Prefazione
Titolo e sottotitolo di questo volume sono simmetrici a quelli di un altro mio libro: Il giogo. Alle origini della ragione: Eschilo (Adelphi, 1989). La simmetria è nelle cose. Nella Prefazione de Il giogo si dice: «Questo libro non è un saggio intorno a un antico poeta greco, e nemmeno intorno a un filosofo – anche se Eschilo è uno dei più grandi pensatori dell’Occidente. Insieme a pochi, egli apre il sentiero lungo il quale ormai cammina tutta la terra. Lo si può chiamare il "sentiero della Notte" (Parmenide, fr. 1, v. 11), perché in esso si dispiega l’essenza stessa dell’Errore. La grandezza di tale essenza sfugge alle civiltà che ne sono dominate. Sfugge anche la grandezza del suo inizio – anche la grandezza del pensiero di Eschilo, quindi».
Anche di questo libro si può dire che non è un saggio intorno a Leopardi, e nemmeno intorno a uno dei più grandi pensatori moderni. Certo, nonostante le rivalutazioni, si continua a ignorare che Leopardi è uno dei più grandi pensatori dell’Occidente. Ma soprattutto si perde di vista che egli apre l’ultimo tratto del «sentiero della Notte», e vede dove il sentiero conduce. Appunto per questo egli sta «alla fine dell’età della tecnica». L’ultimo tratto è l’età della tecnica. Leopardi non solo è il primo pensatore dell’età della tecnica, e apre la strada poi percorsa da tutta la filosofia contemporanea, ma vede il futuro essenziale dell’Occidente: l’approssimarsi del paradiso della civiltà della tecnica e l’inevitabilità del suo fallimento. Attraverso il suo pensiero, l’Occidente scorge il senso del proprio movimento storico, e dove esso conduce. Appunto al senso e alle possibilità del paradiso della tecnica si rivolge un altro mio libro, La filosofia futura, Rizzoli, 1989 (cfr. soprattutto Parte I – IV), che, insieme a Il giogo, costituisce il punto di riferimento e il presupposto immediato di queste pagine.
Ma proprio per queste ragioni si può dire che questo libro non faccia altro che lasciar parlare Leopardi. Ce n’è bisogno. Non lo si è mai veramente ascoltato. Schopenhauer, Wagner, Nietzsche sanno di trovarsi di fronte a un genio. Ma quando Nietzsche, che ha un’influenza decisiva nella cultura contemporanea, scrive che Leopardi è il maggior prosatore del secolo, o «il filologo ideale», contribuisce in modo determinante a nasconderne la grandezza filosofica – della quale Nietzsche è profondamente debitore. In modo analogo, quando De Sanctis ritiene che il pensiero di Leopardi sia sostanzialmente identico a quello di Schopenhauer, e ne esprima anzi in modo più pregnante la sostanza, egli non fa altro che cancellare la filosofia di Leopardi, la fa sparire. Per la cultura marxista si tratta di una filosofia autenticamente rivoluzionaria; eppure anche questa rivalutazione del pensiero di Leopardi ha contribuito a ridurne il peso e il significato, perché lo considera pur sempre nel contesto della filosofia contemporanea, in cui domina il pensiero di Marx; o lo riconduce alla filosofia e alla cultura dell’illuminismo: non ci si avvede che è proprio il pensiero di Leopardi ad aver costituito, in modo sotterraneo ma decisivo, tale contesto e ad aver voltato le spalle alla tradizione dell’Occidente e a quanto di essa rimane nella stessa filosofia moderna. Non si ascolta il grande dialogo di Leopardi con l’intera civiltà e cultura dell’Occidente e con il futuro stesso dell’Occidente. Pascal, Rousseau, Schiller, lo stesso Schopenhauer sono ancora rivolti al passato. Leopardi apre invece la strada percorsa poi dalla cultura contemporanea. Indica la direzione essenziale della strada.
Si continua oggi a parlare del «pensiero poetante» di Hölderlin e di Heidegger. Anche Hölderlin, come Leopardi, dialoga in grande con i Greci; ma anche lui guarda al passato, spera che gli Dèi fuggiti abbiano a ritornare. Leopardi, mezzo secolo prima di Nietzsche, sa che gli Dèi non sono dei fuggitivi, ma dei morti. Il contenuto del suo pensiero poetante è essenzialmente diverso e l’intreccio di poesia e filosofia apre l’ultima possibilità dell’uomo, alla fine dell’età della tecnica.
