Cose di cosa nostra
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Cose di cosa nostra

Giovanni Falcone, Marcelle Padovani

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  1. 173 pagine
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Cose di cosa nostra

Giovanni Falcone, Marcelle Padovani

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La straordinaria testimonianza che ha aperto gli occhi degli italiani sulla realtà della mafia. Un libro che ha segnato un'epoca. Le parole, indimenticabili, con cui Giovanni Falcone ha messo a nudo il sistema della criminalità organizzata, illustrandone i meccanismi e le articolazioni di potere, il perverso sistema di valori, le modalità di reclutamento dei nuovi affiliati, le attività illecite, i canali di accumulazione e di riciclaggio del denaro, le strategie di intimidazione e i rapporti con la politica. Una vibrante dichiarazione di impegno, consegnata alla giornalista Marcelle Padovani nel corso delle interviste che intaccarono per la prima volta il muro di omertà che proteggeva i boss di Cosa Nostra. Un preciso programma di azione che ancora oggi costituisce un modello imprescindibile per la lotta alla mafia.

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2012
ISBN
9788858628881
Cose di cosa nostra
«’A megghiu parola è chidda ca ’un si dici».
Antico proverbio siciliano
«L’intera Sicilia è una dimensione fantastica.
Come si fa a viverci senza immaginazione?»
Leonardo Sciascia

