CAMPO DI MARTE
La luce del mattino entrò dalla finestra e inondò l’intera stanza.
Tatiana Metanova dormiva il sonno dell’innocenza, della gioia irrequieta, delle calde notti bianche di Leningrado, del giugno profumato di gelsomino. Ebbra di vita, dormiva il sonno dell’intrepida giovinezza.
Non durò a lungo.
Quando i raggi del sole attraversarono la stanza fino ad arrivare ai piedi del letto, Tatiana si tirò le lenzuola sulla testa nel tentativo di tenere lontano il giorno incombente. La porta si aprì e il pavimento scricchiolò. Era Dasha, la sorella maggiore.
Daria, Dasha, Dashenka, Dashka.
La persona a cui Tatiana voleva più bene al mondo.
Ma in quel momento avrebbe voluto strangolarla. Dasha aveva deciso di svegliarla, e purtroppo riuscì nel suo intento. La scosse con le sue mani energiche e sibilò: "Psst! Tania! Svegliati. Svegliati!"
Tatiana grugnì e la sorella sollevò il lenzuolo.
I sette anni di differenza tra loro non erano mai stati più evidenti come in quel momento in cui Tatiana voleva dormire, e Dasha, invece...
"Smettila", borbottò, cercando di coprirsi di nuovo. "Non vedi che sto dormendo? Chi sei tu? Mia madre?"
La porta si aprì. Il pavimento scricchiolò ancora. Stavolta era davvero sua madre. "Tania, sei sveglia? Alzati immediatamente."
Non si poteva certo dire che avesse una voce melodiosa. Irina Metanova mancava di ogni dolcezza. Era piccola, energica, irascibile. Probabilmente aveva appena finito di lavare il bagno comune, inginocchiata a terra con il grembiule blu, e aveva ancora il fazzoletto in testa. La domenica la distruggeva.
"Cosa c’è, mamma?" chiese Tatiana, senza sollevare la testa dal cuscino. I capelli di Dasha, che si stava chinando per darle un bacio, le sfiorarono la schiena. Quel momento di tenerezza fu interrotto dalla voce stridula della madre. "Alzati subito. Tra poco la radio darà un annuncio importante."
"Dove sei stata, stanotte? Sei tornata molto più tardi dell’alba", sussurrò Tatiana.
"Cosa ci posso fare se il sole sorge a mezzanotte? Sono tornata a quell’ora, e mi sembra più che rispettabile." Sorrise. "Dormivate già tutti."
"L’alba è alle tre, e a quell’ora tu non eri ancora a casa."
"Dirò a papà che, quando hanno alzato i ponti, sono stata sorpresa dall’altro lato del fiume."
"Sì, brava. Spiegagli cosa stavi facendo sull’altra riva del fiume alle tre del mattino." Tatiana si voltò a guardarla. Quella mattina l’aspetto di Dasha la colpì in modo particolare: i capelli neri erano spettinati e grandi occhi scuri, che spiccavano su quel bel viso, mutavano continuamente espressione. In quel momento esprimevano una sorta di allegra esasperazione. Anche Tatiana era esasperata, ma era tutt’altro che allegra. Voleva solo continuare a dormire.
Lesse l’inquietudine sul volto della madre intenta a togliere le coperte dal divano.
"Quale annuncio?" ripeté.
"Tra pochi minuti il governo trasmetterà un comunicato. È tutto quello che so", rispose la madre rassegnata.
Suo malgrado Tatiana era ormai del tutto sveglia. Un comunicato. Accadeva di rado che la musica venisse interrotta da un annuncio del governo. "Forse abbiamo invaso di nuovo la Finlandia." Si strofinò gli occhi.
"Zitta", l’ammonì sua madre.
"O forse sono loro che hanno invaso noi. Rivogliono indietro i confini che hanno perduto l’anno scorso."
"Non siamo degli invasori", intervenne Dasha. "L’anno scorso siamo andati a riprenderci i nostri confini. Quelli che avevamo perduto nella Grande Guerra. E dovresti smetterla di ascoltare le conversazioni degli adulti."
"Non abbiamo perso i nostri confini", ribadì Tatiana. "Il compagno Lenin li aveva ceduti di sua spontanea volontà."
"Tania, non siamo in guerra con la Finlandia. Esci dal letto."
Lei si mosse. "E la Latvia, allora? La Lituania? La Bielorussia? Non è forse vero che ci siamo impadroniti di quelle terre dopo il patto dell’anno scorso tra Hitler e Stalin?"
"Tatiana Georgievna, smettila!" Quando voleva farle capire che non era in vena di scherzare sua madre la chiamava col nome di battesimo seguito dal patronimico.