Si ignora anche la grandezza filosofica di Eschilo. E la cosa è anche più grave. Insieme a pochi altri, egli apre il cammino dell’Occidente. Pensa per primo che la verità immutabile è il rimedio del dolore provocato dall’annientamento della vita. Leopardi, per primo, pensa che la verità è appunto l’annientamento della vita e delle cose, e che quindi non può essere il rimedio del dolore. La verità è il dolore. È il tratto fondamentale della filosofia contemporanea. «La verità, come rimedio, soggioga il divenire angosciante del mondo. Questo giogo è ciò che la tradizione dell’Occidente chiama "ragione". Poi, l’Occidente vorrà liberarsi dal giogo. Ma anche la liberazione dal giogo, come l’imposizione di esso, si mantiene in rapporto al senso greco del divenire, cioè del dolore che angoscia» (Il giogo, cit., Prefazione). Il pensiero di Leopardi è la prima espressione della volontà di liberarsi dal giogo e della coscienza dell’inevitabilità di tale liberazione. Apre, appunto, l’ultimo tratto del «sentiero della Notte». Liberato dal giogo, il divenire domina. Il nulla – da cui tutto proviene e in cui tutto ritorna – domina. Dopo il fallimento di tutti i «rimedi», la poesia rimane l’ultimo rimedio, «l’ultimo quasi rifugio». La grandezza del pensiero di Leopardi sta nel modo determinato in cui esso intende l’intreccio del nulla e della poesia alla fine dell’età della tecnica. Se la civiltà occidentale vuol essere coerente alla propria essenza, deve riconoscere che la propria filosofia è la filosofia di Leopardi. L’autentica filosofia dell’Occidente, nella sua essenza e nel suo più rigoroso e potente sviluppo, è la filosofia di Leopardi.
Se ci si avvicina al significato più profondo della nostra civiltà, non si può dunque perdere di vista il rapporto essenziale che unisce e insieme divide Eschilo e Leopardi. Se si continua a ignorare l’evento straordinario, cioè il senso del «nulla» che il pensiero greco ha per la prima volta testimoniato, non solo non si comprende che cosa siano la «tragedia» attica e il «pessimismo» di Leopardi, ma non si riesce a scorgere quel che più conta: l’anima dell’Occidente: la dominazione del nulla sull’intero sviluppo della nostra civiltà.
Il pensiero che si mantiene libero, al di fuori di questa dominazione, non può non scendere nella profonda grandezza dei maestri del nulla.
Questo è il primo dei due volumi che intendono rivolgersi al carattere decisivo del pensiero di Leopardi in relazione al presente e al futuro dell’età della tecnica. Mostra la configurazione di fondo dei temi; e solo in alcuni testi, soprattutto gli ultimi e i primi, profondamente solidali – giacché l’unità rigorosa e potente, la continuità profonda del pensiero di Leopardi è stata essa stessa ignorata. Al volume successivo, il compito di portare alla luce gli sviluppi fondamentali.1
Per i Pensieri di varia filosofia e di bella letteratura (lo Zibaldone) faccio riferimento all’edizione Le Monnier, Firenze 1930-32, e così pure per l’Epistolario (1925); per il resto, a Opere, a cura di Sergio Solmi, Riccardo Ricciardi Editore, Milano-Napoli 1956.
Primavera 1990
Natale 2004
I
LEOPARDI E I GRECI
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I
Il dolore e la verità
1. Il fuoco annientante
Immagine e parte della natura – dice il Canto – il vulcano incombe minaccioso. «... formidabil monte / sterminator Vesevo.» È formidabile (spaventevole) perché stermina, «annulla».
L’«orrore» scaturisce dalla visione e dall’attesa dell’annientamento: ai piedi del monte giace lo «scheletro» di Pompei, e la natura può «annichilare in tutto» la stirpe dell’uomo.
A notte, la minaccia del fuoco annientante diventa ancora più angosciosa:
E nell’orror della secreta notte
per li vacui teatri,
per li templi deformi e per le rotte
case, ove i parti il pipistrello asconde,
come sinistra face
che per vòti palagi atra s’aggiri,
corre il baglior della funerea lava,
che di lontan per l’ombre
rosseggia e i lochi intorno intorno tinge.
(La ginestra o il fiore del deserto,
vv. 280-88)
Sono i teatri, i templi, le case dell’antica città distrutta. Nella notte, corre attraverso le rovine il bagliore della lava che rosseggia da lontano. Attraversa la città morta, come una fiaccola che s’aggiri in vuoti palazzi.
La luce del fuoco, sul Vesuvio, è il segno della sventura che incombe sull’uomo. Il fuoco spegne la vita, produce le tenebre della notte. Appunto per questo la notte è «secreta», cioè (oltre che imperscrutabile) separata dalla vita.
2. Il fuoco di Argo
Il fuoco si accende nella notte anche sul monte Aracneo, da cui è sovrastata la città di Argo. Così, nel Prologo dell’Orestea di Eschilo.
