Prologo
All’interno di casa De Gasperis le piantane e i lampadari inondavano di un chiarore caldo e accogliente la sala da pranzo. Nel buio della strada le finestre punteggiavano di luce il palazzo di pietra scura, come orecchini preziosi.
Lucy camminava con leggerezza sugli antichi tappeti che ricoprivano quasi l’intera superficie delle stanze. Saltellava a piedi scalzi da un angolo all’altro, vestita di un abito sottile lungo fino alle caviglie d’un colore tenue che la faceva sembrare una naiade.
Spostava di pochi millimetri la composizione di fiori al centro della tavola, ordinava a Ninin di cambiare l’acqua – che si era vagamente ingiallita – nei due vasi di rose sistemati all’ingresso. Armata d’un fazzoletto di seta bianco tenuto stretto in un pugno, si avvicinava a piatti, bicchieri, posate, argenteria e all’occorrenza inumidiva con la punta della lingua un angolino di stoffa. E lucidava. Aveva annodato lei stessa il fiocco ai grembiuli delle quattro cameriere, e con più discrezione aveva chiesto a Ninin di assicurarsi che ognuna di loro si fosse ben pettinata e profumata.
«Che ore sono?» chiedeva a voce alta ogni pochi minuti. Era ansiosa.
Una delle cameriere – la più minuta, quasi una bimba – rispose che erano appena passate le otto.
Per un momento Lucy sembrò tranquillizzarsi.
Come sempre aveva concentrato le commissioni più gravose in mattinata, poi aveva lasciato che la domestica e il resto del personale mettessero in pratica le sue direttive mentre lei si faceva sistemare capelli e mani dal parrucchiere. Nel tardo pomeriggio, si prendeva sempre un’ora o due per controllare che tutto fosse stato eseguito a modo suo.
Fece un giro per la stanza, a vuoto.
Era alla ricerca del particolare da riordinare, spostare, cambiare. Come al solito, voleva aggiungere un po’ del suo “tocco”, ma tutto era già a posto. Anziché compiacersene provò un senso di delusione.
Si sedette a tavola e respirò a fondo.
«I segnaposti» disse.
Ninin la raggiunse poco dopo imbracciando un vassoietto d’argento. Sopra erano sistemati dodici piccoli cilindri di ceramica, un blocco di cartoncini, una penna stilografica, un foglio bianco e una tavoletta di pelle nera. Lucy appuntò la lista degli invitati a cena sul foglio. Poi disegnò approssimativamente il tavolo e le sedie e cominciò a segnare i nomi a ridosso dello scarabocchio. Negli anni precedenti s’era divertita a creare combinazioni inedite, ad avvicinare nemici e ad allontanare innamorati, ma questa volta si era decisa per una disposizione classica, patriarcale: Paolo a capotavola, lei ed Eugenia ai suoi lati. Le coppie si sarebbero sedute una di fronte all’altra e Primo, uno dei collaboratori di suo marito e il più stretto fra gli amici di famiglia, avrebbe avuto diritto all’altro posto d’onore.
“Così sarà perfetto” pensò.
Ninin ricomparve alle sue spalle.
«Posso, signora?» domandò.
Lucy fece cenno di sì con la testa, la domestica prese il foglio e lo ripose sul vassoietto, tornò nell’anticamera della cucina e lì, con la sua grafia migliore (che la padrona di casa spacciava per sua) cominciò a ricopiare i nomi sui cartoncini. Poi li distribuì sulla tavoletta di pelle nera, che riportò a Lucy per l’ultimo controllo.
Lei si alzò in piedi. Ninin nel frattempo dispose i segnaposti accanto ai piattini del pane. La signora la seguiva man mano, inserendo i cartoncini nei cilindri. All’improvviso si sentì del fracasso provenire dalla cucina. Qualcosa, schiantandosi sul pavimento, aveva prodotto un suono orribile e inaspettato, di disfatta, che aveva fatto piagnucolare una cameriera.
«Continua tu, per favore» ordinò la signora.
Si sentì il cuoco, proprietario di un noto ristorante di via Solferino, reclutato per il compleanno di Paolo da ormai quindici anni (ogni anno lo stesso menu), che rimproverava il sous-chef.
«C’è qualche problema?» Lucy apparve sulla soglia della cucina. Poggiò un braccio allo stipite della porta e incrociò una gamba davanti all’altra mostrando la caviglia sottile e il piede magro.
«Si figuri» rispose lo chef mostrandole la pirofila appena raccolta da terra. “Fortunatamente vuota” diceva con quel gesto.
«Bene bene, allora!» commentò sbrigativa, e sorrise, i denti più bianchi della lunga collana di perle che le scendeva fino all’altezza dell’ombelico.
Lo chef e il suo secondo ricambiarono.
Tutto era sotto controllo.
Allontanandosi aggiunse: «Mi raccomando, il maialino lo porti a tavola intero».
Ogni anno la stessa raccomandazione. Ogni anno la stessa orribile battuta di Paolo all’amico Primo togliendo la mela dalla bocca del porco: «Non permetterò che ti mettano a tacere!».
Percorse il lungo corridoio come fosse in passerella, con le spalle drittissime e la camminata nervosa. Al suo passaggio raddrizzò con impazienza i quadri e accese i faretti che puntavano sulle tele e sulle nicchie delle statue giapponesi (un’infatuazione passeggera di qualche tempo prima).
Poi entrò nella camera di Eugenia.
Era molto in disordine rispetto al solito. Dei vestiti ammassati sul letto fece un mucchio che gettò pigramente nella cesta della biancheria sporca. Allineò i libri accatastati sul comodino e sulla scrivania, richiuse e raccolse quelli che sua figlia aveva lasciato aperti sul parquet. Tartarughe di terra dalla pancia bianca. Li impilò in un angolo.
Da quand’è che leggeva tutti questi libri?
Sistemò le lenzuola stropicciate lisciandole con le mani. Andò via sbuffando, infastidita.
«Ninin» gridò, «ricordati di dare una spolverata agli alcolici nella vetrinetta… Mio marito offrirà di sicuro qualche whiskey.»
«Già fatto, signora» replicò lei. Giorni prima, nella confusione, si erano rotte un paio di bottiglie. La domestica aveva impiegato ore a pulire. I ripiani in legno cosparsi di liquore erano una rogna da smacchiare.
«E domani non sistemare la camera di Eugenia» continuò, «è ora che si dia una regolata.»
Lucy andò nella stanza guardaroba.
“Paolo vorrà mettere il farfallino” pensò allora. Era una delle abitudini del marito, col tempo diventate rigide tradizioni: il papillon e il maialino arrosto per il compleanno, un sigaro a capodanno, la rasatura della barba la sera, la prima uscita in barca il primo maggio, la corsa al parco la domenica.
Prese il papillon blu intenso da uno dei cassetti di cravatte, e lo mise da parte poggiandolo sullo schienale di una poltrona, come un pesciolino appena pescato.
Poi aprì un armadio, guardò i profili degli abiti, ne accarezzò alcuni. Quel guardaroba valeva una fortuna; era il suo ...