Premessa: la genesi
I fatti non di rado ti forzano la mano, e capita anche che la mano, consapevole, li segua compiacente.
Dopo Compagni di sangue, il libro scritto insieme a Carlo Lucarelli per raccontare l’individuazione e la cattura dei complici di Pietro Pacciani, avevo deciso di dedicarmi solo ai romanzi e di non tornare più, come scrittore, sulla vicenda del "mostro di Firenze". Ho continuato invece a occuparmene come investigatore, perché l’inchiesta sui complici aveva aperto piste che andavano seguite. Ma i fatti non sono andati come pensavo.
Da un lato, la terza parte dell’indagine si è rivelata la più difficile e infida; dall’altro, girando l’Italia per presentare i miei romanzi, ho constatato che la curiosità della gente era tutt’altro che appagata dalle condanne inflitte ai colpevoli arrestati. Volenti o nolenti, gli interventi del pubblico andavano prima o poi a finire sempre lì, sul "mostro" e i suoi misteri. E lo stesso accadeva con i giornalisti stranieri in occasione della pubblicazione dei romanzi all’estero.
Ho così maturato pian piano nel tempo la convinzione che Compagni di sangue, pur nella sua completezza nella descrizione di una fase cruciale dell’inchiesta, non poteva essere il libro definitivo. C’era ancora da dire, e molto.
La genesi di questo libro non è stata facile.
Ho dovuto affrontare due ordini di problemi.
Uno di natura etica e professionale, che coinvolge l’istituzione in cui credo e a cui ho dedicato la parte più importante della mia vita. Sono entrato in polizia convinto della sua funzione di garante dell’equilibrio sociale, funzione che può assolvere solo stando al di sopra delle parti e avendo come unico punto di riferimento il rispetto della verità e della giustizia. Paradossalmente, proprio da quella istituzione, forse per semplici coincidenze o per strane leggi del destino, sono venuti alcuni degli ostacoli che hanno reso più difficile il cammino della terza parte dell’indagine. Il problema era: potevo parlarne? La risposta, semplice, è venuta da sé. Proprio perché credo e continuo a credere nei valori fondanti della funzione della polizia al servizio dei cittadini e della giustizia, dovevo parlarne. L’istituzione, di cui sono anch’io un rappresentante, non potrà che uscirne alla fine rafforzata.
Il secondo ordine di problemi era di natura puramente letteraria: dovevo scegliere se limitarmi a narrare l’ultima fase, avendo già descritto nel precedente resoconto la seconda, o ricostruire per intero tutta l’indagine, così come l’ho vissuta dal momento in cui ne ho assunto la direzione fino al momento in cui ho consegnato i risultati dell’ultima delega d’indagini al PM di Firenze, con il rischio inevitabile di ripetizioni per il lettore di Compagni di sangue perché i fatti di cui quel libro dà conto, seppure rielaborati all’interno del quadro globale, che dà loro la giusta luce e proporzione, non sono cambiati, né sono cambiati i protagonisti e le testimonianze. Qui il lettore potrà trovare qualche elemento in più, qualche ricostruzione più approfondita e dettagliata, soprattutto il contesto in cui vanno inseriti, ma gli avvenimenti sono inevitabilmente quelli.
La terza e ultima fase avrebbe potuto costituire un libro a sé. Ma più ci pensavo, più mi sembrava che da sola sarebbe stata inevitabilmente monca. Avviandomi alla fine dell’indagine, mi è parso più corretto riproporla integralmente, anche per rispetto a chi non ha letto il precedente parziale resoconto e a quanti, soprattutto giovani, si affacciano per la prima volta su questa pagina dolorosa e sconvolgente della nostra recente storia passata.
I fatti hanno finito per forzarmi la mano.
O semplicemente guidarla.
Parte prima
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I. La fine
Sul finire del 2005 ho messo la mia firma in calce all’ultimo, conclusivo rapporto su un’indagine di polizia per molti versi unica al mondo. Per la durata: trent’anni di ricerche, confronti, interrogatori, ostacoli, interruzioni, polemiche, successi e frustrazioni. Per l’atrocità dei delitti commessi e delle loro caratteristiche, che non potevano non dare al caso un’ampia risonanza, prima nazionale e poi internazionale. E per gli eccezionali risultati, che hanno finito per conferire all’inchiesta la valenza di un paradigma investigativo con cui d’ora in avanti sarà necessario confrontarsi quando si presentino casi criminali analoghi o riportabili a quelli che hanno insanguinato la campagna fiorentina tra il 1974 e il 1985, conosciuti come "i delitti del mostro di Firenze".
