Come parla il mondo!
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Come parla il mondo!

Una scelta di racconti italiani

  1. 240 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Come parla il mondo!

Una scelta di racconti italiani

Informazioni su questo libro

Landolfi, Morante, Moravia, Buzzati, Gadda, Pavese… un viaggio tra i migliori racconti italiani del Novecento. Raccontare storie è una proprietà connaturata nell'uomo. Si potrebbe dire che l'uomo che non racconta storie sta perdendo qualcosa della propria natura. Il raccontare, come hanno studiato schiere di filosofi e di antropologi, indica un particolare modo di stare al mondo, proprio dell'uomo. L'uomo che racconta avverte la propria vita entro un flusso che in qualche modo lo precede e lo supera. Èin una certa misura incosciente che l'avvenimento della vita è più grande, e i racconti sono un modo per documentare tale grandiosità enigmatica a cui l'esistenza umana appartiene.

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2012
Print ISBN
9788817117470
eBook ISBN
9788858631379

IL MOTIVO, IL MOTORE DI QUESTO LIBRO

Pubblicare un’antologia di racconti italiani di questo genere può sembrare cosa bizzarra, e in parte lo è. I racconti che vi compaiono, infatti, sono stati scritti da autori molto diversi tra loro, non hanno un «tema» in comune, e non sono legati da comuni caratteri di stile o di linguaggio. Ma allora perché riunirli, e perché in questa collana?
Raccontare storie è una proprietà connaturata dell’uomo. Si potrebbe dire che l’uomo che non racconta storie sta perdendo qualcosa della propria natura.
Il raccontare, come hanno studiato schiere di filosofi e di antropologi, indica un particolare modo di stare al mondo, proprio dell’uomo, appunto: si inventano, ovvero si trovano storie, si tramandano, offrendo così il senso della permanenza della vita, delle sue figure, delle sue crisi e del suo rinnovarsi. L’uomo che racconta avverte la propria vita entro un flusso che in qualche modo lo precede e lo supera. È in una certa misura cosciente che l’avvenimento della vita è più grande, e i racconti sono un modo per documentare tale grandiosità enigmatica a cui l’esistenza umana appartiene.
I racconti – siano essi grandi romanzi o favolette per piccoli – mostrano inoltre che la vita degli uomini non è racchiudibile in un discorso. Rispetto a qualsiasi schema filosofico o ideologico, o a qualsiasi previsione sociologica ed economica, c’è sempre qualcosa che sfugge. C’è sempre il racconto di qualcosa, di un fatto o di una vita intera che va in un’altra direzione rispetto a quanto previsto.
Raccontare è un’azione che si può fare in molti modi. La diversità di stili e di linguaggio usati dagli autori qui presenti ne è una piccola ma già significativa prova. Si può essere sontuosi nella invenzione e nella espressione, come Gadda, o asciutti come Verga, o, ancora, ironici come Guareschi o di acume vertiginoso come Landolfi, Pavese o Pirandello. In ogni caso, il fatto stesso di raccontare una storia mostra che la vita non si comunica a noi come puro dato, come circostanza di cui prender atto. Al contrario, l’esistenza si comunica all’uomo ancora vivo con una ricchezza di richiami, di evocazioni, di inviti che lo sollecita no a un’azione di maggiore possesso, di maggiore intelligenza, in una parola, di maggior coscienza, di quanto vede accadere. Insomma, come dice Elsa Morante nel tremendo e bellissimo racconto che abbiamo scelto, la vita di Antonio è uno «strano segno». Tale naturale forza di «segno» è così inscritta nella vita, nella realtà, nei fatti, che nell’uomo nasce il desiderio di raccontare per inoltrarsi dietro a quel richiamo, per far partecipare altri all’avventura di questo richiamo. Per questo motivo, intorno a grandi racconti si costituisce l’identità di popoli, poiché in quei racconti si dice del particolare rapporto con il destino che li ha caratterizzati. Il genere di racconti che un uomo legge o guarda, il genere di fiction come si dice oggi, mutuando non a caso il termine dalla cultura che domina, dice molto intorno alla sua identità.
