Capitolo terzo
Insoddisfazioni, ricordi, sogni
Rileggo quel che ho scritto sin qui e non ne sono soddisfatto (e non certo perché ho parlato di suore). Di quante cose che ritengo importanti nella mia vita non ho parlato e penso di non parlare! Di quante ho raccontato che invece, ora, mi sembrano futili! Trapelano, in queste mie pagine, vanità e puerilità . Il linguaggio si sforza di essere accattivante, come una vecchia donna che si trucchi e si vesta da ragazza.
Ma non mi soddisfa nemmeno questa specie di autocritica. Mi viene il sospetto che non sia più sincera di ciò che essa critica e che sia un tentativo di salvare il salvabile. Una raddoppiata captatio benevolentiae. Ho nostalgia del linguaggio pesante e duro dei miei scritti. Lì la sincerità è totale, ha un senso e una levatura completamente diversi da quella psicologica. Indicano Ciò che sta più in alto. Possono essere pesanti e duri fin che si vuole, ma il loro Contenuto non abbassa la testa di fronte a niente e a nessuno; e quindi salva il linguaggio da cui è indicato, come una nave che porta con sé le alghe che le si sono attaccate alla chiglia. C’è chi può ridere delle alghe, ma le vele della Nave ridono, di costui, di un riso infinitamente più luminoso.
Ma il linguaggio di questo libro? Non parla di quel Contenuto, ma della mia vita. E la mia vita è una povera cosa che non è in grado di salvarlo dalle bassure e deve chinare la testa davanti a tante altre, e lasciare che anche il linguaggio da cui è indicata la chini davanti a tanti altri linguaggi, e a tanti altri che parlano di vite molto più nobili e ricche della mia.
Tuttavia, ho già scritto che parlare di ricordi è separare: separarli dalla manifestazione del mondo. Quindi è alterarla, errare. Per di più questa alterazione altera dei sogni, perché sono sogni i ricordi e la manifestazione del mondo. E nei sogni la verità (il Contenuto di cui parlavo) è ancora più profondamente alterata.
Ricordare è sognare; è una parte del grande sogno in cui il mondo consiste. Ma scrivere i propri ricordi è sfigurare la relativa purezza del sogno. Anche se si scrive per se stessi, il linguaggio vuole la sua parte, attira su di sé l’attenzione, lascia ai margini ciò a cui dovrebbe dar spicco. Ma ora sto scrivendo per gli altri. Mi son lasciato convincere a farlo e l’alterazione del sogno è ancora maggiore.
Il sogno è puro quando il sognante è riuscito ad allontanare il dubbio sul mondo. Che il mondo sia sogno è sentenza antica, ma la si afferma senza sapere che cosa sia la veglia. Oppure si attribuisce alla veglia un volto che non le compete. Calderón de la Barca afferma sì che la vita è un sogno, ma per lui la veglia è la fede cristiana, cioè qualcosa che, come ogni fede, può essere violato e negato. La narrativa e la poesia dubitano sì del mondo, ma il loro dubbio è fede non meno di quanto lo sia il mondo di cui dubitano. Esse si muovono all’interno di quella loro fede più ampia senza metterla in questione. Proprio per questo possono diventare capolavori.
Che il sogno appaia non è un sogno
Il sogno, in cui il mondo consiste, si manifesta. Contiene anche i ricordi e il linguaggio che di essi intende parlare e che per questo li altera, anche perché, pur volendolo, non può esser sincero. Ma che il sogno appaia non è un sogno. Poiché il sogno è la manifestazione – il mostrarsi, l’apparire – del mondo. Sto dicendo che l’apparire dell’apparire del mondo (l’apparire del sogno) non è un sogno. Provo a chiarire queste affermazioni, sebbene sia nei miei scritti che esse mostrano il loro senso appropriato.
Ecco il tavolo grande della cucina, e la ragazza che mia madre stava attendendo; il pomeriggio nell’aula della scuola elementare con i banchi neri e le luci accese, mentre fuori sta piovendo; la neve in giardino e l’amore dei maggiolini di primavera; la morte di mio fratello, di mio padre, di mia madre, di Esterina; gli anni passati con lei, la guerra, i miei studi, i miei scritti, i miei viaggi; le discussioni di filosofia con mio figlio Federico e la giornata di ieri insieme a mia figlia Anna; e poi la casa, la città , il cielo, le montagne, le altre persone, le notizie del mondo, e quante altre cose ancora!