Da cima a cima, scavalcando mari e terre, il segnale della fiamma giunge ad Argo per annunziare che Troia è stata vinta. Un fuoco di gioia – sembra. Nella notte, lo vede per prima la sentinella che da gran tempo lo attende, vegliando sul tetto del palazzo degli Atridi: «Oh! benvenuta fiamma della notte! che fai splendere la luce del giorno e preannunci danze in Argo e danze, sprigionate da questo portento. Ah! Ah! griderò l’annuncio alla sposa di Agamennone perché balzi dal letto e lanci per questo fuoco un urlo di gioia nella casa» (Agamennone, vv. 21-29).1
Ma è un fuoco ambiguo. Non solo perché è il bagliore delle fiamme che distruggono la città vinta: Agamennone, l’eroe vincitore, giunge ad Argo ed è ucciso dalla sposa.
Anche il fuoco che splende su Argo è lava funerea; il suo bagliore si aggira come una fiaccola sinistra nel palazzo degli Atridi.
Nell’attesa del segnale del fuoco, dal suo duro letto «di brina e mai visitato dai sogni» la sentinella ha «imparato a conoscere il concilio notturno degli astri, scintillanti sovrani che portano ai mortali inverno e estate, stelle che sorgono e tramontano raggianti nell’etere» (vv. 4-7).2
3. «Scintillanti sovrani» e «nodi quasi di stelle»
Ma quando il fuoco mostra apertamente la propria natura distruttiva, diversa forma assume l’attesa di esso. «... E spesso / il meschino in sul tetto / dell’ostel villereccio, alla vagante / aura giacendo tutta notte insonne / e balzando più volte, esplora il corso / del temuto bollor, che si riversa / dall’inesusto grembo / su l’arenoso dorso ...» (La ginestra, vv. 248-55). E quando lo vede appressarsi desta la moglie e i figli per fuggire (vv. 258-62).
Anche Leopardi, la notte, si porta alle falde del vulcano e sedendo sul «flutto indurato» della lava si volge alle stelle:
Sovente in queste rive,
che, desolate, a bruno
veste il flutto indurato, e par che ondeggi,
seggo la notte; e su la mesta landa
in purissimo azzurro
veggo dall’alto fiammeggiar le stelle,
cui di lontan fa specchio
il mare, e tutto di scintille in giro
per lo voto seren brillare il mondo.
(vv. 158-66)
Ma le stelle non sono più «scintillanti sovrani», luci divine che dispensano il tempo ai mortali, ma «nodi quasi di stelle» (v. 176), che sembrano «nebbia» (v. 177), «un punto / di luce nebulosa» (vv. 182-83), per quanto smisurati siano di grandezza e di numero: destinati anch’essi al niente in cui tutte le cose ritornano.
Nella notte, alla sentinella di Argo giunge la corsa dei fuochi accesi via via sui picchi dell’Ida, del Macisto, del Citerone e infine sul monte Aracneo. Ora il fuoco si mostra sulla cima del Vesuvio.
Ma per Eschilo la corsa dei fuochi annientanti è sovrastata e guidata da costellazioni divine, che salvano il mortale dall’angoscia e gli consentono di sopportare il dolore.
4. Eschilo e Leopardi
Anche se all’intera cultura occidentale sfugge la grandezza e il significato autentico del pensiero filosofico di Eschilo, Eschilo, per la prima volta nella storia dell’Occidente, pensa in modo esplicito che la verità è il rimedio del dolore – il «dolore» e la «verità», intesi nel significato che il pensiero greco, sin dal suo inizio, assegna per la prima volta a queste due parole.3
Insieme a pochi altri, Eschilo apre il sentiero lungo il quale cammina ormai tutta la Terra.
Leopardi apre l’ultimo tratto del sentiero: quello dove ci si allontana sempre più da tutto ciò che la tradizione dell’Occidente ha costruito lungo il proprio cammino; ma dove, insieme, si rimane più fedeli alla direzione originaria del sentiero – quello dove più ci si allontana dalla «verità» che i primi pensatori greci, e dunque anche Eschilo, portano alla luce; ma dove più si rimane fedeli al senso del «dolore» che, anche qui per la prima volta, è stato da essi indicato.
L’ultimo tratto del cammino aperto dai Greci è l’età della tecnica. Leopardi è il primo pensatore dell’età della tecnica e insieme è il pensatore del compimento di questa età. Non solo pensa per la prima volta in modo esplicito, all’inizio dell’età della tecnica, che la «verità» non può essere il rimedio del «dolore», ma pensa la condizione dell’uomo quale dovrà apparire al compimento del tentativo di porre la scienza e la tecnica come rimedio del «dolore».
Anche Leopardi ha avuto in sorte ...