La donna che ascoltava i colori
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La donna che ascoltava i colori

  1. 378 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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La donna che ascoltava i colori

Informazioni su questo libro

È una cacciatrice di quadri, Lauren O'Farrell, una detective impegnata a rintracciare le opere d'arte perdute o trafugate durante la Seconda guerra mondiale per poi restituirle ai legittimi proprietari. Il suo regno sono gli inventari dei musei, le collezioni private di ricchi mecenati, le case d'asta. L'indagine che adesso ha per le mani, però, è diversa da tutte le altre: la ricerca di un Kandinsky bollato dal regime nazista come esempio di "arte degenerata" l'ha infatti portata a bussare alla porta di un attico con vista su Central Park. Ne è proprietaria l'algida e spigolosa ottuagenaria Isabella Fletcher, la cui madre, secondo i sospetti di Lauren, si sarebbe resa complice dei furti d'arte perpetrati sotto l'egida del Terzo Reich: una verità scomoda di cui solo Isabella può fornire le prove definitive. Ma la storia che la donna, nel corso di due intensi pomeriggi, racconta a Lauren capovolgerà tutte le sue certezze. Perché l'epopea del Kandinsky scomparso si intreccia con quella, tragica e meravigliosa, di Hanna, giovane cameriera col dono di "udire" i colori, che per sete d'arte e d'amore conquista e perde ogni cosa. Coinvolgente e pieno di sorprese, La donna che ascoltava i colori è un tributo al coraggio dei pochi che in nome delle proprie passioni hanno saputo sfidare persino la Storia.

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2012
Print ISBN
9788817057059