Questi, i ricordi; questi, i contenuti del sogno. Che tutte queste cose esistano è il contenuto di una fede – anzi, della fede; cioè qualcosa che può essere negato, e di cui è anzi necessario negare che abbia un’esistenza diversa da quella che compete alle cose sognate. D’altra parte le posso elencare perché si mostrano, appaiono. Il loro apparire è il sognarle; esse sono i sognati – come, propriamente, i ricordi sono il ricordarle e il loro contenuto è il ricordato. Il sogno di cui stiamo parlando è il grande sogno, che contiene la distinzione tra sogno e veglia che facciamo da svegli.
Si è detto prima: che il sogno appaia – ossia che appaia l’unità del sognare e del sognato – non è un sogno. Cioè non è un sogno l’apparire di quell’apparire in cui consiste il sognare. Non è un sogno che appaia il sogno in cui il mondo consiste. Non è una fede che la fede esista.
Ma come?! Le cose più care un sogno?! Ma anche le più tristi e dolorose! Anche la morte! Ma anche la vita! Però non è una fede che questo sogno a cui siamo attaccati, e che anzi è noi stessi, esista: non è una fede che esso esista, è verità , appartiene alla veglia della verità . Tutto quanto si è detto ha senso, dunque, solo se si conosce che cosa sia la grande veglia rispetto alla quale il grande sogno è sogno.
Il destino e gli eterni. Chi è il narrante?
La grande veglia è ciò che nei miei scritti viene chiamato «destino della necessità » o «destino della verità », o, semplicemente, «destino». La parola de-stino indica, in quegli scritti, lo stare: lo stare assolutamente incondizionato. Il destino è l’apparire di ciò che non può essere in alcun modo negato, rimosso, abbattuto, ossia è l’apparire della verità incontrovertibile; e questo stesso apparire appartiene alla dimensione dell’incontrovertibile. Al di là di ciò che crede di essere, l’uomo è l’apparire del destino.
Al centro di ciò che non può essere in alcun modo negato sta l’impossibilità che un qualsiasi essente (cose, eventi, stati della coscienza o della natura o di altro ancora) sia stato un nulla e torni ad esserlo. Questa impossibilità è la necessità che ogni essente – dal più umbratile e irrilevante al più grande e profondo – sia eterno. Al centro di questo centro sta l’apparire del senso autentico della impossibilità e della necessità .
Nella sua essenza, ogni uomo è l’eterno apparire del destino; e nel cerchio del destino, in cui l’essenza dell’uomo consiste, va via via apparendo ciò che sopra abbiamo chiamato la manifestazione del mondo, cioè il grande sogno che include anche questo esser uomo che sono io e che sta scrivendo intorno ai propri ricordi.
Il grande sogno è ciò che nei miei scritti viene chiamato «la terra isolata dal destino». Anche il grande sogno – il grande errare – è un essente eterno, ed eterno è anche ogni suo contenuto, quindi anche quella povera cosa che sono io che sto scrivendo dei miei ricordi, con la vanità , l’insincerità , la puerilità – eterne anch’esse – che accompagnano questo proposito. Una povera cosa, tuttavia, che, come la più povera delle cose, se non ci fosse non ci sarebbe alcunché; se fosse nulla, tutto sarebbe nulla. Giacché, se tutto è eterno, tutto è legato a tutto, sì che, se un filo d’erba non fosse, nulla sarebbe.
Se questo è l’esser uomo, e se queste pagine intendono proporre un’autobiografia, chi è dunque il narrante? «Autobiografia»: scrivere la propria vita. In questo caso, la mia; ma le vicende della mia vita non appartengono a me in quanto io sono l’eterno apparire del destino, ma a me in quanto appartengo al grande sogno. Come eterno apparire del destino io guardo questa appartenenza, guardo il sogno che appare in me e di cui vedo l’errare. Come ogni altra, anche questa autobiografia appartiene a quel sogno. L’io del sogno è il narrante. L’Io del destino guarda il narrante e la narrazione. Poi ci sarà il risveglio.
La destinazione del sogno al tramonto
Ma, intanto, l’angoscia per la nostra vita ridotta a sogno assume un altro volto. Il sogno è eterno. Non ha incominciato ad esser fatto da noi, non è «fatto»; non cesserà mai di essere e di apparire in Noi, in quanto Noi siamo l’eterno apparire del destino. La nostra vita sognata è eterna e quindi è eterna la volontà di esistere in cui la vita consiste. Quindi anche i ricordi, che alla vita appartengono, e anche la volontà di scriverne e la vanità e ingenuità che a questa volontà competono. In quanto eterne, vanità e ingenuità non sono difetti che avrei potuto evitare.