1974-2005: un lungo, lunghissimo periodo di tempo che può essere grossolanamente scandito in tre decenni. Il primo, dei delitti: per almeno dieci anni, ma con una decisa concentrazione negli ultimi cinque, dal 1981 al 1985, il cosiddetto "mostro di Firenze" ha agito in pratica indisturbato, in barba agli sforzi di polizia e magistratura, che anzi arrivò a irridere e sfidare apertamente. Il secondo, della cattura e dei primi processi, incerti e contraddittori. Il terzo, della nuova indagine, a cavallo tra una sorta di "archeologia investigativa" e un’attività sul campo che ha impresso svolte decisive e un’accelerata (perfino nella durata dei processi) determinante, fino alla conclusione del caso. Che oggi può, finalmente, considerarsi chiuso sotto il profilo investigativo. Anche questo, a suo modo, un fatto abbastanza eccezionale, se si pensa alle difficoltà di un’investigazione che ha trovato sulla sua strada impensabili ostacoli, e ai tanti, troppi, "misteri d’Italia" destinati invece a rimanere tali per sempre.
Va precisato che la scansione in tre decenni è una divisione di comodo, molto utile per orientarsi nella vicenda ma anche molto approssimativa, e come tale incapace di riflettere pienamente la complessità degli eventi: altri delitti, per esempio, direttamente o indirettamente riferibili alle attività del "mostro", si situano, come vedremo, al di fuori dello schema, complicandolo e arricchendolo di particolari che giovano alla reale comprensione dei fatti e alla loro puntuale ricostruzione.
Altra, e ben più grave semplificazione, è quella che ha portato la frenesia mediatica e la fantasia popolare da questa suscitata a trasformare un’ipotesi investigativa in un’etichetta apparentemente definitiva: il caso, appunto, del "mostro di Firenze".
Vale la pena di soffermarsi.
L’idea del "mostro", che con le sue connotazioni di crudeltà, brutalità e ferocia ben si adattava alle caratteristiche degli spietati delitti che gli venivano attribuiti, porta con sé la nozione di singolarità: il mostro è uno, è un individuo animalesco, una belva ("berva" sarà definito in una lettera anonima di cui parleremo), ma pur sempre uno. Catturato il mostro il problema è risolto e l’incubo finito per sempre. È un’idea che certamente infiamma la fantasia e mette le ali alle penne dei cronisti, ma che rischia – e nel nostro caso ha fortemente rischiato – di nascondere la foresta dietro il classico albero.
A me è toccato in sorte di sfrondare l’albero per vedere la foresta. E chi vi si nascondeva.
Mi è toccato precisamente nell’ottobre del 1995, quando vengo nominato capo della Squadra Mobile di Firenze e ho dato avvio alla nuova inchiesta sui delitti del "mostro di Firenze".
II. L’inizio
Ero a Firenze già da qualche anno, come responsabile del settore investigativo della Direzione Investigativa Antimafia (DIA). Mi occupavo delle indagini sugli attentati del 1993, avvenuti il 27 maggio a Firenze, in via dei Georgofili sotto la Torre del Pulci, nella notte tra il 27 e il 28 luglio di fronte alla chiesa di San Giorgio al Velabro e al vicariato di piazza San Giovanni in Laterano di Roma e, quella stessa notte, a Milano, in via Palestro di fronte al Padiglione di Arte Contemporanea. Tutti riferibili a una strategia del terrore di Cosa Nostra.
A fronte dei primi insuccessi, alla DIA avevamo formulato una nuova ipotesi investigativa, sostenuta dall’allora procuratore Piero Luigi Vigna e dal sostituto titolare delle indagini, Gabriele Chelazzi, che autorizzarono gli interrogatori di persone informate dei fatti, le perquisizioni, l’acquisizione di tabulati telefonici e le intercettazioni telefoniche sia di utenze fisse che di cellulari. In breve tempo, già nell’aprile del 1994, avevamo raccolto i riscontri che consentirono l’individuazione e il rinvio a giudizio di 28 appartenenti a Cosa Nostra: tra i mandanti figuravano i famigerati Totò Riina e Leoluca Bagarella.
Era un momento storico nella lotta contro la mafia, all’interno della quale vinceva la linea dura di scontro frontale contro lo Stato, e un banale "incidente di percorso" rischiò di compromettere almeno in parte quella delicata operazione che colpiva direttamente il cuore dell’organizzazione. All’epoca il mio "grado" all’interno della polizia era quello di vicequestore aggiunto, in attesa della promozione che doveva portarmi al ruolo di primo dirigente. Proprio mentre si svolgeva l’operazione contro Cosa Nostra, il ministero diede corso alla procedura per la promozione, un fatto del tutto normale e naturale nella logica delle carriere e degli organigrammi dei funzionari dello Stato. Con un corollario che si sarebbe rivelato, in quel particolare frangente, un fastidioso contrattempo: come primo dirigente non avrei avuto più posto all’interno della DIA, e con la nomina mi sarebbe stata assegnata anche una nuova destinazione: la Questura di Bari, dove avrei dovuto ricoprire il ruolo di capo della Squadra Mobile.
