Descrizione di una disfatta
di Massimo Raffaeli
Che città è mai questa? Che specie
di vivere? Siamo dei sopravvissuti
G.A., Domingo il favoloso
Giovanni Arpino ha appena esordito sulla «Stampa» come giornalista sportivo quando, il 22 febbraio del 1969, si vede apostrofare da Pier Paolo Pasolini in una rubrica sul settimanale «Tempo». Lo scritto parrebbe non ammettere repliche e segnare, anzi, un confine tra chi vede ancora nello sport una forma specifica della cultura contemporanea e chi vi individua il trionfo della forma-merce, ovvero di un totalitarismo neocapitalista cui presto lo stesso Pasolini assegnerà i nomi di mutazione antropologica, omologazione e, insomma, Universo Orrendo:
Arpino mi dice che lo sport è lo specchio di una società : come tale rispecchia una realtà , che va accettata, ma io, sia pure con tutta la dolcezza del mio carattere, sono un apocalittico, caro Arpino!
Quando Azzurro tenebra esce per Einaudi, nell’ottobre del 1977 e nel frangente di storia italiana che va sotto la minacciosa griffe degli anni di piombo, sembra che Arpino abbia recepito in silenzio l’anatema di Pasolini, metabolizzandolo nei modi di una duplice sfida, a sé stesso in quanto scrittore e al mondo che costituisce, oramai da un decennio, l’orizzonte quotidiano della sua esistenza. Non gli interessa affatto calcolare la coerenza ideologica del rifiuto da parte di chi si definisce apocalittico, chiamandosene fuori con sdegno e furore; gli interessa, semmai, chiedere conto del proprio vissuto a chi di quel mondo è testimone e nello stesso tempo complice, e cioè a sé medesimo. La mozione di Arpino, il suo banco di prova, non è di natura politica ma, ancora una volta, esistenziale ed etica. Dunque sceglie per il suo romanzo più esposto e arrischiato un portavoce che simula scopertamente la prima persona, «Arp», e gli aggiunge un deuteragonista, «Bibì», che corrisponde ufficialmente a Bruno Bernardi, suo collega al giornale e, dirà con iperbole affettuosa, «un fratello giovane, un compagno di diecimila viaggi, tremila partite, milioni di discussioni». I due personaggi convivono e agiscono in termini opposti e complementari, la loro funzionalità è dialogica secondo lo schema che istituisce il romanzo moderno, discriminando tra il principio di realtà (l’ambito domestico di Sancho) e l’impulso alla fuga, tra follia e disincanto, che è l’eterno dominio di Chisciotte. Di un simile archetipo la figura di Arp è l’ultima occorrenza e un consanguineo più riconoscibile, nella fisionomia biografica, dei personaggi che già abitavano il presente, sempre sotto scacco, in La suora giovane (1959), Una nuvola d’ira (1962), Un’anima persa (1966), e infine Domingo il favoloso (1975), individui messi al margine dal ciclo del progresso economico, segnati da profonde e inconfessabili ferite, vulnerati da pubblica ignominia e oblìo: sono uomini e donne che la società affluente non gradisce e nemmeno prevede, perciò tende a rimuoverli come elementi di disturbo, anacronismi imbarazzanti o rottami archeologici. Costoro sono infatti portatori di una verità individuale, non manipolabile né istituzionalizzabile, per lo più vissuta e pagata in un silenzio glaciale, comunque refrattaria alle magnifiche sorti della storia collettiva. Quanto a ciò, nel suo lucido delirio al cospetto di Bibì, nel supremo rigetto di un mondo che pure ha fatto di lui una star del giornalismo, Arp non è affatto un’eccezione, così come Azzurro tenebra non è semplicemente una parentesi (quasi fosse solo un romanzo molto singolare sul gioco del calcio, caso più unico che raro in Italia), ma un esito a lungo propiziato e un punto fermo nella narrativa di Giovanni Arpino.
