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IL BUNKER DEL SULTANO
Caccia a Ciccio Pesce, boss della ’ndrangheta
L’erede
Che salutasse pure Reggio Calabria, il momento era arrivato. Sai chi vogliamo, gli avevano detto i capi. Vedi di tornare in compagnia. Sarai tu a guidare la squadra.
Il comandante Lupo, nome in codice, carabiniere del Ros, il Raggruppamento operativo speciale, si stava regalando un’ultima passeggiata sul lungomare di Reggio. Accanto a lui fichi secolari con tronchi così possenti da sembrare zampe di elefante.
Dallo stretto arrivava un ventaccio che scuoteva le palme, sembravano danzatrici orientali in costumi troppo lunghi.
Tirò fuori dal portafoglio una fotografia e la impugnò con entrambe le mani, per paura che volasse via.
«Era proprio bella,» ricorda il comandante Lupo «occhi a mandorla, sopracciglia sottilissime e lunghe, capelli nero pece che cadevano sopra il seno.»
In giro si diceva fosse una delle amanti di Francesco Pesce, la preferita dal sultano. Anita: ecco chi lo avrebbe portato dal boss.
«Per trovare un latitante bisogna inseguire le sue passioni. Francesco Pesce detto Ciccio ne aveva due, di passioni. Anzi, aveva un vizio, il pallone, e un’ossessione, le femmine.»
A calcio, Pesce aveva giocato nella squadra di Rosarno che prima di essere sequestrata per infiltrazioni mafiose militava nelle serie minori. «Pesce era fra i titolari, ma non per le doti tecniche e atletiche» sorride Lupo. «Semplicemente era il presidente-padrone.»
La squadra disputava le partite casalinghe nel centro sportivo intitolato a Giovanni Paolo II, su un campo d’erba sintetica che pareva una distesa d’insalata di plastica verde fosforescente.
«Compagni di squadra e avversari dovevano farlo segnare per forza.» Il comandante aggiusta la stanghetta degli occhiali da sole. «Era evidente che godeva di un trattamento di favore, eppure Ciccio raccontava ogni volta le sue prodezze, vantandosi senza ritegno nelle chiacchierate in paese e nelle confidenze al telefono.»
Ma quelli ormai era tutti lontanissimi ricordi. Ora, trincerato in qualche bunker, il boss non poteva più giocare. Gli rimanevano le donne, però. Come Anita, che abitava a Rosarno, dove stava lui. I carabinieri, su questo, ci avrebbero giurato: Ciccio Pesce non era tipo da andare lontano, il suo ruolo, d’altronde, non glielo permetteva.
«La prima regola per un capo è non abbandonare la propria terra: andare a fare la latitanza altrove è un segno di debolezza. Se il trono viene lasciato vuoto, i concorrenti si scatenano, accelerando manovre e strategie per conquistare il potere, per prendere il posto del capo.»
E già di suo il boss, uno dei più giovani nella storia della ’ndrangheta, non era amatissimo all’interno della cosca che comandava. Suo padre, in carcere, negli incontri con i famigliari, glielo aveva ripetuto più volte: Ciccio, spartisci il tesoro con i parenti, zii e cugini.
Lui non ascoltava e faceva come voleva. Ai famigliari preferiva un gruppetto ristretto di amici e l’unica cosa che gli interessava era fare soldi.
Lascia perdere, io ne ho fatti per tutti, per te, i figli tuoi, i figli dei figli tuoi, gli ripeteva il padre. E lo implorava di cercare il consenso, di non farsi il vuoto attorno. Di soldi, diceva il vecchio Pesce, ne abbiamo quant’è grande il Tirreno.
Il comandante Lupo aveva imparato a memoria il dossier in pochi giorni. Della cosca Pesce conosceva ruoli e parentele. Elencava i soprannomi di ciascun affiliato. ’U babbu, Beccaccia, Pirata, Ballerino.
«Dominavano Rosarno dal 1990, quando il più fedele luogotenente del boss Giuseppe Pesce, Antonino, il padre di Ciccio, aveva preso le redini e aveva cambiato forma e sostanza alla ’ndrina».
La ’ndrina è la cosca, la famiglia che detta legge in un quartiere, un paese. In Calabria ce ne sono almeno centocinquanta, ipotizza Lupo.
Calabrese di origine e di sangue, il comandante è stato costretto suo malgrado, già da bambino, a conoscere la ’ndrangheta. «Andavo alle elementari» racconta «quando a un passo dall’ingresso della scuola ammazzarono un uomo. L’ennesimo regolamento di conti.