Tatiana assunse un’aria seria. "Cos’altro resta? Abbiamo già metà della Polonia."
"Ho detto basta! Ne ho abbastanza dei tuoi giochetti. Giù dal letto. Daria Georgievna, tira fuori tua sorella dal letto."
Dasha non si mosse.
La madre uscì dalla stanza brontolando.
Dasha si voltò di scatto verso la sorella e sussurrò in tono cospiratorio: "Devo dirti una cosa".
"Bella o brutta?" Dasha non le parlava quasi mai della sua vita da adulta.
"Una cosa straordinaria. Mi sono innamorata!"
Tatiana si lasciò cadere indietro sul letto levando gli occhi al cielo.
"Smettila", esclamò la sorella, saltandole addosso. "È una cosa seria."
"Sì, d’accordo. L’hai conosciuto ieri quando hanno alzato i ponti?"
"Ieri è stata la terza volta."
Tatiana scosse la testa. La gioia di Dasha era contagiosa. "Vuoi lasciarmi stare?"
"No, non posso lasciarti stare." Cominciò a farle il solletico. "Non finché non mi dici che sei felice per me."
"Perché dovrei dirlo?" obiettò Tatiana con un sorriso. "Non sono felice. Smettila! Perché dovrei essere felice? Io non sono innamorata. Adesso piantala."
La madre tornò in camera con un vassoio con sei tazze e un samovar d’argento. "Smettetela subito, voi due. Mi avete sentita?
"Sì, mamma", disse Dasha, che continuava a fare il solletico alla sorella.
"Ahi!" gridò Tatiana. "Mamma, ho paura che mi abbia rotto le costole."
"Fra poco vi romperò qualcos’altro io. Siete tutte e due troppo grandi per questi giochi."
Dasha fece la linguaccia.
"Davvero troppo grandi", commentò Tatiana. "Ma la nostra mammina non sa che tu hai solo due anni."
Dasha rimase con la lingua fuori. Tatiana allungò la mano e gliel’afferrò. Al grido stridulo della sorella la lasciò andare.
"Cosa vi ho detto! urlò la madre.
"Aspetta di incontrarlo. Sono certa che non hai mai visto nessuno così bello", sussurrò Dasha.
"Vuoi dire più bello di quel Sergeij per cui mi hai dato il tormento? Non dicevi che era bellissimo?"
"Smettila", sibilò Dasha, dandole una pacca sulla gamba.
"Certo. E mi pare che tu me l’abbia detto solo una settimana fa, giusto?"
"Tu non puoi capire, perché sei ancora una bambina." E le diede un’altra pacca.
La madre strillò e le ragazze si calmarono.
In quel momento entrò il padre, Georgij Vasilevič Metanov, un uomo piccolo sulla quarantina con una folta chioma di capelli neri e ricciuti che cominciavano a mostrare qualche filo bianco. Dasha aveva ereditato i suoi bei riccioli. Passando accanto al letto guardò con aria assente Tatiana, che teneva ancora le gambe sotto le coperte. "Tania, è mezzogiorno. Alzati, o saranno guai. Voglio vederti vestita tra due minuti."
"Detto... fatto!" rispose lei, e saltò sul letto per mostrare alla famiglia che indossava ancora la camicia e la gonna del giorno prima. Dasha e la mamma scossero la testa sforzandosi di trattenere un sorriso.
Il padre si voltò a guardare in direzione della finestra. "Cosa dobbiamo fare con lei, Irina?"
Niente, pensò Tatiana, niente finché papà continua a guardare dall’altra parte.
"Devo proprio sposarmi", disse Dasha, sempre seduta sul letto. "Così potrò finalmente vestirmi in una stanza tutta mia."
"Stai scherzando", intervenne la sorella. "Tu starai qui con tuo marito. Io, tu, lui, tutti in un letto, con Pasha ai nostri piedi. Non è romantico?"
"Non sposarti, Dashenka", disse la madre con aria assente. "Stavolta Tania ha ragione. Non c’è spazio per tuo marito."
Senza parlare il padre accese la radio.
In quella stanza lunga e stretta, oltre al letto di Tatiana e Dasha, c’erano un divano dove dormivano i genitori e la brandina metallica destinata a Pasha, il fratello gemello di Tatiana. Visto che era sistemato ai piedi del letto delle sorelle, Pasha diceva sempre di essere il loro cagnolino. I nonni, Babushka e Deda, vivevano nella stanza adiacente, cui si accedeva per mezzo di un breve corridoio. Quando tornava tardi Dasha dormiva sul divanetto nel corridoio, per non disturbare i genitori ed evitare una punizione. Quel divanetto, poco più lungo di un metro e mezzo, sarebbe stato più adatto alla statura di Tatiana. Ma lei non aveva bisogno di dormire nel corridoio perché, a differenza della sorella, rincasava sempre presto.