Di fatto però il trasferimento non venne attuato. Subì vari rinvii – prevalentemente grazie all’intervento del procuratore Vigna, che mi riteneva ancora indispensabile per il buon esito delle indagini sugli attentati di mafia e lo fece presente al ministero – fino al mese di ottobre del 1995. E in quel momento la destinazione cambia.
È lo stesso procuratore a comunicarmelo, con quella che mi sembra un’ombra di legittima soddisfazione nell’espressione del volto. Conclusa l’indagine preliminare in corso farò sì il capo della Mobile, ma a Firenze, non a Bari. Vigna mi anticipa subito che dovrò occuparmi con urgenza del caso Pacciani, condannato in primo grado dalla Corte d’Assise di Firenze il 1° novembre 1994 come responsabile dei delitti del "mostro" e per il quale è ormai imminente il processo d’appello, previsto per il gennaio del 1996.
Capisco che Vigna deve avere apprezzato le capacità analitiche e investigative che mi hanno aiutato a individuare i responsabili degli attentati, e vi fa ora affidamento perché all’appello si giunga con nuovi elementi di prova che consentano di rendere più certa la reale posizione dell’imputato, la cui colpevolezza viene da più parti messa in dubbio. Ma non è tutto: da un lato, il procuratore ritiene estremamente positiva la mia totale estraneità alla vicenda del "mostro", che può permettermi di affrontarla con mente sgombra da pregiudizi e preconcetti. Dall’altro Vigna mi dà un’indicazione precisa, invitandomi a indirizzare le indagini sui possibili complici di Pietro Pacciani, ipotesi ventilata dai giudici nella condanna del ’94.1
In quel momento del "mostro di Firenze" sapevo effettivamente molto poco, più o meno quello che sapevano tutti gli italiani. Anzi, con ogni probabilità assai meno perché la mia esperienza in polizia mi ha insegnato a non azzardare mai ipotesi sulla base di quello che viene riportato dai giornali e dalle televisioni. Solo la reale conoscenza delle persone implicate (imputati e testimoni) e degli elementi in possesso degli organi inquirenti può consentire di formarsi un’opinione fondata, tutto il resto sono solo speculazioni accademiche più o meno interessanti ma spesso fuorvianti.
All’epoca dei delitti (fino al 1985), per di più, mi trovavo lontano dalla Toscana, in Calabria, impegnato nella lotta ai sequestri di persona. E durante il processo ero preso dall’indagine sugli attentati di mafia.
Nei confronti dell’imputato non ho dunque alcun preconcetto: non mi ero mai schierato né dalla parte dei colpevolisti né da quella degli innocentisti. Certo, come uomo di legge non posso non attribuire un qualche peso alla prima sentenza che lo ha condannato, ma più di tutto mi stimola la pista appena indicatami dal procuratore e che potrebbe funzionare come quelle operazioni matematiche in cui si ricava il valore di un’incognita accertando quello di un’altra. In altre parole, se scoprirò che Pacciani non agiva da solo ma aveva dei complici, la sua colpevolezza sarà definitivamente provata.
Assicuro quindi la mia totale disponibilità garantendo che mi metterò subito al lavoro appena assunto l’incarico. Anche se, ce ne rendiamo conto entrambi, è un compito quasi titanico: per la brevità del tempo (tre-quattro mesi da ottobre a gennaio), per l’“antichità” del caso (tutti i delitti risalgono a oltre dieci anni prima) e l’immane mole di atti (verbali, testimonianze, sentenze eccetera) che dovrò studiare in via preliminare.
Varco così la soglia della Questura di Firenze in via Zara il 15 ottobre 1995 pronto a immergermi in un delicato lavoro di "archeologia investigativa".
III. I delitti
Il mio nuovo ufficio si trova al primo piano della Questura, in un palazzo che un tempo accoglieva l’ospedale psichiatrico della città, conosciuto come "lo spedale di Messer Bonifazio", dal nome di un coraggioso guerriero, Bonifazio Lupi, che era vissuto nel 1300.
La stanza del capo della Squadra Mobile è una delle più grandi, quadrata, in un angolo del palazzo e quindi con finestre che affacciano su due diverse vie. Sul montante superiore della porta d’ingresso è infissa una targa con inciso il numero 51. Nell’attesa del mio insediamento sono state tinteggiate di bianco le pareti e lavate le tende delle finestre.
Ci sono un’ampia scrivania e un tavolo da riunione, oltre a un mobile di legno chiaro con diversi scaffali per libri e documenti che ospita anche un apparecchio televisivo.
Si avverte odore di fresco e di pulito, una sensazione gradevole che si accorda con l’ottimismo e l’entusiasmo con cui mi accingo ad affrontare il mio nuovo incarico.
Sulla scrivania, bene in vista, il nutrito fascicolo relativo al caso Pacciani che la Procura mi ha puntualmente fatto recapitare. Si tratta degli att...