«Con le cosche impari a conviverci da piccolo. Se sei fortunato scegli subito da che parte stare, fidati, è così. Con l’impegno e gli esempi positivi della tua famiglia e dei tuoi insegnanti, stai certo che non passerai mai dalla parte sbagliata.
«Quando nasci e cresci in terre come queste sai bene che faccia ha la mafia, e sai bene come fare a starne alla larga.»
Certo, puoi anche ritrovarti un padre come Antonino Pesce, che a diciassette anni già vantava un tentato omicidio. Allora è molto più difficile stare lontano dalla ’ndrangheta.
«Antonino, soprannominato Testuni, aveva portato la cosca dei Pesce al centro degli affari, dei lavori, dei soldi arraffando commesse pubbliche e monopolizzandole» dice Lupo. «Preso il controllo della cosca, aveva rafforzato le alleanze sul territorio in accordo con le terribili ’ndrine della Piana di Gioia Tauro.
«Le aziende appaltatrici avevano l’obbligo di assumere dipendenti legati ai Pesce e di comprare materiale da ditte amiche dei Pesce. Con il capo mafia Antonino la cosca riuscì a inserirsi nei lavori del Quinto centro siderurgico di Gioia Tauro, imponendo alle ditte accollatarie le proprie condizioni.»
Catturato Antonino Pesce dopo una decennale latitanza, la ’ndrina aveva dovuto rimodellare dirigenti ed esecutivo. La scelta, per volontà dello stesso capoclan, era caduta sul figlio Ciccio, nato nel gennaio del 1978 e ribattezzato Testuni, come il padre.
Su un quaderno il comandante aveva ricostruito l’albero genealogico dei Pesce. Dal patriarca Giuseppe, lo zio di Antonino, Lupo contò dodici Pesce capifamiglia, tutti con prole numerosa, quattro e anche cinque figli a testa.
Un esercito. Il comandante si lesse ogni singolo curriculum criminale. Messi insieme coprivano l’intero Codice penale. Tanti aspiranti capi, ma un solo prescelto. Ciccio Pesce ha un terribile ascendente, non soltanto sulle femmine, aveva detto al comandante un colonnello di lungo corso. «E in effetti» conferma Lupo «sotto la guida del giovane Pesce, tipo furbo e spietato, con una radicata mentalità imprenditoriale mafiosa, la cosca accumulò altra ricchezza, grazie a investimenti nel traffico della droga che approdava nel porto di Gioia Tauro e grazie alle estorsioni a Rosarno.»
Officine meccaniche, parrucchieri, un negozio di vestiti da sposa, un’assicurazione, saloni espositivi di mobili, bar, ristoranti: tutti devoti al boss, senza eccezioni.
«I commercianti pagavano il pizzo ai Pesce. Con la massima precisione, prova ne era che non bruciava né chiudeva nessun negozio» spiega il comandante.
La cosca dei Pesce aveva in mano Rosarno «a modo di signoria», aveva scritto un giudice in una sentenza, un passaggio che il comandante Lupo cita in continuazione, perché «perfetto».
La rete di appoggio di cui godeva la famiglia era fitta, e abbracciava qualsiasi settore: «Disponeva del paese, la ’ndrina. Si credeva imbattibile. Aveva pedine ovunque, nel settore degli appalti e nella politica. Dal 1998 al 2008 la giunta comunale era stata sciolta due volte per infiltrazioni mafiose». Insomma, gli elementi contro i Pesce non mancavano di certo.
E in effetti la Direzione distrettuale antimafia e i carabinieri erano riusciti a costruire un potente impianto accusatorio: omicidi, rapine, riciclaggio di denaro sporco, detenzione di armi.
Lunga e complessa, l’operazione All Inside, condotta dal 2008 al 2010, aveva puntato a frantumare i canali comunicativi della cosca, a tagliare l’approvvigionamento e ad affondare le risorse logistiche sul territorio di quella implacabile armata mafiosa a conduzione famigliare che erano i Pesce.
Così a Rosarno c’erano ormai case senza inquilini. In galera la madre, il padre, i figli, le figlie, i nonni. Ma se l’operazione aveva avuto il merito di mirare alla cosca egemone di Rosarno e di colpirla, non l’aveva di certo affondata. Come un mostro mitologico, i Pesce avevano trovato modo di risorgere.
«Nella grande notte degli arresti» racconta Lupo «qualcuno era riuscito a scappare, e tra questi c’era Testuni. Colpa di una fuga di notizie, chissà da dove e da chi.»