Anche la invenzione di storie, la creazione di storie, sul cui problema si arrovellò tra gli altri lo stesso Manzoni e non poco, ribadisce e approfondisce in qualche misura la faccenda della vita come segno. A ben guardare, infatti, non conta a quale livello della nascita di una storia si pone il riferimento a un dato storico realmente accaduto e certificabile. Anche i maggiori inventori di fantascienza partono da un dato storico che li ha mossi e a cui, in variabilissimi modi, la loro invenzione fa riferimento. Che sia successa veramente la storia del cane narrata qui da Buzzati è un problema secondario rispetto a quanto accade nell’autore e in noi nel leggere quel racconto.
Un racconto nasce sempre da una visione. Ovvero dalla presa di coscienza da parte dell’autore di un fatto, anche minimo, alla luce di qualcosa che in lui sta spingendo alla ricerca del vero, del giusto, del bello. Come accade nel racconto di Silone. Insomma, c’è nell’uomo qualcosa che lo agita, che lo urge verso qualcosa che non possiede e che però presente e verso cui si sente chiamato, fosse anche la tragica smentita di quanto in lui è desiderato. In questo dramma nasce la necessità di raccontare. Quella energia investe i fatti anche insignificanti dell’esistenza, li sbalza in una luce particolare. Come scriveva un poeta polacco, C.K. Norwid, che “copiai” in un mio verso: «Quando la fine della vita sussurra all’inizio: / “non ti lascerò – no! – Io, ti darò rilievo”».
Come già detto, un’antologia siffatta ha un che di bizzarro. Tutti gli autori presenti hanno una caratteristica certa, oltre a quella di essere, purtroppo, defunti: sono buoni scrittori e appartengono in modo più o meno riconosciuto alla ricca tradizione narrativa novecentesca italiana.
Al sottoscritto e al gruppetto di persone che ha selezionato i testi e dato vita a questo esperimento è parso che in questi racconti più che in altri si cogliesse una indicazione. Verrebbe da dire con Carver che sono racconti che «non prendono a calci la vita». Ci è parso di cogliere in tutti un invito a entrare nella vita più profondamente.
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La loro lettura sarà in certi casi divertente. Ad esempio, farà sorridere la corrosiva critica nell’asprigno Campanile contro coloro che pretendono di capire il mondo grazie alle loro deduzioni. E un sorriso pensoso accompagna la lettura del geniale racconto di Buzzati che apre la raccolta. Nel sorprendente Guareschi, si sorriderà per lo stemperarsi della tensione ideologica in una situazione «da paese» in cui la curiosità lega uomini diversi. Sarà duro e salutare fare i conti, invece, con la materia trattata nel tragico racconto di Verga, o con il personaggio di Ada Negri, scolpita nella pietra e nella solitudine di tante esistenze. Farà allargare il cuore, di pena e di sotterranea simpatia, la figura dell’esattore Manera in Fenoglio, con il suo amore complicato, con il suo misurare la smisurata vita in beni e possesso. O, ancora, si resterà un po’ storditi dal breve affondo sulla estraneità nel raccontino di Flaiano. Farà sorridere in modo unico e inimitabile il ritratto della sbandata vita di Ignazio Ziviello, nello splendido L’oro di Napoli di Marotta. O sarà intrigante addentrarsi nelle situazioni e nelle scoperte esistenziali del genio di Pirandello, della esattezza di Levi, del desiderio di Pavese, della annoiata perspicacia di Moravia, in quel loro girare intorno alla forza dell’imprevisto.
Per problemi di diritti non ci è stato possibile inserire nulla di Calvino. Poco male, non è l’unico difetto, per questa antologia che è un invito. Un invito a che ciascuno ne abbia una sua.

