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O i costumi di questo secolo

  1. 400 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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O i costumi di questo secolo

Informazioni su questo libro

L'arricchito, il falso devoto, il collezionista invasato. L'uomo d'ingegno di professione, il distratto cronico, il ciarlatano di successo. La potenza del denaro che si impone sul merito, l'inutilità della guerra, il dominio dell'esteriorità. Sul vasto palcoscenico dei Caratteri è rappresentata la farsa umana, e La Bruyère ne è spettatore disincantato: uomo di corte suo malgrado, osserva i costumi della Francia del Re Sole e li fissa sulla pagina in un mosaico composito, dove osservazioni amare si alternano a ritratti fulminanti con un ritmo irregolare e inatteso. Dietro il paravento del grande moralismo antico, La Bruyère cela l'opera di tutta una vita, un testo prismatico, modernissimo, forse una delle più scintillanti rapsodie della letteratura francese.

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2012
Print ISBN
9788817054928
eBook ISBN
9788858629369
I CARATTERI
O
I COSTUMI DI QUESTO SECOLO

PREFAZIONE

Admonere voluimus, non mordere;
prodesse, non lædere; consulere
moribus hominum, non officere.
ERASMO1
Rendo al pubblico quanto mi ha prestato: ho preso da lui la materia di questo lavoro; avendolo terminato con tutta l’attenzione per la verità di cui sono capace, e che da me esso merita, è giusto che glielo restituisca. Il pubblico può guardare a piacimento il ritratto dal vero che ne ho fatto e, se ravvisa in se stesso qualcuno dei difetti da me abbozzati, correggersene. È l’unico scopo che ci si deve prefiggere scrivendo e, insieme, l’esito di cui meno ci si deve lusingare, ma siccome agli uomini non ripugna affatto il vizio, non ci si deve altrettanto stancare di rimproverarglielo: sarebbero forse peggiori se venissero a mancare censori o critici; la qual cosa fa sì che si predichi e si scriva: l’oratore e lo scrittore non sarebbero capaci di dominare la gioia che provano nel venire applauditi; ma dovrebbero arrossire di se stessi se, attraverso i loro discorsi e i loro scritti, avessero unicamente cercato elogi; per di più l’approvazione più sicura e meno equivoca è il cambiamento di costumi e la modificazione di coloro che li leggono o li ascoltano. Non si deve parlare, non si deve scrivere se non per l’istruzione; e se capita di piacere, non ci si deve nondimeno dolersene, se la qual cosa serve a introdurre e far recepire le verità che devono istruire. Dunque, allorquando in un libro si sono insinuati alcune riflessioni o alcuni pensieri che non hanno né il fuoco, né il tono, né la vivacità degli altri, benché sembrino esservi ammessi per la varietà, per distendere la mente e renderla più presente e più attenta al seguito, a meno che essi non siano d’altronde garbati, affabili, istruttivi, consoni al semplice volgo, che non è ammesso trascurare, il lettore può condannarli e l’autore deve proscriverli: ecco la regola. Ce n’è un’altra, e mi preme che la si voglia osservare, consistente nel non perdere di vista il mio titolo e nel pensare sempre, durante l’intera lettura di quest’opera, che sono i caratteri o i costumi di questo secolo che descrivo; poiché, sebbene io li tragga spesso dalla corte di Francia e dagli uomini della mia nazione, non li si può tuttavia restringere a un’unica corte, né circoscriverli a un solo paese, senza che il mio libro perda molto della sua ampiezza e utilità, né si discosti dal piano che mi sono predisposto di ritrarre gli uomini in generale, come pure dalle ragioni che giustificano l’ordine dei capitoli e una certa inavvertibile connessione delle riflessioni che li compongono. Dopo questa precauzione così necessaria, e di cui si possono ben percepire le conseguenze, credo di poter protestare contro qualsivoglia angustia, lamentela, malevola interpretazione, falsa applicazione e censura, contro i dileggiatori apatici e i lettori malintenzionati. Occorre saper leggere, e poi tacere, o essere capaci di riferire quanto si è letto, e né più né meno di quanto si è letto; e se talvolta se ne è capaci, non basta, occorre anche volerlo essere: senza tali condizioni, che un autore preciso e scrupoloso è in diritto di esigere da certe menti quale unica ricompensa del suo lavoro, dubito che egli debba continuare a scrivere, a meno che, all’utilità di parecchi e allo zelo per la verità, non preferisca la propria soddisfazione. Confesso per altro di aver oscillato, fin dall’anno 1690, e prima della quinta edizione, tra l’impazienza di dare al mio libro maggiore scioltezza e migliore forma con nuovi