiati e Il trasferimento a Gaza degli ultimi residenti arabi rimasti a Majdal nel 1950, descrivono i destini radicalmente diversi di due località arabe nel corso del conflitto del 1948 e del periodo immediatamente successivo.
Questi saggi di carattere storiografico e storico sono accompagnati da un gruppo di quattro saggi che riguardano la storia e la politica più attuali, e sono di carattere più personale; in un modo o nell’altro, essi definiscono l’intersezione tra gli eventi attuali e la mia vita. Il primo, che qui compare come Prologo, è un diario di prigionia che ho pubblicato nel 1988 dopo avere passato 21 giorni in prigione per essermi rifiutato di prestare servizio militare nell’IDF nella città di Nablus, nel West Bank, alcuni mesi dopo l’inizio della prima Intifada, o ribellione palestinese contro il governo israeliano. Il secondo saggio, in apertura del libro, cerca di spiegare perché io sia passato dal sostegno al processo di pace e di liberazione dei palestinesi dall’occupazione israeliana, a un profondo pessimismo sul futuro delle relazioni israeliano-palestinesi, basato sulla convinzione che i palestinesi, a giudicare dal loro comportamento nel 2000, mirino in realtà a molto di più che alla loro liberazione. Il terzo saggio rivolge l’attenzione a un particolare, ma, retrospettivamente, centrale, tema della storiografia degli anni Quaranta – l’idea, allora diffusa, di un trasferimento o espulsione degli arabi dalla Palestina – e lo collega all’attuale impasse politica, che deriva dall’esistenza di due gruppi etnici, o popoli, ostili, con una memoria storica reciprocamente incompatibile, e ambizioni territoriali che tendono a dispiegarsi entro un’area geografica molto ridotta. La storia sembra dirci che solo la loro separazione in due entità etnico-politiche può condurre alla pace, e senza una tale separazione ci sarà una guerra perpetua finché uno dei due popoli rivali verrà gettato in mare o nel deserto. L’ultimo saggio, in Appendice al testo, è un’intervista che ho effettuato, nel corso di alcune settimane, con l’ex primo ministro israeliano Ehud Barak dopo il mancato accordo di pace con i palestinesi a Camp David e lo scoppio della seconda Intifada, nel 2000. L’intervista cerca di spiegare, dal punto di vista di Barak, perché siano falliti i colloqui di pace con il leader palestinese Yasser Arafat, e perché il Medio Oriente sia sprofondato nell’attuale impasse, in cui con cadenza quasi settimanale attentatori suicidi palestinesi si fanno esplodere negli autobus e nei locali pubblici israeliani, mentre l’IDF è schierato intorno alle città del West Bank e della Striscia di Gaza.
PROLOGO
Dal carcere, in Israele*
16 SETTEMBRE: Il processo è stato breve e più o meno senza sorprese. Il colonnello, vicecomandante della mia divisione, non ha avuto molta scelta, visti i regolamenti militari in materia di riservisti che rifiutano di prestare servizio nei territori occupati.
Con mia grande sorpresa, nei sette minuti dell’udienza ha tentato in modo serio e benevolo di dissuadermi: «Ti rendi conto di che cosa stai facendo?».
«In che senso?»
«Nel senso che devo mandarti in prigione. Tu non sei fatto per quell’ambiente. Non sei il tipo. Hai un dottorato in storia, sei un giornalista. Perché non te ne vai a casa per il fine settimana e ci pensi su?»
«No, mi spiace. Quello che stiamo facendo nei territori è criminale. Mi rifiuto di esserne complice. Dobbiamo andarcene da lì.»
«Personalmente posso anche pensarla come te, ma nell’esercito dobbiamo obbedire agli ordini. Non è una questione di opinioni politiche. Non mi lasci altra scelta. Ti condanno a 21 giorni di carcere.»