"Dov’è Pasha?" chiese Tatiana.
"Sta finendo la colazione", rispose la mamma. Non riusciva a star ferma. Mentre Georgij Vasilevic stava seduto sul vecchio divano, immobile, lei si affaccendava in giro. Raccoglieva pacchetti di sigarette vuoti, raddrizzava i libri sugli scaffali, spolverava il tavolino. Tatiana era in piedi sul letto. Dasha seduta.
I Metanov erano fortunati: potevano usufruire di due stanze e di una parte privata del corridoio. Sei anni prima avevano messo una porta per dividerla dalla zona comune. Era quasi come avere un appartamento tutto per loro. Gli Iglenko dormivano in sei in una grande stanza alla fine del corridoio. Quella sì che era sfortuna.
La luce del sole filtrava attraverso le tende bianche.
Tatiana sapeva che quell’istante non sarebbe durato a lungo, che solo per una piccola frazione di tempo il giorno avrebbe offerto tutto il ventaglio di possibilità. In un momento sarebbe tutto finito. E in un momento tutto finì. Eppure, quel sole che inondava la stanza, il rumore distante degli autobus attraverso la finestra aperta, il vento leggero...
Era quello il momento della domenica che le piaceva di più.
Pasha entrò seguito dai nonni. Era suo fratello gemello, ma non somigliava affatto a Tatiana. Era un ragazzo robusto, con i capelli neri: la copia in piccolo del padre. Salutò la sorella con un breve cenno del capo: "Bei capelli".
Lei gli mostrò la lingua. Non si era ancora pettinata.
Pasha si sedette sulla brandina e Babushka, la nonna, gli si accomodò accanto. Essendo la più alta dei Metanov, la famiglia faceva riferimento a lei per qualunque problema a eccezione delle questioni morali, per le quali Deda, il nonno, era il più autorevole. Imponente e coi capelli argentati, Babushka era una donna quadrata. Deda era umile, esile e gentile. Si sedette sul divano accanto al figlio. "È una cosa grossa", mormorò.
Georgij Vasilevič annuì preoccupato.
La madre continuò a pulire febbrilmente.
Tatiana guardò Babushka che accarezzava la schiena di Pasha. Strisciò fino al bordo del letto e tirò il fratello per un braccio. "Pasha, dopo andiamo al parco Tauride?" sussurrò. "Questa volta la guerra la vinco io."
"Figurati", rispose lui. "Non mi batterai mai."
La radio gracchiò. Erano le dodici e trenta del 22 giugno 1941.
"Tania, sta’ zitta e siediti", le ordinò il padre. "Siediti, Irina. Sta per cominciare."
Parlava il compagno Vjačeslav Molotov, ministro degli esteri di Stalin:
"Uomini e donne, cittadini dell’Unione Sovietica, il governo sovietico e il suo capo, il compagno Stalin, mi hanno incaricato di dare il seguente comunicato. Alle quattro di questa mattina, senza una dichiarazione di guerra, e senza alcuna apparente motivazione, le truppe tedesche hanno attaccato il Paese in vari punti delle nostre frontiere e bombardato dal cielo Šitomir, Kiev, Sebastopoli, Kaunas e altre città. L’attacco è stato sferrato nonostante il patto di non aggressione stipulato tra Unione Sovietica e Germania, un patto che abbiamo sempre rispettato scrupolosamente. Siamo stati attaccati nonostante il governo tedesco non abbia mai lamentato l’inadempienza degli obblighi da parte della Russia...
"Il Paese vi chiama, uomini e donne, cittadini dell’Unione Sovietica, a stringervi intorno al glorioso partito bolscevico, intorno al governo sovietico e al nostro grande capo, il compagno Stalin. La causa è giusta. Il nemico sarà annientato. La vittoria sarà nostra".
Quando la radio tacque la famiglia rimase seduta in un silenzio attonito.
"Oh, mio Dio", esclamò infine il padre lanciando un’occhiata a Pasha.
"Dobbiamo immediatamente andare a ritirare i soldi dalla banca", disse la mamma.
"Non possiamo sopportare un’altra evacuazione", fu il commento di nonna Anna. "Stavolta non riusciremo a sopravvivere. Forse è meglio restare in città."
"Magari otterrò un altro posto come insegnante per gli evacuati. Ho qu...