DAVIDE RONDONI

Questo libro nasce dalla collaborazione e dai consigli di: Clementina Acerbi, Gilberto Baroni, Flora Crescini, Carlo Dignola, Luca Doninelli, Bettina Gamba, Gianni Mereghetti, Stefania Ragusa, Paola Ombretta Sternini, Marina Sangiorgi, Mimmo Stolfi, Francesco Valenti.

Dino Buzzati

IL CANE CHE HA VISTO DIO

I

Per pura malignità, il vecchio Spirito, ricco fornaio del paese di Tis, lasciò in eredità il suo patrimonio al nipote Defendente Sapori con una condizione: per cinque anni, ogni mattina, egli doveva distribuire ai poveri, in località pubblica, cinquanta chilogrammi di pane fresco. All’idea che il massiccio nipote, miscredente e bestemmiatore tra i primi in un paese di scomunicati, si dedicasse sotto gli sguardi della gente a un’opera cosiddetta di bene, a questa idea lo zio doveva essersi fatto, anche prima di morire, molte risate clandestine.
Defendente, unico erede, aveva lavorato nel forno fin da ragazzo e non aveva mai dubitato che la sostanza di Spirito toccasse a lui quasi di diritto. Quella condizione lo esasperava. Ma che fare? Buttar via tutta quella grazia di Dio, forno compreso? Si adattò, maledicendo. Per località pubblica scelse la meno esposta: l’atrio del cortiletto che si apriva dietro il forno. E qui lo si vide ogni mattina di buon’ora pesare il pane stabilito (come prescriveva il testamento), ammucchiarlo in una grande cesta e quindi distribuirlo a una turba vorace di poveri, accompagnando l’offerta con parolacce e scherzi irriverenti all’indirizzo dello zio defunto. Cinquanta chili al giorno! Gli pareva stolto e immorale.
L’esecutore testamentario, ch’era il notaio Stiffolo, veniva ben di rado, in un’ora così mattutina, a godersi lo spettacolo. La sua presenza del resto era superflua. Nessuno avrebbe potuto controllare la fedeltà ai patti meglio degli stessi accattoni. Tuttavia Defendente finì per escogitare un parziale rimedio. La grande cesta in cui il mezzo quintale di pagnotte si ammucchiava veniva messa a ridosso di un muro. Il Sapori di nascosto vi tagliò una specie di sportellino che, rinchiuso, non si poteva distinguere. Iniziata personalmente la distribuzione, prese l’abitudine di andarsene, lasciando la moglie e un garzoncello a esaurire il lavoro: il forno e il negozio, diceva, avevano bisogno di lui. In realtà si affrettava in cantina, saliva su una sedia, apriva in silenzio la grata di una finestrella al filo del pavimento del cortile contro la quale era collocata la cesta; aperto poi lo sportellino di paglia, sottraeva dal fondo quanti più pani era possibile. Il livello così calava rapidamente. Ma i poveri come potevano capire? Con la velocità con cui venivano consegnate le pagnotte, logico che la cesta si vuotasse in fretta.
Nei primi giorni gli amici di Defendente anticiparono apposta la sveglia per andarlo ad ammirare nelle sue nuove funzioni. Fermi in gruppetto sulla porta del cortile lo osservavano beffardi. «Che Dio te ne rimeriti!» erano i loro commenti. «Te lo prepari, eh, un posto in Paradiso? E bravo il nostro filantropo!»
«All’anima di quella carogna!» rispondeva lui lanciando le pagnotte in mezzo alla calca dei pezzenti che le afferravano a volo. E sogghignava al pensiero del bellissimo trucco per frodare quei disgraziati e insieme l’anima dello zio defunto.

II

Nella stessa estate il vecchio eremita Silvestro, saputo che di Dio in quel paese ce n’era poco, venne a stabilirsi nelle vicinanze. A una decina di chilometri da Tis c’era, su una collinetta solitaria, il rudere di una cappella antica: pietre più che altro. Qui si pose Silvestro, trovando acqua in una fonte vicina, dormendo in un angolo riparato da un resto di volta, mangiando erbe e carrube, e di giorno spesso saliva ad inginocchiarsi in cima a un grosso macigno per la contemplazione di Dio.
Di quassù egli scorgeva le case di Tis e i tetti di alcuni casolari più vicini: tra cui le frazioni della Fossa, di Andron e di Limena. Ma invano aspettò che qualcuno comparisse. Le sue calde preghiere per le anime di quei peccatori salivano al cielo senza frutto. Silvestro continuava però ad adorare il Creatore, praticando digiuni e chiacchierando, quando era triste, con gli uccelli. Nessun uomo veniva. Una sera scorse, è vero, due ragazzetti che di lontano lo spiavano. Li chiamò amabilmente. Quelli scapparono.

III

Ma nottetempo, in direzione della cappella abbandonata, i contadini della zona cominciarono a scorgere strane luci. Pareva l’incendio di un bosco ma il bagliore era bianco e palpitava dolcemente. Il Frigimelica, quello della fornace, andò una sera, per curiosità a vedere. A metà strada però la sua motocicletta ebbe una panne. Chissà perché, egli non si arrischiò di continuare a piedi. Ritornato, disse che un alone di luce si diffondeva dalla collinetta dell’eremita; e non era luce di fuoco o di lampada. Senza difficoltà i contadini dedussero che quella era la luce di Dio.
Anche da Tis alcune notti si scorgeva il riverbero. Ma la venuta dell’eremita, le sue stravaganze e poi le sue luci notturne affondarono nella solita indifferenza dei paesani per tutto ciò che riguardasse anche da lontano la religione. Se veniva il discorso, ne parlavano come di fatti già da lungo tempo noti, non si insisteva per trovare spiegazioni e la frase: “L’eremita fa i fuochi" divenne di uso corrente come dire: “Stanotte piove o tira vento”.
Che tanta indifferenza fosse del tutto sincera lo confermò la solitudine in cui venne lasciato Silvestro. L’idea di andare da lui in pellegrinaggio sarebbe parsa il colmo del ridicolo.