Vent’anni dopo

Sono passati vent’anni dall’attentato che costò la vita a Giovanni Falcone, e ventuno dalla scrittura di questo libro: una generazione. Pensando ai giovani lettori, agli studenti, ai ragazzi che apriranno per la prima volta Cose di Cosa Nostra, e per i quali l’attentato di Capaci, il 23 maggio 1992, appartiene alla storia lontana, la voglia è doppia: dare la testimonianza, la più concreta possibile, dell’impegno lungimirante di un magistrato fuori dal comune (con la consapevolezza però che la lettura di questo libro sarà più convincente di qualsiasi introduzione) e raccontare, anzi, riassumere, da una parte quello che in questi due decenni è stato conquistato, e dall’altra quello che purtroppo è stato trascurato, o smarrito per strada, in materia di lotta al crimine organizzato. Insomma queste righe sono anche un tentativo di valutare la consistenza storica delle informazioni e delle intuizioni, delle certezze e dei dubbi che Giovanni Falcone ha voluto lasciare in eredità ai suoi successori dell’Antimafia. E ai cittadini tutti.
Sono dunque passati vent’anni e le certezze di oggi sono tante in materia di lotta alle mafie. Prima di tutto il buon livello di conoscenza, nella società italiana, del fenomeno mafioso in tutte le sue declinazioni. Più nessuno oserebbe sostenere che «la mafia non esiste» o che «è un’invenzione dei media». Più nessuno che abbia un minimo di serietà potrebbe permettersi di ignorare, o semplicemente sottovalutare, la diffusione del fenomeno criminale su tutto il territorio nazionale, il suo carattere «globale», le sue ramificazioni anche all’estero, i suoi linguaggi specifici e i meccanismi che la regolano. Le informazioni che vent’anni fa erano limitate al cerchio ristretto degli addetti ai lavori sono oggi patrimonio largamente condiviso. Ed è utile che così sia per rendere più incisiva la repressione, evitando che magistrati e poliziotti si trovino isolati rispetto alle organizzazioni criminali, ma anche alle istituzioni, ai colleghi e all’opinione pubblica: cosa che capitò a Falcone e lo amareggiò moltissimo, almeno negli ultimi anni della sua vita. Perché fu davvero paradossale che un magistrato che aveva una conoscenza così acuta e originale dei meccanismi sovversivi abbia sempre dovuto difendere ogni volta a denti stretti le sue capacità di contrasto come se fosse stato un debuttante («Debbo sempre dare delle prove, fare degli esami», scherzava, ma non troppo, con me).
In questi vent’anni però, una conseguenza felice della presa di coscienza generalizzata della pericolosità mafiosa è stata sicuramente la nascita e la moltiplicazione dei movimenti antimafia. Anche se tendono a procedere a correnti alternate, a secondo della spettacolarità degli eventi luttuosi che li hanno suscitati, e anche se rimangono informali ed eterogenei. Ma le loro carenze sono largamente compensate da questi veri e propri fenomeni organizzativi: «Addio pizzo» dei «ragazzi» di Palermo; la «Libera» di Luigi Ciotti con le sue 1300 associazioni, che si è specializzata nell’uso sociale dei beni confiscati ai mafiosi, e non solo nel Meridione; o la «Federazione delle Associazioni antiracket» di Tano Grasso a Napoli. Queste organizzazioni nate non dall’emotività ma da un’analisi fredda e prammatica della realtà, e dalla convinzione che la battaglia per la legalità è una battaglia «conveniente» anche per produrre un «profitto pulito», hanno più chances di incidere in modo duraturo sull’esito della lotta alle mafie. E magari di spingere le istituzioni a promuovere delle leggi sempre più adatte alla durezza della battaglia. Per Falcone le reazioni della società civile come quelle che accompagnarono per esempio l’assassinio di Libero Grassi, reo nel 1991 di aver rifiutato di pagare il pizzo, erano dei segnali rari che lui analizzava e soppesava però con la freddezza dell’esperto. Quell’estate del ’91 amava dire che la reazione inorridita della società civile a quel vile attentato era «il segnale che un movimento contro il pizzo poteva nascere anche a Palermo», dopo quello di Capo d’Orlando sotto la regia di Tano Grasso.
