Dedica
In memoriam
don Luigi Giussani
«Ciò che era fin da principio, ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della vita (poiché la vita si è fatta visibile, noi l’abbiamo veduta e di ciò rendiamo testimonianza e vi annunziamo la vita eterna, che era presso il Padre e si è resa visibile a noi), quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunziamo anche a voi.» (1Gv 1,1-3)
«La fede di un cristiano del secolo xx deve essere illuminata e capace di sottoporre le sue affermazioni al fuoco della critica per constatare che vi resistono. Infatti non vi sarebbe nulla di più equivoco e pericoloso che pensare di dover difendere un edificio più o meno fragile, con il terrore che il primo colpo di vento possa farlo crollare. La nostra fede deve resistere alle tempeste intellettuali e sociali. La fede autentica è quella che nel corso dei secoli non è stata vanificata o distrutta da nessuna ideologia.» (J. Daniélou, La fede cristiana e l’uomo d’oggi, Milano 1970, p. 121)
AVVERTENZA PER IL LETTORE
Per rendere più agevole la lettura, laddove vengono formulate nuove ipotesi di traduzione del testo evangelico, si è utilizzato il corsivo chiaro per le citazioni dei vangeli e delle lettere apostoliche nella versione italiana corrente e il grassetto per le proposte di traduzione avanzate dall’autore.
PREFAZIONE
I vangeli sono opere letterarie singolari. La loro singolarità deriva non tanto dalla qualità della loro composizione, quanto dal loro contenuto. Questi libri testimoniano un fatto unico nella storia: la presenza di Dio stesso nell’umanità di Gesù di Nazaret, un ebreo che visse in Palestina nei primi decenni della nostra era. Nessun fondatore religioso ebbe mai la pretesa di mettersi sullo stesso piano di Dio; l’uomo saggio, e ancor più il genio, è cosciente dell’infinita distanza che esiste tra la sua persona e il Mistero da cui deriva tutto il creato. L’unica occasione in cui un uomo si sia definito Dio, abbia espresso nelle sue azioni e nelle sue parole il suo essere divino, si è avuta con Gesù. Nella storia umana non troviamo un altro fatto simile a questo: un uomo che dice di essere Dio. Finalità dei quattro vangeli è annunciare questo avvenimento, proclamare che il Mistero, l’origine di tutte le cose, si è fatto uomo. E da allora il compimento della vita di qualunque persona è possibile nell’incontro con Lui. Per tale motivo questi libri sono chiamati «Vangelo», ossia buona novella.
Unita a questa caratteristica tematica, ne esiste un’altra che potremmo denominare filologica. Queste opere letterarie, di un genere che definiremmo popolare, ci sono pervenute scritte in greco, anche se il modo di pensare e di esprimersi è semitico. Alcuni anni fa J. Carmignac, esperto conoscitore delle lingue semitiche e del greco, testimoniava questo fatto evidente con le seguenti parole: «La lingua dei Vangeli mi appariva sempre più come una lingua non greca espressa in parole greche. Era la lingua alla quale ero abituato nei miei lavori sui libri delle Cronache e sui manoscritti del Mar Morto; ma questa lingua, invece di esprimersi con parole ebraiche, si esprimeva con parole greche. L’anima invisibile era semitica, ma il corpo visibile era greco».1
In effetti, nel testo greco il lettore si imbatte frequentemente in frasi oscure, anomalie o discrepanze redazionali. Se si ammette che questi testi siano opera di autori greci, risulta inconcepibile il fatto che uno o più versetti, e perfino interi capitoli, siano scritti in un greco oscuro, che resiste a qualsiasi traduzione e interpretazione, oppure sintatticamente chiari ma con un significato che risulta assolutamente incomprensibile e inaccettabile. Noi opiniamo che queste discordanze non debbano essere imputate alla penna dell’autore originario; esse sono piuttosto il risultato di una traduzione letterale, o di cattive traduzioni da un originale aramaico, e tenteremo di dimostrarlo in questo libro. Non si dimentichi che la tradizione evangelica in effetti ha origine da Gesù e dalla sua prima predicazione apostolica; e sia Gesù sia gli apostoli parlavano in aramaico.
Forse il lettore rimarrà sorpreso davanti alle traduzioni dei testi evangelici che qui offriamo. Non sono prodotti della nostra fantasia, ma derivano dall’originale aramaico che abbiamo ricostruito partendo sempre dalle anomalie contenute nel testo greco. In molte occasioni questa ricerca del testo originale aramaico è lenta e faticosa, e purtroppo per essere sufficientemente sicuri di aver raggiunto l’obiettivo possiamo contare unicamente sul significato chiaro e coerente del testo ricostruito a partire dalle imperfezioni del greco. Potrebbe sembrare che la quantità di errori di traduzione che identifichiamo sia esagerata. Certamente la scrittura semitica e le copie fatte a mano favorivano una lettura errata e, di conseguenza, una comprensione inesatta del testo scritto. Non si deve però dimenticare che ebraico e aramaico sono lingue dalla grafia quasi esclusivamente consonantica, ossia non usano le vocali, come invece accade nelle nostre lingue occidentali. Quindi le stesse consonanti potevano indicare parole diverse. Inoltre, la grande somiglianza tra alcune lettere e una separazione non molto precisa delle parole propiziavano anche errori di lettura. E la polivalenza di significati, i fenomeni sintattici e le caratteristiche tipiche di ogni lingua erano altrettante pietre d’inciampo. Non è difficile immaginare la difficoltà che, per tradurre dall’aramaico al greco, dovette incontrare un uomo di lingua e cultura greca.