1

Lauren e Isabella

New York
Agosto 2009
Uscendo di corsa dalla metropolitana, accaldata e con il cuore in tumulto, Lauren O’Farrell sapeva che la causa del suo stato non era tanto l’ondata di caldo che aveva investito la città, ma il nervosismo. Non poteva rischiare di arrivare in ritardo all’appuntamento con Isabella Fletcher. In vita sua non aveva mai fatto niente di simile. Certo, magari si era inventata qualche innocuo stratagemma per ottenere informazioni, ma mai una menzogna tanto spudorata allo scopo di introdursi in casa di qualcuno. D’altra parte, non avrebbe mai strappato un colloquio alla signora Fletcher accusando apertamente sua madre di essere una collaboratrice di Hitler.
Così quella mattina, al telefono, si era presentata come perito investigativo incaricato di contattare i condomini in merito a una causa per risarcimento danni ventilata da uno dei proprietari dello stabile. Tutte invenzioni. Isabella Fletcher era parsa scettica e aveva chiesto maggiori dettagli in merito, costringendola a trincerarsi dietro gli accertamenti ancora in corso e a tirare in ballo la necessità di non compromettere le indagini. Le aveva domandato il numero della licenza di investigatrice, della quale Lauren era effettivamente titolare, dopodiché aveva tagliato corto: doveva rifletterci, aveva detto, avrebbe richiamato lei. Lauren ebbe l’impressione di aver bruciato la sua occasione. Nelle due ore successive si era rimproverata aspramente per avere scelto quella scusa tanto campata per aria. Ma poi era squillato il telefono, e senza nemmeno preoccuparsi di chiederle se fosse libera, Isabella Fletcher le aveva fissato un appuntamento per le due dello stesso pomeriggio.
L’ingresso del palazzo, ad appena due isolati da Central Park, era piantonato da un custode corpulento. L’uomo la salutò sfiorandosi la visiera del berretto, e pretese un documento di identità. Lo esaminò con attenzione, poi le fece strada: «La signora Fletcher la attende».
L’atrio era deserto. Una coppia uscì dall’ascensore, e Lauren ne prese il posto. Mentre saliva, avvertì un crampo alla bocca dello stomaco. Cercò di darsi coraggio, ripetendosi ancora una volta che stava facendo la cosa giusta.
La donna anziana che aprì la porta, senza togliere la catenella, le puntò addosso gli occhi azzurro chiaro e in un tono severo quanto il suo sguardo disse: «Lei sarebbe l’investigatrice, la signorina O’Farrell?». Nessuna traccia di accento straniero, un dettaglio che Lauren aveva già notato nel corso della telefonata.
«Sì. Piacere di conoscerla, signora Fletcher.»
Scrutandola dalla testa ai piedi, e con l’aria di averci già ripensato, Isabella Fletcher chiese di vedere il suo tesserino e la patente di guida. Lauren li infilò nello spiraglio. La donna sembrava intenzionata a sbatterle la porta in faccia, invece commentò, asciutta: «La immaginavo diversa».
Non era la prima volta che se lo sentiva dire. Cose tipo:Pensavo fosse più alta, come se la sua voce al telefono superasse di una spanna il suo metro e cinquantotto. Oppure:Dal cognome la credevo irlandese (ci voleva tanto a dedurre che aveva sposato un americano di origini irlandesi?). Poi c’era sempre qualcuno che l’aveva immaginata più giovane (di anni ne aveva trentasei), e qualcuno che si meravigliava davanti ai suoi ricci neri e agli occhi scurissimi, che, come diceva suo padre, le venivano dritti dritti da nonna Rosenthal.
Lentamente, la porta si aprì.
«Si accomodi» disse la signora Fletcher, invitandola a entrare con un gesto di ospitalità, anche se il tono monocorde suggeriva ben altro. Indossava un elegante completo di lino azzurro e un filo di perle, e dall’acconciatura impeccabile della chioma argentata pareva appena uscita dal «salone di bellezza», come ancora lo chiamava la nonna di Patrick.
Dalla cucina provenne il fischio di un bollitore. «Posso offrirle una tazza di tè?». Sembrava aver calibrato i tempi perché fosse pronto nell’attimo preciso in cui mettevano piede in salotto. Allora ci aveva visto giusto, imponendosi la massima puntualità…
«Sì, grazie» rispose, malgrado un tè bollente non fosse la cosa più desiderabile, al momento.
Isabella le indicò il divano e sparì in cucina, lasciandole il tempo di accomodarsi, sistemare ai suoi piedi la borsa voluminosa e dare un’occhiata in giro. L’aria profumava di fiori freschi – proprio accanto alla porta, su un tavolino, c’era un mazzo di rose gialle in un vaso di cristallo – e di un’altra essenza indefinibile, vagamente medicinale; la avvertiva spesso nelle case dei clienti più anziani. Le tende alla finestra erano tirate per metà, e la stanza era silenziosa, in penombra. Passò in rassegna il caminetto di marmo e gli scaffali su misura, stipati di volumi. L’ampio divano e le poltrone sommersi di cuscini di seta ricamati poggiavano su un pavimento in parquet coperto qua e là da tappeti orientali, logori quanto bastava a dimostrarne l’autenticità. Ma se l’arredo era tradizionale, i quadri, i disegni e le stampe alle pareti erano decisamente moderni. Espressionisti. Impressionisti. Astrattisti. Rapidi abbozzi in inchiostro di china. Il cuore di Lauren ebbe un sussulto. Possibile che fossero originali?
Dai colori vivaci e dagli animali ritratti riconobbe quello che pareva un Franz Marc sopra la mensola del caminetto; poi il paesaggio estivo di Murnau dipinto da Gabriele Münter. Un’incisione troppo lontana per distinguerne i dettagli ricordava lo stile di Otto Dix. Tutti artisti tedeschi le cui opere, a suo tempo, erano state bollate da Hitler come arte degenerata. Stava per alzarsi e studiarli da vicino, quando la signora Fletcher tornò reggendo un vassoio. Aveva modi d’altri tempi, forse un po’ troppo formali, ma molto aggraziati; e doveva avere tra i settanta e gli ottant’anni, età che concordava con i sospetti di Lauren.
«Si è data troppo disturbo» le disse, mentre la donna appoggiava sul tavolo il vassoio: teiera e tazze in porcellana, tovaglioli in tessuto, due minuscoli cucchiaini, una zuccheriera e un piatto di biscotti perfettamente rotondi, di sicuro confezionati.
«Ormai in casa non li faccio quasi più» sembrò giustificarsi con un accenno di rimpianto. Versò il tè, offrì lo zucchero, che Lauren declinò, e sollevò il piatto dei biscotti. Lauren ne accettò uno per educazione.
Infine Isabella Fletcher sedette su una poltrona con lo schienale alto, mentre lei, sul divano troppo morbido, si sentiva sprofondare. Cercò di porvi rimedio infilando con discrezione un paio di cuscini dietro la schiena. La signora aggiunse una microscopica quantità di zucchero alla sua tazza e mescolò il tè.
«I suoi quadri sono bellissimi» commentò Lauren con apparente noncuranza.
Isabella annuì.
«Molto moderni» insisté Lauren, e aggiunse «coloratissimi» come una perfetta profana. «Sono originali?»