Nulla, di ciò che crediamo di fare, è fatto da noi; anzi non è «fatto» in alcun senso e non può essere diversamente da come è. Che io scriva della mia vita alterando, tacendo, esagerando, comunque errando e sognando, è anche questo un eterno che appare irrecusabilmente. Parlare della mia vita è guastarla, ma è un guasto che le appartiene, non essendo essa un guasto minore del parlarne. L’osservazione scientifica descrive scrupolosamente i fenomeni – la fenomenologia di Husserl porta all’estremo questa esigenza –, ma è un fenomeno anche il guasto (eterno) in cui l’autobiografia consiste.
Si tratterà poi di mostrare, oltre la fenomenologia – e anche qui rinvio ai miei scritti –, perché ciò che appare non può essere negato; e, soprattutto, perché è necessario che il dominio del sogno tramonti. Se nel sogno si fa sentire una voce che gli dice quello che esso è, ossia che, appunto, esso è un sogno e che il suo dominio è destinato a tramontare, il sogno sorride o si infuria. Noi che apparteniamo alla terra isolata dal destino siamo il sogno che sorride e si infuria. Il tramonto del dominio del sogno non ne è l’annientamento: è il comparire della grande veglia, nel suo non esser più contrastata dal sogno.
Il sogno e il riparo
Il dominio del sogno – cioè dell’errare, della fede, della volontà . Ognuno di questi significati implica gli altri. Domina la volontà di vivere, che è insieme volontà di allontanare il dolore e la morte. Domina quindi, innanzitutto, la convinzione che le cose siano un diventar altro da ciò che sono. Il diventar altro è la morte di ciò che si è. Tale convinzione è la negazione, per lo più inconsapevole, del destino. Ed è la radice dell’angoscia e della sofferenza umana. Propriamente, l’uomo è questa radice. (Ma noi siamo infinitamente di più dell’uomo.)
È quindi inevitabile che, da che nasce, l’uomo avverta come prioritario l’andare alla ricerca di un Rimedio, di un Riparo che gli consenta di sopportare o addirittura di vincere l’angoscia, la sofferenza, la morte. Nascere è avvertirle da subito, sia pur confusamente. L’istinto animale, in forma forse ancor più confusa, è questo avvertire.
Lo scopo essenziale, fondamentale di ogni forma di civiltà e di cultura è il continuo potenziamento del Riparo. Ogni gesto, azione, pensiero, affetto della vita quotidiana è sin dalla nascita un’espressione della volontà di essere al Riparo, cioè della volontà di potenza e di salvezza. Anche un bambino che un pomeriggio dalla luce grigio-pervinca che precede il temporale sta sotto il tavolo grande della cucina ad aspettare un estraneo si sta mettendo a quel Riparo.
Accade a quel bambino come a ogni altro uomo. Anche se quel bambino, divenuto vecchio, accetta di scrivere la propria autobiografia, anche questo è un modo di sentirsi più al sicuro. Anche nella vita quotidiana ci sono i piccoli e i grandi modi di ripararsi.
Per quanto mi riguarda, tra i piccoli questa autobiografia, tra i grandi Esterina. L’amore è una grande forma del Riparo. L’amante vuole unirsi il più possibile all’amata perché vede in lei il Riparo a cui crede di potersi identificare.
È la stessa atmosfera del cristiano profondamente convinto, che crede di potersi unire a Cristo e a Dio e vivere all’interno del Riparo, in qualche modo identificandovisi.
Cu si curca co’ pupi
Tutto questo avviene, all’interno del dominio del sogno. Anche la prosecuzione del piccolo riparo in cui consiste la scrittura dei miei ricordi. Comunque – e restando anche qui all’interno di quel dominio – vorrei aggiungere che pubblicare un’autobiografia è dar confidenza al prossimo. Che a volte la merita, altre no. In questo secondo caso, il peccato originale è di chi la confidenza l’ha data. L’ha data ai «pupi» e si merita di esser da loro compatito. È un «pupo» uno che approfitta della confidenza che, sbagliando, gli si dà . Mio padre diceva spesso, in siciliano: «Cu si curca co’ pupi cacatu si leva», che più o meno significa: «Chi va a dormire con i bambini piccoli, poi si alza che è tutto sporco di cacca».
Mineo
Urbs Maenarum Vetustissima et Jucundissima. È il modo in cui Mineo, in provincia di Catania, qualifica se stessa. Esisteva già mezzo millennio prima di Cristo. Probabilmente il suo nome significa «accampamento di soldati», lo si intenda nella sua derivazione greca o punica. Patrona dell’Urbs, la vergine sant’Agrippina. Nel 312 d.C., Severino, vescovo di Catania, le consacrò un tempio. A Mineo è nato mio padre.