Né ora né mai il nostro principale interesse è stato dimostrare che i vangeli o le loro fonti fossero originariamente scritti in aramaico. Ciò che realmente ci ha preoccupato e stimolato fin dall’inizio è stato il voler chiarire gli enigmi e vedere se le cattive traduzioni abbiano introdotto discrepanze, soprattutto di senso, nascondendo quindi dati interessanti, sulla vita reale o la teologia, che furono seppelliti dai detriti delle traduzioni scorrette. Speriamo di mostrare tutto questo al lettore, partendo sempre da fatti linguistici anomali, fatti che nessuno può negare e che qualsiasi studioso voglia avvicinarsi ai vangeli ha il dovere di chiarire.
Iniziamo il nostro studio affrontando una questione che l’esegesi discute da secoli: la data in cui i vangeli furono composti; a essa è dedicato il capitolo introduttivo del libro. La prima parte, sull’infanzia di Gesù, è composta da tre capitoli: nei primi due presentiamo Maria e Giuseppe, utilizzando i racconti dell’annunciazione e dei dubbi di Giuseppe; il terzo è incentrato sulla nascita di Gesù a Betlemme. La seconda parte, la più ampia, affronta il ministero pubblico di Gesù; in essa studiamo alcune delle grandi questioni che preoccupano gli studiosi e sulle quali non si è ancora raggiunta un’opinione unanime: la menzione dei fratelli di Gesù, che potrebbe costituire una possibile obiezione alla verginità perpetua di Maria; la storicità dei racconti di miracoli, anche quella dei cosiddetti miracoli di natura; l’attesa da parte di Gesù di una fine del mondo assai prossima; la coscienza messianica di Gesù. Riteniamo che il sostrato semitico ci aiuti a raggiungere delle certezze definitive su queste questioni. La terza parte è composta da quattro capitoli in cui si esaminano diversi racconti della storia della passione. I primi due si focalizzano sull’ultima cena e sull’istituzione dell’Eucarestia; gli altri esaminano due notizie che la maggior parte degli esegeti considera racconti di fantasia: l’intercessione della moglie di Pilato e il dialogo di Gesù con il buon ladrone. La quarta e ultima parte studia i racconti pasquali; in particolar modo il ritrovamento del sepolcro vuoto, che è la pagina evangelica con aspetti più oscuri e con più contraddizioni.
Un’ultima avvertenza: il lettore noterà che non giustifichiamo dal punto di vista linguistico, oppure lo facciamo molto brevemente, le nostre traduzioni dei testi sacri. Lo facciamo per due motivi. Prima di tutto, non vogliamo stancarlo con osservazioni grammaticali o filologiche relative a lingue che probabilmente non conosce. D’altra parte, se al lettore interessa conoscere l’argomentazione linguistica che avalla la traduzione, può farlo facilmente consultando i volumi che la contengono, pubblicati nella collana Studia Semitica Novi Testamenti.2 Chi vorrà verificare la spiegazione grammaticale delle versioni italiane che offriamo nei ventidue capitoli troverà nelle ultime pagine di questo volume i riferimenti esatti ai libri che raccolgono le argomentazioni linguistiche sui racconti evangelici che prenderemo in esame.
INTRODUZIONE
Nei manuali o nei libri di divulgazione la redazione dei vangeli viene generalmente collocata verso gli anni 70-100, secondo il seguente ordine: Marco verso il 70, Matteo e Luca dopo l’80 e Giovanni tra gli anni 90 e 100. Tale datazione si basa principalmente sulla profezia di Gesù circa la distruzione di Gerusalemme, da molti considerata come profezia ex eventu e, pertanto, redatta dopo tali avvenimenti (70 d.C.), nonché sull’ipotesi della composizione offerta dalla storia delle forme e dalla storia della redazione, ampiamente accettate dai commentatori. Di conseguenza, le date cui risale la stesura dei vangeli vengono dedotte dal loro contenuto o composizione; in pratica, dagli argomenti interni.
Sin da quando iniziammo il nostro studio dei vangeli, fummo sempre convinti che per poter suffragare la cronologia di questi quattro libri avevamo innanzitutto bisogno di una testimonianza esterna, la cui data di composizione fosse del tutto nota e quanto più plausibile. Ma dove trovare una simile testimonianza? I riferimenti più antichi di cui disponiamo si trovano nella letteratura patristica della seconda metà del II secolo (Papia di Hierapolis, Ireneo di Lione). Ora, tale testimonianza esterna l’abbiamo riscontrata in Paolo, in vari passaggi della seconda lettera ai Corinzi, già famosi nell’antichità per la loro oscurità o singolarità. Tutti questi brani sono scritti in un greco talmente difficile e strano, che sia i traduttori sia i commentatori nutrono dubbi o discutono sul loro significato.