Dato però che è venerdì sera, dal carcere n° 4 delle Forze Israeliane di Difesa (IDF) dicono che è troppo tardi per accettarmi, e così passo il resto della serata e tutto il sabato in stato di fermo all’interno della base, sotto la sorveglianza di un sergente furiere a cui è stata negata la licenza di fine settimana per un mancato rientro.
Si chiama Shaul e viene da un nuovo insediamento nel sud. È di origine marocchina e nei confronti della situazione ha la tipica reazione emotiva dei sefarditi. «L’unico modo per porre fine all’Intifada nei territori è colpire duro. Con il pugno di ferro. È l’unica lingua che capiscono, quelli. La disponibilità e il dialogo li interpretano come debolezza e la sfruttano. Colpisci duro e vedrai che poi ti rispettano.»
18 SETTEMBRE: Il primo giorno in carcere è un po’ uno shock, anche se gli attivisti del Yesh Gbul («C’è un limite», l’associazione di chi rifiuta di servire nei territori) me ne avevano parlato e mi avevano preparato. Vengo messo insieme ad altri dieci nuovi detenuti in uno stretto corridoio, circa due metri per sei, tra due stanze di una baracca.
Il corridoio non ha ventilazione né finestre, ed è buio. Restiamo lì più o meno tre ore, sudando copiosamente.
Dopo un’eternità ci viene a prendere un agente della polizia militare, che sarà uno dei miei secondini. Ci fa mettere in fila fuori, al sole, e comincia ad abbaiare le regole preliminari: «Voi siete dei prigionieri. State diritti e guardate fisso davanti a voi. Non guardatemi mai direttamente. Aggiungete sempre "comandante" a ogni risposta. "Sì, comandante; no, comandante." Capito?».
Ci smistano in varie celle di quattro metri per tre, che possono contenere tre o quattro detenuti. In alto, vicino al soffitto, ci sono due finestre con le sbarre da cui si vede la cima del muro di recinzione, sormontato da rotoli di filo spinato e dominato da una serie di torrette di guardia.
19 SETTEMBRE: La giornata inizia alle 4.45 del mattino, con il chiasso infernale della sveglia.
Ci si fa subito un’idea di come funziona il sistema. I secondini trattano in maniera più dura il folto gruppo di coscritti in carcere per la prima volta. Il secondo gruppo di coscritti, composto da recidivi o da soldati detenuti per reati gravi e con lunghe condanne, viene trattato meglio. Il nostro gruppo, quello dei riservisti, viene trattato ancora meglio.
Si resta a bocca aperta a vedere come una squadra di quattro secondini non armati, due o tre dei quali donne, riesca a controllare e far rigare dritto da 100 a 200 prigionieri di sesso maschile.
Gridano continuamente a piena voce ordini e insulti ai detenuti. È violenza verbale.
Al momento, in prigione siamo in sei ad aver rifiutato di prestare servizio nei territori. Un altro obiettore, Arik, uno studente di psicologia di Beersheba, è arrivato qui il mio stesso giorno. Da quanto ho capito, dall’inizio dell’Intifada lo scorso dicembre siamo il 39° e il 40° obiettore di coscienza israeliano.
Gli altri quattro, tutti dallo stesso battaglione corazzato, stanno finendo i loro 22 giorni. Due vengono da un kibbutz, il terzo è un avvocato di Tel Aviv e il quarto è uno studente di Gerusalemme. Cercano di tirarci su il morale. «Non si sta malissimo, qui. E la gente [cioè gli altri prigionieri] è a posto», ci assicurano.
I nuovi detenuti vengono portati dal medico della prigione per la visita regolamentare. È un immigrato dall’Unione Sovietica, arrivato da poco. «Perché sei qui?», mi chiede. Glielo spiego. «A che punto siamo arrivati», dice lui. «Hai tutta la mia comprensione.»
20 SETTEMBRE: Lo sconforto inizia a frasi strada. I quattro del battaglione corazzato vengono rilasciati e rimaniamo solo in due. Quasi tutti gli altri detenuti, sia coscritti c...