Avvertenza
Questo libro è rivolto allo stesso pubblico dei tre che lo precedono, dedicati rispettivamente alla filosofia antica e medioevale, alla filosofia moderna e alla filosofia contemporanea (La filosofia dai Greci al nostro tempo, 3 voll., BUR 2004). Propone infatti, ripercorrendo l’itinerario interpretativo in essi sviluppato, una scelta antologica, divisa in tre sezioni, di pagine dei maggiori pensatori della storia della filosofia occidentale. Un’antologia, dunque, che deve essere intesa come un percorso parallelo a quello dei tre volumi precedenti, e che consente al lettore di verificare in concreto la ricostruzione storiografica in essi proposta. Il loro contenuto dovrà essere perciò tenuto presente sia come sfondo complessivo del percorso antologico, sia come spiegazione puntuale dei singoli brani presentati.
Ad ogni brano è stato anteposto un breve cappello introduttivo che riassume i concetti fondamentali, relativi all’autore e al passo in questione, sviluppati nei tre volumi sopra citati, e che rinvia ad essi con queste sigle:
FAM= La filosofia antica e medioevale
FM = La filosofia moderna
FC = La filosofia contemporanea
Di seguito ad ognuna di esse, si troverà un numero romano (che indica il capitolo al quale si fa riferimento), seguito da un numero arabo (che indica il paragrafo) e, in qualche caso, da una lettera minuscola (che indica il sottoparagrafo). Per esempio: (FM, II, 4a) rinvia al capitolo secondo, quarto paragrafo, sottoparagrafo a, de La filosofia moderna.
dp n="6" folio="6" ? Alla fine di ogni brano si trovano le indicazioni bibliografiche relative ad esso e alcune indicazioni intorno alle opere dell’autore (che, quando vengono presentati più brani di uno stesso autore, si trovano solo in calce al primo). In appendice, inoltre, vengono date alcune indicazioni intorno alla letteratura critica relativa a ciascuno dei filosofi che compaiono nell’antologia.
Ogni sezione del volume è aperta da un brano (rispettivamente di Aristotele, Hegel e Nietzsche) che si porta verso il significato di fondo dello sviluppo del pensiero filosofico.
Un particolare ringraziamento a Giorgio Brianese: la sua collaborazione, intelligente, accurata, efficace, ha reso possibile la realizzazione di questo lavoro.
PARTE PRIMA
LA FILOSOFIA ANTICA
E MEDIOEVALE
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I
La filosofia nasce grande
È nel VI secolo a.C. che, tradizionalmente, viene collocata la nascita della filosofia occidentale. Sin dall’inizio, la filosofia presenta dei caratteri peculiari, che consentono di segnarne la distanza rispetto alle forme pre-filosofiche (mitiche, poetiche, religiose...) del sapere. (FAM, I)
Nel primo libro della Metafisica, Aristotele – nel IV secolo a.C. – indicherà per la prima volta con chiarezza quali siano stati i tratti di fondo del sapere delle origini.
Tutti gli uomini per natura tendono al sapere. Segno ne è l’amore per le sensazioni: infatti, essi amano le sensazioni per se stesse, anche indipendentemente dalla loro utilità, e, più di tutte, amano la sensazione della vista. In effetti, non solo ai fini dell’azione, ma anche senza avere alcuna intenzione di agire, noi preferiamo il vedere, in certo senso, a tutte le altre sensazioni. E il motivo sta nel fatto che la vista ci fa conoscere più di tutte le altre sensazioni e ci rende manifeste numerose differenze fra le cose.
Gli animali sono naturalmente forniti di sensazione; ma, in alcuni, dalla sensazione non nasce la memoria, in altri, invece, nasce. Per tale motivo questi ultimi sono più intelligenti e più atti ad imparare rispetto a quelli che non hanno capacità di ricordare. Sono intelligenti, ma senza capacità di imparare, tutti quegli animali che non hanno facoltà di udire i suoni (per esempio l’ape e ogni altro genere di animali di questo tipo); imparano, invece, tutti quelli che, oltre la memoria, posseggono anche il senso dell’udito.