Altro grande fenomeno da elencare al capitolo delle «evoluzioni positive»: la validità, anzi, l’esemplarità, riconosciuta anche a livello internazionale, della legislazione italiana, e delle strutture di lotta al crimine organizzato a partire dalle procure distrettuali antimafia e dalla DNA (Direzione nazionale antimafia) per le quali Falcone lottò con forza. Dando battaglia con ogni deputato, ogni senatore, ogni ministro o addetto ai lavori, ogni giornalista, che lui voleva convincere della «bontà della centralizzazione sia delle informazioni che della repressione». Lui sognava una specie di grande computer – me lo disse esplicitamente – come quello che all’epoca aveva visto nella sede romana dell’INPS, e che poteva in qualche secondo elencare la posizione processuale, le contravvenzioni, le irregolarità commesse da qualsiasi cittadino nel corso della sua vita. Comunque, le strutture per le quali Falcone diede battaglia hanno notevolmente incrementato le capacità repressive con il coordinamento reale di indagini che prima erano frammentate e scollegate fra loro. Sarebbe sciocco non riconoscerlo: quello che era una volta il sogno impossibile di pochi magistrati e poliziotti intorno a Giovanni Falcone è diventato un modello organizzativo reale, la cui vitalità non dipende né dalla buona volontà di questo o quel governo, né dagli ostacoli che una qualsiasi maggioranza politica vorrà opporvi e neanche dalla scarsità dei mezzi messi a disposizione della repressione anticrimine. In questo senso non è esagerato sostenere – e lo si sente dire nelle cancellerie europee – che, aldilà delle deprecabili afasie, dei personalismi o degli eventuali contrasti fra attori dell’Antimafia, i magistrati e i poliziotti italiani incaricati della repressione del crimine organizzato sono «i migliori del mondo ». Insomma, sappiamo tutti oggi che se le mafie hanno saputo cambiare volto, metodi e geografia, l’Antimafia ha saputo in modo egregio adattarsi ai loro nuovi parametri di intervento. E ha capito che i più grandi nemici da combattere sono l’illegalità diffusa, sempre più connaturale al momento storico che sta vivendo il capitalismo, da una parte, e dall’altra, la mutazione genetica dell’amministrazione pubblica spesso al servizio dei clan economici e politici. Sicuramente Giovanni Falcone si rallegrerebbe di queste prese di coscienza del mondo dell’Antimafia. E del fatto che, nelle nuove generazioni di poliziotti per esempio, si stacchi sempre di più il profilo «professionale» del nuovo antagonista delle mafie, come per esempio Renato Cortese, capo per quattro anni della squadra mobile di Reggio Calabria, dopo essere stato il responsabile della mitica «Catturandi» di Palermo e avere, a questo titolo, messo fine alla latitanza di Bernardo Provenzano. Un nuovo poliziotto che impersona al meglio la capacità degli inquirenti di oggi a mettere assieme coraggio, esperienza di lotta, e buona conoscenza dei fenomeni criminali: ne testimoniano le centinaia di arresti che sotto la sua regia sono stati eseguiti nei ranghi della ’ndrangheta in questi ultimi anni.
Nessuno sogna dunque di negare la straordinaria efficacia repressiva italiana: «Abbiamo creato il veleno, e abbiamo inventato l’antidoto», ama dire Pietro Grasso, procuratore nazionale antimafia, aggiungendo: «Abbiamo noi italiani un’esperienza che nessuno può avere in materia di crimine organizzato». In ogni caso, se ai tempi di Falcone la cooperazione internazionale era un fatto individuale riconducibile alle buone relazioni personali del singolo magistrato, oggi è diventata storia di ordinaria amministrazione. I poliziotti e i magistrati italiani si muovono con dimestichezza e facilità nelle procure e nei commissariati di tutt’Europa, e anche delle Americhe. Non c’è magistrato europeo, tra l’altro, che non sogni l’adozione nell’arsenale legislativo del proprio paese del «delitto di associazione mafiosa», perché, a suo parere, è un «modello di responsabilità collettiva». La cooperazione che ne segue, e che si è anche materializzata con la creazione di organismi internazionali come «Eurojust» ed «Europol», ha già dato dei risultati insperati. Per esempio quando si tratta di collaborazione con gli ex paesi dell’Est. Pietro Grasso cita volentieri un’inchiesta che coinvolse a partire dal 2007 la Serbia, la Slovenia, la Bulgaria, con gli apparati militari della ex Yugoslavia, i colombiani, i ’ndranghetisti e alcuni gruppi mafiosi pugliesi, e che si risolse con decine di arresti transnazionali a conclusione di indagini comuni. Il procuratore aggiunto di Napoli Giovanni Melillo, che quell’indagine coordinò per conto della DNA, piuttosto che esaltare l’eccellente risultato ottenuto, preferisce soffermarsi su alcuni punti delicati che potrebbero minare la cooperazione internazionale. «Non basta la fiducia che incontriamo in quanto inquirenti nei paesi europei e non. Il vero problema è che l’Italia, che ha tanto dato alla costruzione di un sistema repressivo globale, si trova oggi paralizzata dalla sua incapacità a dare attuazione a obblighi assunti in Europa quando ha stipulato convenzioni internazionali di assoluto rilievo». Qualche esempio: la mancata ratifica della convenzione di Bruxelles sull’assistenza giudiziaria fra stati dell’Unione europea, le lungaggini a ratificare le convenzioni del Consiglio d’Europa sulla corruzione, o delle decisioni quadro in materia di sequestro, confisca dei beni, squadre investigative comuni... Certo, l’abbiamo visto, queste carenze sono compensate dall’ottima reputazione di cui godono gli inquirenti italiani, i quali continueranno ad attraversare senza problemi le frontiere, ma si tratta nonostante tutto di una situazione precaria e provvisoria. Non sostenuta da coerenti adattamenti della legislazione italiana. E si è spinti a questo punto a pensare allo strazio di un Falcone per «inventarsi» due-tre interlocutori, affidabili e fidati, negli Stati Uniti o in Francia, il procuratore Rudolph Giuliani, l’uomo dell’FBI Louis Freeh, o il magistrato Michel Debacq... Che spreco!