Nei giorni prima del blitz i telefoni intercettati, improvvisamente, avevano preso a gracchiare e a far circolare una frase: È nata una bambina, è nata una bambina.
Un segnale convenzionale, un linguaggio in codice per annunciare l’imminente caccia dei carabinieri.
Ora era giunto il momento di saldare quel conto rimasto in sospeso.
La squadra
Il nuovo ufficio del comandante si trovava a Gioia Tauro, una cinquantina di chilometri a nord di Reggio, lungo la costa tirrenica.
Rosarno è poco distante. Da quelle parti erano nati dodici fra i cento latitanti più ricercati d’Italia.
«Trovai un benvenuto incoraggiante» ricorda Lupo con un’emozione non affievolita dal tempo. «La squadra era affiatata e giovane, parecchi ragazzi non arrivavano a trent’anni d’età , il che, inutile nasconderlo, aveva più pro che contro.
«Un giovane solitamente non ha ancora una famiglia sua ed è più malleabile rispetto a un anziano. Il capo ha la responsabilità di lasciare il segno, individuando e premiando i talenti migliori.»
Lupo non era certo un vecchio, non aveva ancora quarant’anni. Ma la sua esperienza professionale ne faceva un veterano.
Era stato in Sicilia, dove la mafia – unica tra le organizzazioni criminali – tiene il passo delle forze dell’ordine. «Si aggiorna e si specializza, si adatta alla storia e agli uomini» ripete il comandante.
Ai ragazzi fece un discorso di presentazione rapidissimo. Parlò del concetto di gruppo, del rispetto per gli altri. Indicò la porta d’ingresso e disse: Ogni giorno, quando ve la chiuderete alle spalle, dovrete avere la testa libera. Libera, senza un pensiero. Se un problema vi impedisce di essere lucidi sul lavoro mi chiamate e non venite. Ve ne restate a casa. Fuori da quella porta.
Rimasero tutti muti, non volava una mosca. Lupo proseguì: Un giorno un mio autista venne chiamato dall’ufficio del personale. Guardate, gli dissero, che avete sbagliato a compilare lo statino delle ore di lavoro, qua avete scritto martedì 0-24, mercoledì 0-24, giovedì 0-24… Ma non aveva sbagliato. Aveva lavorato, e io insieme a lui, tre giorni e tre notti di fila.
I ragazzi avevano annuito, credendo di capire. Ma il comandante sapeva che avrebbero capito davvero solo dopo, quando il gioco si sarebbe fatto duro.
Anita
Alla prima riunione operativa che convocò, il comandante Lupo proiettò sul muro la foto di Anita. Gli agenti si scambiarono occhiate interrogative e cominciarono a ridacchiare tra loro.
«Non affezionatevi troppo» scherzò Lupo. «Questa è l’amante di Ciccio Pesce. È l’unica pista che abbiamo.»
Anita viveva a Rosarno, in un trilocale in affitto sulla strada statale 18, anche se, nel gennaio 2011, improvvisamente, il suo nome era stato cancellato dall’elenco dei residenti. All’anagrafe, da allora, non c’era più traccia di lei.
Proprio da quell’appartamento, intestato al cugino di Ciccio Pesce, Franco Rao detto il Puffo, i carabinieri decisero di partire.
La squadra arrivò a Rosarno di prima mattina. Davanti alla casa di Anita, in uno spiazzo d’erba solcato da tracce di pneumatici, c’erano parcheggiati un suv Suzuki Gran Vitara e una Renault Clio. Entrambe le macchine appartenevano alla ragazza.
«Il suv era stato acquistato in un concessionario Autosud, sequestrato nel corso di All Inside perché legato alla cosca dei Pesce; e l’assicurazione della Clio era intestata sempre a Franco Rao.»
Il Puffo, arrestato l’anno prima, aveva incarichi importanti all’interno della cosca: operava nelle estorsioni, riciclava il denaro sporco ed era il terminale degli assegni versati dai commercianti alla ’ndrina.
La casa, dall’altra parte della strada, era circondata da un basso muro di cinta con un cancelletto arrugginito. Un piccolo cortile rettangolare ricoperto di piastrelle conduceva al portone di una palazzina a due piani con una tettoia non rifinita.
Tre finestre al piano terra, una finestra soltanto, murata, al piano superiore, disabitato, accessibile attraverso una scala priva di ringhiera con ventidue gradini, una facciata non intonacata: aveva un’aria di precarietà ...