caratteri, e il timore di far dire a qualcuno: «Non finiranno mai codesti Caratteri e non vedremo mai altro di questo scrittore?». Da un lato, talune savie persone mi dicevano: «La materia è solida, utile, gradevole, inesauribile; vivete a lungo e trattatela senza interruzione finché vivrete: cosa potreste fare di meglio? Non c’è anno in cui le follie degli uomini non possano ispirarvi un volume». Altri, con molta ragione, mi esortavano a paventare i capricci della maggior parte degli individui e la superficialità del pubblico, dal quale traggo cionondimeno così grandi motivi d’esser contento, e non mancavano di suggerirmi, giacché da trent’anni a questa parte nessuno o quasi legge più se non per leggere, che occorrevano agli uomini, per divertirli, nuovi capitoli e un nuovo titolo; che quest’indolenza aveva, da allora, riempito le botteghe e popolato il mondo di libri freddi e noiosi, dallo stile piatto e privi di estro, senza regole e senza la minima precisione, contrari ai costumi e alle convenienze, scritti con precipitazione e letti allo stesso modo, solo per la loro novità; e che se ero solo capace di sviluppare un libro ovvio, il meglio che potessi fare era di riposarmi. Accolsi allora qualche cosa di entrambi i consigli, pur così opposti, attenendomi a una via di mezzo che li avvicinava: non ristetti dall’aggiungere talune nuove osservazioni a quelle che già avevano aumentato del doppio la prima edizione della mia opera; ma affinché il pubblico non fosse costretto a scorrere quanto c’era di vecchio per passare a quanto c’era di nuovo e potesse trovarsi sotto gli occhi soltanto ciò che aveva voglia di leggere, ebbi cura d’indicargli questa seconda aggiunta con un segno particolare; ritenni inoltre che non sarebbe stato inutile distinguere la prima aggiunta mediante un segno più semplice, atto a indicare lo sviluppo dei miei Caratteri e a facilitare la scelta del pubblico nella lettura che avrebbe inteso fare; e, visto che si poteva temere che tale progresso continuasse all’infinito, a tali e tante precisazioni aggiunsi la sincera promessa di non tentare più nulla di questo genere. Che se qualcuno mi accusa di aver mancato di parola, per aver io inserito nelle tre edizioni successive un considerevole numero di nuove riflessioni, constaterà almeno che, confondendole con le vecchie grazie alla totale soppressione di tali differenze, denunciate dalla postilla a margine, mi sono preoccupato meno di fargli leggere alcunché di nuovo che di lasciar alla posterità un saggio di costumi forse più completo, meglio finito e più regolare. D’altronde non è che io abbia voluto scrivere delle massime, e confesso di non avere sufficiente autorità né bastante ingegno per fare il legislatore; so anzi che avrei peccato contro l’uso delle massime che le vuole, a guisa di oracoli, corte e concise. Alcune di queste riflessioni lo sono, altre sono più lunghe: si pensano le cose in modo diverso e le si spiega con eloquio anch’esso assolutamente diverso, con una sentenza, un ragionamento, una metafora o qualche altra figura, un parallelo, un semplice paragone, un intero episodio, un solo tratto, una descrizione, una pittura: dal che derivano la lunghezza o la brevità delle mie riflessioni. In breve, quanti fanno delle massime vogliono essere creduti: io invece ammetto che di me si dica di non aver talvolta osservato bene, purché vi sia chi osservi meglio di me.
1 «Ho voluto ammonire, non mordere; essere utile, non ferire; emendare i costumi degli uomini, non nuocere loro». La citazione, tratta dalla celebre lettera di Erasmo a Martin Dorp sull’Elogio della follia (Epistolarum Erasmi libri XXXI, Londra 1642, libro XXXI, lettera 42), appare in epigrafe a partire dal 1689, annunciando e riassumendo la prefazione alla IV edizione dei Caractères.

DELLE OPERE DELL’INGEGNO

1

Tutto è detto e si giunge troppo tardi, dopo più di settemila anni che degli uomini esistono e pensano. In merito ai costumi, quanto di più bello e di meglio è stato raccolto; non si fa che spigolare dopo gli antichi e i più ingegnosi fra i moderni.

2

Occorre solamente cercare di pensare e parlare in modo giusto, senza voler convertire gli altri al nostro gusto e alle nostre impressioni; è impresa troppo grande.

3

Fare un libro è un mestiere, come fabbricare una pendola: per essere autore occorre qualche cosa di più che un po’ d’ingegno. Un magistrato raggiungeva il massimo grado per merito suo, era una mente agile e capace nelle funzioni; ha fatto stampare un’opera morale che è una rarità di ridicolaggine.1

4

È tanto meno facile farsi un nome con un’opera perfetta che ostentarne una mediocre tramite il nome che ci si è già fatto.