La casa dei Severino era contigua a quella dei Capuana. Le due famiglie si conoscevano. Mio nonno paterno era «giudice di pace», di famiglia nobile mia nonna. Avevano un vasto agrumeto che da Mineo andava verso Palagonia e Scordia. Faceva gola a molti. Per di più sembra che mio nonno fosse un gran seduttore. Fu ucciso. Un parente andò in galera e altri si premurarono di proteggere la vedova e di amministrarne il patrimonio. Federico era il sesto di sei figli. Sarebbe diventato mio padre. Mi raccontava spesso dello «zio canonico», che in tutta la faccenda aveva avuto una parte poco chiara.
Morto mio nonno, un poco alla volta la proprietà venne venduta. A un certo momento si presentò il dilemma: dare una dote consistente alla meno brutta delle mie zie, chiesta in moglie da un bell’uomo in buone condizioni economiche – la qual cosa avrebbe però lasciato all’asciutto tutti gli altri –, o spartire in modo più equo quanto era rimasto? Fu scelta la prima strada. Anche perché nel frattempo i due fratelli maggiori di mio padre stavano diventando gesuiti e le altre due sorelle si fecero suore. Da quanto so, le vocazioni di quest’ultime furono in parte causa e in parte effetto di quella scelta. Per i fratelli la cosa fu diversa. Colti, convinti, erano anche dei begli uomini.
Lo zio Sebastiano e Garibaldi
Dello zio Sebastiano ho già ricordato la sua conoscenza di Gentile. La prima volta che lo incontrai fu al collegio dei gesuiti di Messina. Era già molto vecchio. Io ero in Sicilia perché, essendo libero docente, potevo fare il presidente di commissione agli esami di maturità ; i primi soldi che guadagnai.
A Palermo, l’anno prima, nel 1952, avevo portato con me Esterina. Dalla nostra camera vedevamo la cattedrale, al cui interno sono custoditi i sepolcri di Federico II e di Costanza d’Altavilla. E concepimmo Federico. Ma con la nascita di nostro figlio, l’anno dopo, in Sicilia, andai solo. E lì incontrai, appunto, lo zio Sebastiano. Era sulla terrazza sovrastante il collegio, seduto sotto un ombrellone. Si vedeva il mare. Ci abbracciammo quasi senza parlare, mi fece sedere, mi guardò un po’. «State tutti bene?» mi chiese, e subito si mise a dire che Garibaldi aveva rovinato la Sicilia e mi spiegò a lungo perché l’aveva rovinata. Poi ci salutammo.
Mio padre e mia madre
Mio padre rinunciò alla sua parte di eredità . Firmò senza difficoltà , scegliendo la carriera militare. Frequentò a Roma l’Accademia militare, diventando ufficiale effettivo del Regio Esercito Italiano nell’Arma dei Bersaglieri. Fu anche maestro di scherma e quando ero ragazzo me l’aveva insegnata bene. Spade, fioretti, sciabole e maschere sono ora appese a un muro di pietra della casa di mio figlio Federico a Capriolo, in Franciacorta, dove ha il suo studio di scultore.
Mio padre firmò senza difficoltà quella rinuncia anche per un altro motivo. Intorno al 1910 venne a Brescia col grado di tenente dei Bersaglieri. Conobbe un sottotenente dei Bersaglieri, fratello di quella che sarebbe diventata mia madre. Una volta, a Natale, invitò mio padre a Bovegno, dove conobbe mia madre, una gran bella ragazza; e anche mio padre era un bell’uomo. Nel ’15 scoppiò la guerra. Rinviarono le nozze. Dal fronte, dal ’15 al ’17, quando fu ferito alla gola sull’Isonzo, mio padre aveva mandato tutti i suoi stipendi a mia madre, che li depositava in banca. Quando, nel ’17, si sposarono erano benestanti.
Il Natale in cui conobbe mia madre, mio padre non andò in Sicilia perché l’anno prima un sottomarino tedesco aveva silurato e affondato, nello stretto di Messina, il ferryboat che trasportava il treno su cui avrebbe dovuto viaggiare e sul quale non c’era perché si era addormentato, perdendo la coincidenza col treno per Reggio Calabria.
Conca di Plezzo 1917 e nozze
Poco prima della battaglia di Caporetto i miei andarono in viaggio di nozze ad Acireale, vicino ad Aci Trezza. Mio padre – e lo ripeteva spesso a noi ragazzi – si diceva contento di non aver dovuto e potuto partecipare a quella sconfitta. Conservo ancora la pallottola di piombo, nera, di uno Shrap...