«Moderni.» La donna sorrise. «Molti sono più vecchi di me. Alcuni risalgono a oltre un secolo fa.»
Lauren scosse la testa, fingendosi incredula.
«Lei ha idea di quanto varrebbero gli originali?» chiese la signora rispondendo indirettamente alla sua domanda.
Lauren si strinse nelle spalle, dando a intendere che no, non ne aveva idea, e attese in silenzio, nella speranza che la signora proseguisse. Non vedeva l’ora di raccontare tutto a Patrick.
«Dunque…» riattaccò la signora Fletcher, lisciandosi la gonna con una mano e con il tono di chi non ha tempo da perdere. Prese un biscotto e lo appoggiò sul proprio piattino.
Lauren estrasse penna e taccuino dalla borsa, pronta a sostenere la parte. Si era preparata una serie di domande apparentemente innocenti – Da quanto tempo abita nello stabile? – con le quali contava di indurre Isabella Fletcher a rivelare qualcosa del suo passato. Sorrise, ma la signora rispose con un’espressione glaciale.
«Io so chi è lei, in realtà» dichiarò, così, di punto in bianco.
Lauren abbassò gli occhi sul taccuino, domandandosi cosa l’avesse tradita. «Oh…» fece, scostando una ciocca di capelli dalla fronte. Alzò la testa.
«Preferirei che non prendesse appunti» aggiunse la signora Fletcher. Lanciò un’occhiata alla sua borsa. «Ha un registratore?»
Lauren scrollò la testa; rinfoderò taccuino e penna.
«È venuta per il Kandinskij» disse Isabella.
«Il… Kandinskij?» sussurrò Lauren quando finalmente ritrovò la voce, mentre il suo sguardo tornava d’istinto alle pareti.
«No, no.» La signora Fletcher fece una risatina. «Non è qui. È troppo grande per questa stanza.» Poi, senza darle il tempo di replicare: «Lei è quella detective. La cacciatrice di quadri».
Non era stata una domanda, bensì una sentenza senz’appello. E Lauren fu attraversata da un brivido. Restarono zitte entrambe, scambiandosi una rapida occhiata. La signora si era aggiudicata un vantaggio e lo sapeva – si vedeva dalla piega decisa delle labbra –, e le stava concedendo il tempo di incassare il colpo.
L’informazione poteva venirle da un’unica fonte, cioè il breve articolo pubblicato un paio d’anni prima sulla rivista degli ex alunni dell’università di Lauren, nel quale si spiegava il suo lavoro: rintracciare opere d’arte andate perdute durante la seconda guerra mondiale, in particolare quelle confiscate alle famiglie ebree. Le sue ricerche l’avevano portata a frugare nelle collezioni private tanto quanto negli inventari di rispettatissimi musei, anzi a volte erano i musei stessi ad assumerla per fare luce sulla provenienza di un’acquisizione sospetta.
Cacciatrice di quadri. Lei non si sarebbe mai sognata di definirsi così, ma quella era l’etichetta che le avevano appioppato.
Dopo il dottorato aveva lavorato come assistente in un museo, poi aveva tenuto un corso serale all’università per sei mesi, e in seguito era stata assunta come vicecuratore della sezione d’arte moderna al museo municipale di Cleveland con il compito di catalogare la collezione e verificare le nuove acquisizioni, e così si era familiarizzata con sigilli, codici numerici, bolli doganali, iscrizioni e contrassegni di inventario, un’esperienza che le aveva insegnato che dal retro di una tela si impara quanto dal suo recto. E che i nazisti erano molto meticolosi nel compilare registri.
E poi durante la gravidanza – imprevista, ma lei e Patrick l’avevano accolta con entusiasmo –, uno studio di New York aveva offerto un posto a suo marito; e lei aveva deciso di mettersi in proprio, perché così avrebbe potuto conciliare al meglio lavoro e maternità. Da principio non era stato facile, ma aveva tenuto duro e ce l’aveva fatta. Adam adesso aveva tre anni, e lei si era costruita una reputazione di tutto rispetto.
La palpebra sinistra di Lauren tremò, un tic nervoso che si augurò non venisse notato. «Intende Vasilij Kandinskij, il pittore russo?» domandò, nonostante fosse una domanda stupida.
«Sì, era russo, però studiò a Monaco. Le opere più importanti le realizzò tutte in Germania. Considerando nel complesso il suo lavoro, bisogna riconoscere alla Germania il merito della sua formazione e della sua ispirazione.»
Lauren si stava ancora chiedendo perché la signora avesse chiamato in causa proprio un Kandinskij. Era uno dei quadri sui quali Hitler aveva messo le mani? Forse Isabella Fletcher pensava che la sua visita avesse a che fare con i quadri sottratti alle famiglie ebree?
«La sua famiglia è originaria di Monaco?»
«Lo era mio padre. A Monaco conobbe mia madre.»
«E sua madre dov’è nata?»
«In Baviera. La sua famiglia allevava mucche da latte nella regione dell’Algovia.»
Era proprio sul conto della madre che Lauren voleva indagare. Se fosse riuscita a tenere segreto il suo vero obiettivo, forse la signora si sarebbe lasciata sfuggire qualche informazione. Sii prudente, rammentò a se stessa.
«In quella zona si produce ancora un formaggio squisito» continuò Isabella. «I miei zii trasferirono l’attività qui, negli Stati Uniti. Conosce la Koebler Creamery?»
«Oh, certo.» Lauren le scoccò un sorriso innocente. «Adoro i loro gelati.» Precisamente la pista che l’aveva portata lì. Era stato proprio attraverso la famiglia Koebler che era risalita alla madre di Isabella, Hanna Schmid, morta sessant’anni addietro.
«Il Kandinskij è in famiglia da molti anni» tornò alla carica la signora.
«È stato acquistato in Germania?»
Isabella batté le palpebre una, due volte, poi lanciò un’occhiata al portaritratti accanto a sé. «Andrew e io non abbiamo avuto figli.» La foto ritraeva un bell’uomo sulla cinquantina. Andrew Fletcher, presumibilmente. Un velo di lacrime le offuscò gli occhi. «Non è rimasto nessuno della mia generazione, nel mio ramo della famiglia. Mio fratello e la mia sorellastra sono scomparsi da tempo, da molti, molti anni. Tutti i miei cugini sono morti. C’è solo la sorella di Andrew, e nemmeno lei è più una ragazzina.» Il tono si era addolcito. «I Fletcher della nuova generazione, i nipoti, li conosco a malapena. Non vengono mai a trovarmi» aggiunse, scrollando la testa con disappunto. «Erediteranno l’azienda di famiglia, ma il quadro…» Non terminò la frase.
Le dita di Lauren avevano preso ad accarezzare la fodera di seta di un cuscino, soffice e confortante come l’orlo delle copertine dei neonati.
La signora disse: «Lei è senz’altro mossa dalle migliori intenzioni, ma posso garantirle che il Kandinskij è stato acquisito legalmente». Lauren avvertì un lieve tremito nella sua voce e annuì per rassicurarla e incoraggiarla a proseguire.
«So benissimo che durante la guerra molte opere d’arte furono rubate. Notizie del genere sono all’ordine del giorno.» La voce era tornata salda, malgrado continuasse a tormentare il filo di perle. «Rispunta un quadro di grande valore dato per disperso durante il conflitto, e dal nulla sbucano famiglie che lo reclamano, quando invece i proprietari sono convinti di ave...