1. Le letture sacre dei Corinzi
Nel primo capitolo della seconda lettera ai Corinzi, Paolo scrive: «Non vi scriviamo nulla di diverso da quello che potete leggere o comprendere» (1,13). Cosa intende dire l’Apostolo? È evidente che i fedeli di Corinto leggono quanto ha scritto Paolo. Forse quest’ultimo sospetta che i Corinzi possano attribuire alle sue parole intenzioni dolose e doppi sensi? Tuttavia, né il rapporto preferenziale che Paolo mantiene con questa comunità né il contenuto della lettera portano a una simile conclusione. Per questo motivo, nonostante la sua semplicità grammaticale, tale affermazione risulta enigmatica. Gli sforzi fatti dagli studiosi per attribuirle un significato accettabile sono stati vani. A nostro parere, l’unica spiegazione che consente di fare luce su questa affermazione sta nel ritenere che ci troviamo di fronte a una cattiva traduzione dell’originale aramaico.
In questa lingua semitica, oltre all’accusativo che funge da complemento diretto di verbi transitivi, esistono gli accusativi indiretti, e tra questi il cosiddetto accusativo di specificazione. Quest’ultimo dev’essere tradotto facendolo precedere dalla preposizione «circa, con riferimento a». Interpretando in tal modo l’accusativo di questa proposizione paolina, l’originale aramaico diceva: «Perché non vi scriviamo se non circa le cose che leggete». In questo modo l’Apostolo specifica che il contenuto delle sue lettere non è diverso dalle letture che la comunità di Corinto realizza pubblicamente. Non nomina specificamente questi scritti, ma possiamo facilmente dedurre che essi siano collegati all’annuncio cristiano. Riteniamo, quindi, che queste parole dell’Apostolo debbano essere interpretate così: «Ciò che io scrivo nelle mie lettere è pura riflessione teologica, commento a quanto voi leggete nelle vostre letture sacre della domenica». L’Apostolo si sente radicato a questa tradizione su Gesù tramandata per iscritto.
È altresì interessante segnalare che nessuna espressione del testo induce a pensare che qui Paolo si riferisca a una tradizione propria delle Chiese da lui stesso create; anzi, sembra piuttosto un qualcosa che già succedeva nelle comunità cristiane, ancor prima della sua conversione e incorporazione alla predicazione del Vangelo. Di conseguenza, i testi che contenevano l’annuncio cristiano sono preesistenti all’epoca in cui egli fondò la comunità di Corinto. Da questa affermazione paolina si deduce inoltre che gli scritti che possiamo denominare «Vangeli» non furono redatti a uso esclusivo dei predicatori, così come suole ripetersi con frequenza tra gli studiosi, bensì anche, e forse soprattutto, affinché coloro che credevano in Gesù Cristo potessero avere una lettura sacra che parlasse di Lui nelle celebrazioni dell’Eucaristia.
Effettivamente, ovunque si fossero riuniti i credenti cristiani per celebrare il rito liturgico, si saranno letti scritti di genere sacro. Noi li definiamo sacri, e già erano considerati tali, per il loro contenuto: si trattava semplicemente delle opere e degli insegnamenti di Gesù e dei racconti della sua passione, morte e resurrezione. Soltanto attraverso letture di questo tipo era possibile garantire la conservazione della fede nelle comunità. A tale proposito si ricordi che le prime comunità di credenti cristiani furono quelle della Palestina, nate dopo la morte e la resurrezione di Cristo. Poiché erano comunità di lingua aramaica, è ovvio che i loro scritti fossero in aramaico. Di fatto, lo studio filologico e linguistico dei vangeli greci conferma l’esistenza di questi racconti aramaici primitivi.
2. Un collaboratore di Paolo che predica in tutte le Chiese
Siamo giunti a conclusioni identiche dopo aver studiato un altro brano della stessa lettera. Ci riferiamo a 2Cor 8,18-19. In questa lettera Paolo dedica i vv. 8-9 a promuovere la colletta in favore dei poveri e dei santi di Gerusalemme. L’Apostolo scrive dalla Macedonia, nel nord della Grecia, molto probabilmente dalla città di Tessalonica. Affinché la colletta ottenesse l’esito desiderato, decide di inviare a Corinto Tito, al quale affida la missione di attivare la raccolta dei soldi. Tito vi si reca accompagnato da due collaboratori, i cui nomi non sono menzionati dall’Apostolo; questi si limita a fare un breve elogio di ognuno di essi.
In 2Cor 8,18-19, Paolo descrive il primo compagno di Tito con due caratteristiche: 1) è un fratello che gode di buona reputazione nelle comunità grazie alla predicazione del Vangelo; 2) è stato scelto dalle Chiese come compagno di viaggio per portare la somma raccolta alla comunità di Gerusalemme. Ma ...