Fondale del romanzo sono i verdi smalti della Bassa Baviera e del Baden-Württemberg, dove si giocano, nel giugno del 1974, i Mondiali di calcio. Due ne sono gli epicentri: il Neckarstadion di Stoccarda, a un passo dal fiume che fu di Hegel e dei poeti romantici, e il ritiro di Ludwigsburg che ospita la nazionale italiana, un castello sperduto nei boschi in cui bruciò, nell’orgia wagneriana, il sogno decadente di Ludwig, Luigi II di Baviera. Quasi per premonizione, il solstizio d’estate corrisponde a un primo sospetto d’autunno: c’è nebbia, un pallido sole squarcia di tanto in tanto l’aria rabbrividita, fa freddo. I discorsi di Arp e Bibì (in albergo, in margine ai campi di allenamento o in tribuna stampa) assomigliano ai brechtiani dialoghi di profughi. I due personaggi si interrogano sul loro essere lì, impotenti e inessenziali, mentre tutto sembra presagire la disfatta, coi colori di un’estate andata a male, la mestizia dei luoghi, la scadente qualità del cibo, la presenza struggente e persino patetica degli immigrati italiani che assediano il ritiro degli azzurri. Qui sinistre allegorie invadono l’immaginario di Arp manifestandosi sotto forma di gravidi insetti, mosconi molli e fetidi, ragni avviluppati in sé stessi, o nella presenza di un cane pastore, animale sofferente e interlocutore fatalmente muto, cui egli si rivolge per confessare quanto teme di dover riferire a sé stesso. I campioni del calcio, o presunti tali, sono visti da lontano nelle loro goffe movenze da acquario, pari a lemuri, torpidi ectoplasmi, nonostante la metafisica del tifo e un’epica d’accatto, su giornali e tv, li vorrebbe trasformati in eroi: il Bomber (Luigi Riva), il Golden (Gianni Rivera), Baffo (Sandro Mazzola), Petruzzu (Pietro Anastasi) e l’ineffabile Giorgione (Giorgio Chinaglia). In realtà i campioni sono vecchi e logori, ipotecati da un sistema che sta andando in folle né risponde più a niente che non sia la sua stessa riproduzione in termini economici e mediatici. Come fossero divinità decadute, negli atleti la miseria del gioco corrisponde alla gratuità , e spesso alla tracotanza, del comportamento. E infatti sono i responsabili e insieme gli attori grotteschi di una sconfitta etica prima che estetica, con rarissime eccezioni: Luigi Riva, chiuso in un silenzio impenetrabile, Giacinto Facchetti, il capitano, nella cui humanitas Arp vede i segni di un’antica civiltà sportiva e il crisma di una disciplina superiore, così come il portiere Dino Zoff (non a caso San Dino, per lui) nella cui serietà si individua un rifiuto primordiale dell’ipocrisia e della retorica che infestano, da sempre, la storia del Paese. Diversi anni dopo, tornando a celebrare lo sport per un’ultima volta, Arpino infatti ignorerà i grandi nomi del football e sceglierà piuttosto il simbolo di una cultura rimasta popolare, il leggendario Augusto Manzo, campione eponimo nel suo Piemonte del gioco del pallone elastico:
Incarnò tutto questo sapere muscolare e psichico. […] Poteva diventare centromediano della Juventus, tanto tempo fa, ma per fedeltà al destino, alla terra, alla famiglia, accettò due mucche contrattuali e scelse quei centottanta grammi di pallone elastico. […] Di un Piemonte sobrio e severo in un’Italia povera e segreta malgrado la cartapesta ufficiale, Augusto Manzo è stato il testimone sportivo e silenzioso.
La nazionale italiana di calcio (replica senile di quella piazzatasi al secondo posto nei Mondiali messicani del 1970, dietro al Brasile di Pelé ma dopo il celeberrimo 4 a 3 inflitto alla Germania Ovest) viene eliminata al primo turno: reduce da una stenta vittoria con Haiti, nientemeno, e da un gramo pareggio con l’Argentina, il 23 giugno è affondata dalla Polonia al Neckarstadion. È la riprova di un malessere che nel dialogo dei profughi Arp e Bibì si era venuto prospettando con l’evidenza di un fenomeno psicofisico, nella nausea da calcio e nel fastidio via via divenuto rancore e insofferenza per chi di calcio parla e scrive esaltandolo a vanvera e infine si rifiuta di vederlo per quello che in effetti è: la parodia di un gioco che non arriva a essere uno sport, un trip di massa, triste succedaneo di un’identità collettiva, la derisoria rappresentazione di un Paese senza più memoria né destino. Cioè un Paese Mancato, dirà lo storico Guido Crainz molti anni dopo. Fermo nel suo scranno in tribuna stampa, l’impermeabile dal bavero rialzato, la sigaretta con la cenere pericolante, Arp somiglia a Robert Mitchum o allo scrittore più