Indice dei contenuti

  1. Cover
  2. Rizzoli best
  3. Frontespizio
  4. 1 - Lauren e Isabella
  5. 2 - Hanna
  6. 3 - Lauren e Isabella
  7. 4 - Hanna
  8. 5 - Hanna
  9. 6 - Hanna
  10. 7 - Hanna
  11. 8 - Lauren e Isabella
  12. 9 - Hanna
  13. 10 - Lauren e Isabella
  14. 11 - Hanna
  15. 12 - Lauren e Isabella
  16. 13 - Hanna
  17. 14 - Lauren e Isabella
  18. 15 - Hanna
  19. 16 - Lauren e Isabella
  20. 17 - Hanna
  21. 18 - Lauren e Isabella
  22. 19 - Hanna
  23. 20 - Hanna
  24. 21 - Hanna
  25. 22 - Hanna
  26. 23 - Hanna
  27. 24 - Lauren e Isabella
  28. 25 - Hanna
  29. 26 - Hanna
  30. 27 - Hanna
  31. 28 - Lauren e Isabella
  32. 29 - Hanna
  33. 30 - Hanna
  34. 31 - Lauren
  35. 32 - Hanna
  36. 33 - Hanna
  37. 34 - Hanna
  38. 35 - Lauren e Isabella
  39. 36 - Hanna
  40. 37 - Lauren e Isabella
  41. 38 - Isabella
  42. 39 - Lauren e Isabella
  43. 40 - Lauren
  44. Ringraziamenti