Orbene, mentre gli altri animali vivono con immagini sensibili e con ricordi, e poco partecipano dell’esperienza, il genere umano vive, invece, anche d’arte e di ragionamenti. Negli uomini, l’esperienza deriva dalla memoria: infatti, molti ricordi dello stesso oggetto giungono a costituire un’esperienza unica. L’esperienza, poi, sembra essere alquanto simile alla scienza e all’arte: in effetti, gli uomini acquistano scienza e arte attraverso l’esperienza. L’esperienza, infatti, [...] produce l’arte, mentre l’inesperienza produce il puro caso. L’arte si genera quando, da molte osservazioni di esperienza, si forma un giudizio generale ed unico riferibile a tutti i casi simili. Per esempio, il giudicare che a Callia, sofferente di una determinata malattia, ha giovato un certo rimedio, e che questo ha giovato anche a Socrate e a molti altri individui, è proprio dell’esperienza; invece il giudicare che a tutti questi individui, ridotti ad unità secondo la specie, sofferenti di una certa malattia, ha giovato un certo rimedio (per esempio ai flemmatici o ai biliosi o ai febbricitanti) è proprio dell’arte.
Orbene, ai fini dell’attività pratica, l’esperienza non sembra differire in nulla dall’arte; anzi, gli empirici riescono anche meglio di coloro che posseggono la teoria senza la pratica. E la ragione sta in questo: l’esperienza è conoscenza dei particolari, mentre l’arte è conoscenza degli universali; ora, tutte le azioni e le produzioni riguardano il particolare: infatti il medico non guarisce l’uomo se non per accidente, ma guarisce Callia o Socrate o qualche altro individuo che porta un nome come questi, al quale, appunto, accade di essere uomo. Dunque, se uno possiede la teoria senza l’esperienza e conosce l’universale ma non conosce il particolare che vi è contenuto, più volte sbaglierà la cura, perché ciò cui è diretta la cura è, appunto, l’individuo particolare.
E tuttavia, noi riteniamo che il sapere e l’intendere siano propri più all’arte che all’esperienza, e giudichiamo coloro che posseggono l’arte più sapienti di coloro che posseggono la sola esperienza, in quanto siamo convinti che la sapienza, in ciascuno degli uomini, corrisponda al loro grado di conoscere. E, questo, perché i primi sanno la causa, mentre gli altri non la sanno. Gli empirici sanno il puro dato di fatto, ma non il perché di esso; invece gli altri conoscono il perché e la causa.
Perciò noi riteniamo che coloro che hanno la direzione nelle singole arti siano più degni di onore e posseggano maggiore conoscenza e siano più sapienti dei manovali, in quanto conoscono le cause delle cose che vengon fatte; invece i manovali agiscono, ma senza sapere ciò che fanno, così come agiscono alcuni degli esseri inanimati, per esempio, così come il fuoco brucia: ciascuno di questi esseri inanimati agisce per un certo impulso naturale, mentre i manovali agiscono per abitudine. Perciò consideriamo i primi come più sapienti, non perché capaci di fare, ma perché in possesso di un sapere concettuale e perché conoscono le cause.
In generale, il carattere che distingue chi sa rispetto a chi non sa, è l’essere capace di insegnare: per questo noi riteniamo che l’arte sia soprattutto scienza e non l’esperienza; infatti coloro che posseggono l’arte sono capaci di insegnare, mentre gli empirici non ne sono capaci. Inoltre, noi riteniamo che nessuna delle sensazioni sia sapienza: infatti, se anche le sensazioni sono, per eccellenza, gli strumenti di conoscenza dei particolari, non ci dicono, però, il perché di nulla: non dicono, per esempio, perché il fuoco è caldo, ma solamente segnalano il fatto che esso è caldo.