fraterno, Norman Mailer, che infatti siederà vicino a lui nell’ottobre successivo, allo stadio di Kinshasa, la notte del combattimento tra Foreman e Muhammad Ali. Livido, costernato senza essere affatto sorpreso, per ora Arp ha intorno a sé solo l’arnia ronzante dei colleghi: da una parte le Jene, quanti alimentano il mito del calcio nel cinismo e nel suo sistematico dileggio, dall’altra le Belle Gioie, cioè gli ipocriti e i costruttori di alibi, altrettanto necessari alla garanzia del consenso o comunque alla manutenzione del sistema. (Appena a pochi metri, è presente l’unico che Arp abbia amato e riconosciuto suo maestro di scritture sportive, il «Grangiuán», strepitante e ieratico, nella cui silhouette si riconosce facilmente Gianni Brera: però i messaggi che si lanciano, le battute mordaci, lasciano già intendere il malinteso che prelude a una drammatica risoluzione del rapporto, quando Arp accuserà di «stalinismo critico» colui che lo aveva definito il suo «premio Nobel privato».) Oltre al picaro Bibì, appena due figure sopravvivono al tramonto tedesco, due superstiti costretti al ruolo tanto di interlocutori clandestini quanto di necessari mediatori tra la menzogna del calcio e la verità della vita, o viceversa: l’uno è il Vecio (Enzo Bearzot, futuro vincitore dei Mondiali di Spagna 1982), l’uomo del riserbo e della riflessione, vivo esempio di un’etica che non sente mai il bisogno di autoproclamarsi; l’altro è Gauloise (Carlo Parola, ex giocatore e allenatore della Juventus), il virtuoso della tecnica, l’uomo della rovesciata arcangelica per il quale l’esistenza trova senso al culmine di una giocata, nell’atto di nuda e gratuita dépense che traduce il gesto atletico in opera d’arte. Fuori dal perimetro della cerchia elettiva, c’è un silenzio fitto e lugubre mentre si profila, in lontananza, l’esito della disfatta. Qui la scrittura di Arpino incupisce la freddezza dei timbri con gli effetti della dissonanza e della slogatura ritmica che corrispondono, da sempre, alle sue credenziali stilistiche: dipinto nei modi dell’espressiontsmo astratto, il cielo sopra Stoccarda incombe su stendardi tricolori che bruciano nel chiasso dei tifosi e degli scribi, mentre nel crepuscolo di Ludwigsburg, dai balconi del ritiro abbandonato, la crudele casa di bambola, piove sulla folla di immigrati delusi un’improvvida manna di spaghetti e formaggio grana, tute con la scritta Italia e mazzi di cravatte azzurro tenebra.
Qui il libro sembrerebbe concludersi nell’atto di una cognizione catastrofica e perciò di un congedo definitivo: se il calcio è illusione e menzogna, se esso è l’ultima follia del moderno Chisciotte che si firma Arp, è anche vero che Giovanni Arpino, mentre scrive l’ultima stesura del romanzo (nell’estate 1977, recluso nella casa torinese di via Cantore) sta già meditando di lasciare il mestiere di inviato sportivo e passare ad altro ruolo, cosa che infatti otterrà poco dopo trasferendosi al «Giornale» di Indro Montanelli. Ma è vero, altrettanto, che il decimo e ultimo capitolo di Azzurro tenebra contiene qualcosa di più di un’appendice narrativa e qualcosa di meglio di un semplice attestato di resipiscenza. Lì acquisiscono senso sia il lascito di una lunga, e per lui troppo lunga, esperienza del calcio, sia il segno tangibile che non si è speso invano, in un teatro d’ombre o in una sciamannata corte dei miracoli, un decennio della propria vita. Si tratta di un duplice gesto d’amicizia, che Arpino introduce tuttavia con estremo pudore, dando quasi l’impressione di cercare un pretesto per i titoli di coda. La penultima scena è in piazza San Carlo, a un tavolo del Caffè Torino gestito da un vecchio compagno di via, Mario Maffiodo, di cui dirà al suo biografo Bruno Quaranta: «Alunno vero e maiuscolo del Diletto, sapeva tutto […]. Era il modello di una società borghese al massimo grado, quella che mai abbiamo veramente posseduta»; ed è Maffiodo che lo invita a scrivere il suo crudo feuilleton o la «storia segreta» di Stoccarda: i due non hanno bisogno di altro, se non di proseguire la conversazione tra amici che finalmente si ritrovino per il solo piacere di essere insieme, persino divertiti dal doversi parlare all’ombra di una statua così solenne, il monumento a Emanuele Filiberto scolpito con veemenza barocca da Carlo Marochetti, che sembra anticipare, nella postura aitante, la retorica odierna del football.
L’ultima scena risponde a un ulteriore pegno affettivo e concerne la presenza di Arp al battesimo di Gianfelic...