IV

Un mattino Defendente Sapori stava distribuendo le pagnotte ai poveri quando un cane entra nel cortiletto. Era una bestia apparentemente randagia, abbastanza grossa, pelo ispido e volto mansueto. Sguscia fra gli accattoni in attesa, raggiunge la cesta, afferra un pane e se ne va lemme lemme. Non come un ladro, piuttosto come uno che sia venuto a prendersi del suo.
«Ehi, Fido, qua, brutta bestiaccia!» urla Defendente, tentando un nome, e balza alla rincorsa. «Son già troppi questi lazzaroni. Non mancano che i cani, adesso!» Ma l’animale è già fuori tiro.
La stessa scena il giorno dopo: il medesimo cane, la medesima manovra. Questa volta il fornaio insegue la bestia fin sulla strada, gli lancia pietre senza prenderlo.
Il bello è che il furto va ripetendosi puntualmente ogni mattina. Meravigliosa la furberia del cane nello scegliere il momento giusto; così giusto che per lui non c’è neppure bisogno di affrettarsi. Né i proiettili lanciatigli dietro arrivano mai al segno. Uno sguaiato coro di risa si leva ogni volta dalla turba dei pezzenti, e il fornaio va in furore.
Imbestialito, il giorno successivo Defendente si apposta sulla soglia del cortile, nascosto dietro lo stipite, in mano un randello. Inutile. Mescolandosi forse alla calca dei poveretti, che godono della beffa e non hanno perciò motivo di tradirlo, il cane entra ed esce impunemente.
«Eh, anche oggi ce l’ha fatta!» avverte qualche accattone stazionante sulla strada. «Dove? dove?» chiede Defendente balzando fuori dal nascondiglio. «Guardi, guardi come se la batte!» indica ridendo il miserabile, deliziato dall’ira del fornaio.
In verità il cane non se la batte in alcun modo: tenendo fra i denti la pagnotta si allontana col passo dinoccolato e tranquillo di chi ha a posto la coscienza.
Chiudere un occhio? No, Defendente non sopporta questi scherzi. Poiché nel cortile non riesce a imbottigliarlo, alla prossima occasione favorevole darà la caccia al cane per la via. Può anche darsi che il cane non sia del tutto randagio, forse ha un rifugio a carattere stabile, forse ha un padrone a cui si può andare a chiedere un compenso. Così non si può certo andare avanti. Per badare a quella bestiaccia, negli ultimi giorni il Sapori ha tardato a scendere in cantina e ha recuperato molto meno pane del solito: soldi che se ne vanno.
Anche il tentativo di sistemare la bestia con una pagnotta avvelenata, messa per terra all’ingresso del cortile, non ha avuto fortuna. Il cane l’ha annusata un istante, è subito proseguito verso la cesta: così almeno hanno poi riferito testimoni.

V

Per far le cose bene Defendente Sapori si mise alla posta dall’altra parte della strada, sotto un portone, con la bicicletta e il fucile da caccia: la bicicletta per inseguire la bestia, la doppietta per ammazzarla se avesse constatato che non esisteva un padrone a cui poter chiedere indennizzo. Gli doleva solo il pensiero che quel mattino la cesta sarebbe stata vuotata a esclusivo beneficio dei poveri.
Da che parte e in che modo venne il cane? Proprio un mistero. Il fornaio, che pur stava con gli occhi spalancati, non riuscì ad avvistarlo. Lo scorse più tardi che usciva, placido, la pagnotta tra i denti. Dal cortile giungevano echi di alte risate. Defendente aspettò che l’animale si allontanasse un poco, per non metterlo in allarme. Poi balzò sul sellino e dietro.
Il fornaio si aspettava, come prima ipotesi, che il cane si fermasse poco dopo a divorare la pagnotta. Il cane non si fermò. Aveva anche immaginato che, dopo breve cammino, si infilasse nella porta di una casa. E invece niente. Il suo pane tra i denti, la bestia trotterellava lungo i muri con passo regolare né mai sostava per annusare, o fare la piscia, o curiosare come è abitudine dei cani. Dove dunque si sarebbe fermato? Il Sapori guardava il cielo grigio. Niente da meravigliarsi se si fosse messo a piovere.
Passarono la piazzetta di Sant’Agnese, passarono le scuole elementari, la stazione, il lavatoio pubblico. Ormai erano ai margini del paese. Si lasciarono finalmente alle spalle anche il campo sportivo e si inoltrarono nella campagna. Da quando era uscito dal cortile, il cane non si era mai voltato indietro. Forse ignorava di essere inseguito.
Ormai c’era da abbandonare la speranza che l’animale avesse un padrone che potesse rispondere per lui. Era proprio un cane randagio, una di quelle bestiacce che infestano le aie dei contadini, rubano i polli, addentano i vitelli, spaventano le vecchie e poi finisc...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Come parla il mondo!