È logico, dunque, che chi per primo scoprì una qualunque arte, superando le comuni conoscenze sensibili, sia stato oggetto di ammirazione da parte degli uomini, proprio in quanto sapiente e superiore agli altri, e non solo per l’utilità di qualcuna delle sue scoperte. Ed è anche logico che, essendo state scoperte numerose arti, le une dirette alle necessità della vita e le altre al benessere, si siano sempre giudicati più sapienti gli scopritori di queste che non gli scopritori di quelle, per la ragione che le loro conoscenze non erano rivolte all’utile. Di qui, quando già si erano costituite tutte le arti di questo tipo, si passò alla scoperta di quelle scienze che non sono dirette né al piacere né alle necessità della vita, e ciò avvenne dapprima in quei luoghi in cui gli uomini erano liberi da occupazioni pratiche. Per questo le arti matematiche si costituirono per la prima volta in Egitto: infatti, là era concessa questa libertà alla casta dei sacerdoti. [...]
E lo scopo per cui noi ora facciamo questo ragionamento è di mostrare che col nome di sapienza tutti intendono la ricerca delle cause prime e dei principi. [...]
La maggior parte di coloro che primi filosofarono pensarono che principi1 di tutte le cose fossero solo quelli materiali. Infatti essi affermano che ciò di cui tutti gli esseri sono costituiti e ciò da cui derivano originariamente e in cui si risolvono da ultimo, è elemento ed è principio degli esseri, in quanto è una realtà che permane identica pur nel trasmutarsi delle sue affezioni. E, per questa ragione, essi credono che nulla si generi e che nulla si distrugga, dal momento che una tale realtà si conserva sempre. E come non diciamo che Socrate si genera in senso assoluto quando diviene bello o musico, né diciamo che perisce quando perde questi modi di essere, per il fatto che il sostrato – ossia Socrate stesso – continua ad esistere, così dobbiamo dire che non si corrompe, in senso assoluto, nessuna delle altre cose: infatti deve esserci qualche realtà naturale (o una sola o più di una) dalla quale derivano tutte le altre cose, mentre essa continua ad esistere immutata. Tuttavia, questi filosofi non sono tutti d’accordo circa il numero e la specie di un tale principio.2
ARISTOTELE, Metafisica, 980a-983b. trad. it. di G. Reale,
Rusconi, Milano 1978, pp. 71-74 e 80-81.
Ora pubblicato da Bompiani, Milano 2004.
II
Dal limitato all’illimitato
1. Talete. La ricerca dell’arché di tutte le cose
Il pensatore che la tradizione ha indicato come il primo filosofo dell’Occidente è Talete, vissuto nella prima metà del VI secolo a.C. a Mileto, sulle coste dell’Asia minore. Delle sue opere non ci è pervenuto nulla, ed è anche incerto se abbia mai scritto alcunché.
Se è vero che, sin dall’inizio, la filosofia greca si volge al Tutto e all’identità del diverso, il problema di fronte al quale essa si trova è anzitutto quello di determinare in che cosa consista l’elemento capace di unificare la molteplicità dei diversi (FAM, I, 6-8 e II, 2). Talete, in particolare, individua nell’acqua il principio unificatore di tutte le cose. (FAM, II, 2)
Ci dev’essere una qualche sostanza, o una più di una, da cui le altre cose vengono all’esistenza, mentre essa permane. Ma riguardo al numero e alla forma di tale principio non dicono tutti lo stesso: Talete, il fondatore di tale forma di filosofia, 1 dice che è l’acqua (e perciò sosteneva che anche la terra è sull’acqua): egli ha tratto forse tale supposizione vedendo che il nutrimento di tutte le cose è umido, che il caldo stesso deriva da questa e di questa vive (e ciò da cui le cose derivano è il loro principio): di qui, dunque, egli ha tratto tale supposizione e dal fatto che i semi di tutte le cose hanno natura umida – e l’acqua è il principio naturale delle cose umide. Ci sono alcuni secondo i quali anche gli antichissimi,2 molto anteriori all’attuale generazione e che per primi teologizzarono, ebbero le stesse idee sulla natura: infatti cantarono che Oceano e Tetide sono gli autori della generazione [delle cose] e che il giuramento degli dèi è su quell’acqua chiamata Stige dai poeti: ora, ciò che è più antico merita più stima, e il giuramento è la cosa che merita più stima. Se dunque questa visione della natura sia in verità antica e primitiva potrebbe essere dubbio, ma Talete senz’altro si dice che abbia descritto la prima causa in questo modo.