5

Un’opera satirica o che contiene episodi, diffusa clandestinamente in fogli sciolti a condizione che venga allo stesso modo restituita, se è mediocre, passa per una meraviglia; lo scoglio è la stampa.

6

Se si tolgono a molte opere di morale l’avvertenza al lettore, l’epistola dedicatoria, la prefazione, l’indice, le autorizzazioni, restano a malapena abbastanza pagine per meritare l’appellativo di libro.

7

Vi sono cose la cui la mediocrità è insopportabile: la poesia, la musica, la pittura, l’eloquenza.
Che supplizio sentire declamare pomposamente un discorso distaccato, o recitare versi mediocri con tutta l’enfasi di un cattivo poeta!

8

Certi poeti indulgono, nella drammaturgia, a lunghe sequenze di versi pomposi che sembrano forti, elevati e saturi di nobili sentimenti.2 Il popolo ascolta avidamente, con gli occhi al cielo e a bocca aperta, crede che ciò gli piaccia, e quanto meno ci capisce, tanto più l’ammira; non ha il tempo di respirare, ha appena quello di esclamare e applaudire. Una volta, nella mia prima giovinezza, ho creduto che quei punti fossero chiari e intelligibili agli attori, alla platea e al loggione; che gli autori stessi si capissero e fossi io ad avere il torto di non capirci nulla, nonostante tutta l’attenzione che riservavo al loro racconto: mi sono ricreduto.

9

Non si è mai visto, fino a ora, un capolavoro dell’ingegno che sia l’opera di molti: Omero ha fatto l’Iliade; Virgilio l’Eneide; Tito Livio le sue Decadi; e l’Oratore romano3 le sue Orazioni.

10

Nell’arte esiste un punto di perfezione, come nella natura ve n’è uno di bontà o di maturazione. Colui che lo avverte e lo apprezza ha il gusto perfetto; chi non lo avverte, e l’apprezza al di qua o al di là di esso, ha il gusto difettoso. Esistono dunque un buon e un cattivo gusto, e con fondatezza si discute di gusti.

11

Fra gli uomini c’è molta più vivacità che gusto; o, per meglio dire, pochi sono gli uomini nei quali all’ingegno si accompagnano un gusto sicuro e una critica assennata.

12

La vita degli eroi ha arricchito la storia, e la storia ha abbellito le gesta degli eroi: in tal modo non so se sono più debitori quanti hanno scritto la storia verso quelli che hanno fornito loro una così nobile materia, o questi grandi uomini verso i loro cronisti.4

13

Cumuli di epiteti, cattive lodi: spetta ai fatti lodare, e al modo di raccontarli.

14

Tutto l’ingegno di un autore consiste nel definire bene e nel descrivere bene. Mosè,5 Omero, Platone, Virgilio, Orazio non sono superiori agli altri scrittori se non in virtù delle loro espressioni e immagini: occorre esprimere il vero per scrivere con naturalezza, con forza, con delicatezza.

15

Dello stile si è dovuto fare ciò che si è fatto dell’architettura. È stato interamente abbandonato l’ordine gotico, che la barbarie aveva introdotto per i palazzi e per i templi; sono stati rievocati il dorico, lo ionico e il corinzio: quel che non si vedeva più se non nelle rovine dell’antica Roma e della vecchia Grecia, divenuto moderno, risplende nei nostri portici e peristili. Allo stesso modo, non si potrebbe incontrare la perfezione scrivendo né, se possibile, superare gli antichi che imitandoli.
Quanti secoli sono trascorsi prima che gli uomini, nelle scienze e nelle arti, siano potuti ritornare al gusto degli antichi e riprendere infine il semplice e il naturale!
Ci si nutre di antichi e di ingegnosi moderni, li si spreme, se ne estrae il più che si può, se ne infarciscono le proprie opere; e quando finalmente si è autori e si crede di proseguire da soli, ci si erge contro di loro, li si maltratta, somigliando a quei bambini robusti e forti per aver succhiato un buon latte che picchiano la nutrice.6
Un autore moderno in genere dimostra che gli antichi ci sono inferiori in due maniere, tramite il ragionamento e l’esempio: attinge il ragionamento dal proprio gusto personale e l’esempio dalle proprie opere.7
Riconosce che gli antichi, per quanto discontinui e poco corretti, presentano dei bei passi; li cita, e sono così belli che inducono a leggerne la critica.
Alcuni ingegnosi8 si pronu...

Indice dei contenuti

  1. Cover
  2. BUR Rizzoli
  3. Frontespizio
  4. Introduzione di Adriano Marchetti
  5. Cronologia
  6. Bibliografia
  7. I CARATTERI O I COSTUMI DI QUESTO SECOLO
  8. Sommario