Lo spreco è grande anche se si pensa più in generale al carattere spesso dilettantesco, intermittente e «minimizzatore», dell’impegno dello Stato in materia di crimine organizzato (un «difetto» che esisteva già ai tempi di Falcone e che lui giudicava deleterio). E al pericolo che ne consegue oggi come ieri: l’incapacità di questo Stato, anche quando la repressione è efficace, a occupare gli spazi sottratti alle mafie con le leve della politica, della buona amministrazione, dello sviluppo economico. Quando ci si esalta per la cattura di un importante boss dei «Casalesi», quando ci si congratula per l’«annientamento del gotha di Cosa Nostra» o per la carcerazione di qualche «capo Crimine» calabrese, ci si dimentica che altri mafiosi, camorristi e ’ndranghetisti prenderanno presto il posto dei loro predecessori. Questo lo diceva Falcone vent’anni fa. Ci si dimentica anche che quello che conta è la struttura portante, i «valori», il radicamento nel territorio, le pratiche «consensuali» delle organizzazioni mafiose, e non soltanto i loro boss. Ci si dimentica che il successo delle mafie è dovuto al loro essere dei modelli vincenti per la gente. E che lo Stato non ce la farà fin quando non sarà diventato esso stesso un «modello vincente». Una sfida difficile, perché le mafie, con la loro intelligenza del mondo moderno e la loro formidabile adattabilità a ogni nuova condizione di vita e di «lavoro», hanno spesso, anche nella sconfitta, «una lunghezza di avanzo su di noi» come diceva umilmente Falcone. Hanno saputo trasformarsi in «colletti bianchi». Hanno dimostrato di saper usare meglio di tanti imprenditori i network della finanza e dell’economia, un sistema nervoso dalle mille raffinate terminazioni. E se, in più, lo Stato si dimostra incoerente nel fare il suo dovere, allora la battaglia diventa davvero disuguale. Se per esempio l’amministrazione dei beni confiscati ai mafiosi dovesse rimanere farraginosa e irta di ostacoli così com’è oggi, rendendo improbabile l’uso pubblico di quei beni per la collettività, sarebbero ancora le mafie a giovarsene. Un esempio: quando un palazzo di proprietà malavitosa viene espropriato dallo Stato, poi, a causa dei costi di manutenzione elevati, delle lungaggini della burocrazia o del disinteresse generale, viene abbandonato a se stesso e cioè alla devastazione, lo Stato perde non soltanto quello stabile faticosamente sottratto alle mafie ma anche la sua credibilità. «Meno lo Stato è in grado di gestire e di proteggere, più c’è spazio per le mafie», conclude sconsolato Pietro Grasso. Ma c’è qualcosa di più grave della semplice omissione o della banale sottovalutazione in alcuni interventi dello Stato. Per esempio: i ritocchi non strettamente necessari decisi per il «41 bis»; le modifiche alla legge sui collaboratori di giustizia con quel limite discutibile dei 180 giorni per l’acquisizione delle loro dichiarazioni; i progetti di limitazione delle intercettazioni telefoniche sotto il pretesto che sono onerose, mentre tutti sanno che ognuna costa meno di 11 euro al giorno; o le critiche all’uso delle microspie. Non si può a questo proposito non pensare ad alcuni oggetti aneddotici ma simbolici che fanno parte ormai dell’album di famiglia dei poliziotti italiani: il ramo di ulivo nel quale il commissario Giuseppe Linares mise quelle microspie che hanno permesso la cattura di pericolosi mafiosi nelle campagne di Trapani, e che sta oggi nel suo ufficio alla squadra mobile; il pezzo di terra farcito di «pulci elettroniche » in provincia di Agrigento che rivelò agli inquirenti una importante riunione mafiosa... «Senza intercettazioni e senza tecnologie raffinate non c’è lotta alla mafia» dice Pietro Grasso che con Falcone lavorava già prima del «maxiprocesso». E che condivise con lui ansie e successi.
Ma probabilmente il punto più dolente di questo lungo elenco degli errori del dopo Capaci (che non cancella affatto gli incontestabili successi dell’Antimafia, occorre ricordarlo) riguarda un tema che era caro a Falcone: la comunicazione fra magistrati e pubblica opinione. Quando si decise a scrivere Cose di Cosa Nostra, dopo anni di solle...

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