TALETE, fr. 11 A 12. trad. it. di R Laurenti, in I Presocratici. Testimonianze e frammenti, Laterza, Roma-Bari 1986, p. 90.
2. Anassimandro. L’ápeiron
Discepolo di Talete, Anassimandro sostiene che l’arché di tutte le cose è l’ápeiron (parola che, letteralmente, significa non-limitato, nonfinito, non-particolare, e che perciò indica l’infinito, l’illimitato, l’immenso). (FAM, II, 3).
Anassimandro visse a Mileto nella prima metà del VI secolo a.C., e compose un trattato intitolato Sulla natura (del quale possediamo un unico frammento), che costituisce il primo scritto propriamente filosofico del pensiero occidentale.
Tra quanti affermano che [il principio] è uno, in movimento e infinito, Anassimandro, figlio di Prassiade, milesio, successore e discepolo di Talete, ha detto che principio ed elemento degli esseri è l’infinito, avendo introdotto per primo questo nome del principio. E dice che il principio non è né l’acqua né un altro dei cosiddetti elementi, ma un’altra natura infinita, dalla quale tutti i cieli provengono e i mondi che in essi esistono [...] e l’ha espresso con vocaboli alquanto poetici. È chiaro che, avendo osservato il reciproco mutamento dei quattro elementi, ritenne giusto di non porne nessuno come sostrato, ma qualcos’altro oltre questi. Secondo lui, quindi, la nascita delle cose avviene non in seguito ad alterazione dell’elemento, ma per distacco dei contrari [dall’infinito ] a causa dell’eterno movimento. [...] Contrari sono caldo e freddo, asciutto e umido e così via.
ANASSIMANDRO, fr. 12 A 9. trad. it. di R. Laurenti, in I Presocratici..., cit., p. 98.
Da dove infatti gli esseri hanno l’origine, ivi hanno anche la distruzione secondo necessità: poiché essi pagano l’uno all’altro la pena e l’espiazione dell’ingiustizia secondo l’ordine del tempo.
ANASSIMANDRO, fr. 12 B 1. trad. it. di R. Laurenti, in I Presocratici..., cit., p. 106.
3. Anassimene. L’aria
Vissuto tra la prima e la seconda metà del VI secolo a.C., Anassimene (discepolo e successore di Anassimandro) dovette rendersi conto che il concetto di ápeiron, essendo soltanto negativo, non è in grado di dirci in che cosa consista il principio unificatore di tutte le cose. Anassimene cercò, pertanto, di indicare qualcosa che, pur mantenendo intatte le caratteristiche fondamentali dell’ápeiron anassimandreo, fosse in grado di diventare tutte le cose; ed individuò questo elemento nell’aria (FAM, II, 4).
Anche Anassimene scrisse un trattato Sulla Natura, del quale possediamo tre frammenti.
Anassimene, figlio di Euristrato, milesio, fu amico di Anassimandro. Anch’egli dice che una è la sostanza che fa da sostrato e infinita, come l’altro, ma non indeterminata come quello, bensì determinata – la chiama aria. L’aria differisce nelle sostanze per rarefazione e condensazione. Attenuandosi diventa fuoco, condensandosi vento, e poi nuvola, e, crescendo la condensazione, acqua e poi terra e poi pietre e il resto, poi, da queste. Anch’egli suppone eterno il movi...