Fiori italiani
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Fiori italiani

con un mazzo di nuovi Fiori

  1. 272 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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Fiori italiani

con un mazzo di nuovi Fiori

Informazioni su questo libro

I Fiori italiani di Meneghello ci dicono che una sola scintilla di intelligenza sprigionata da un insegnante basta a riordinare l'appreso, a trarne frutto, e basta ad avviare alla comprensione critica e alla civile partecipazione. Tullio De Mauro

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2012
Print ISBN
9788817012522
eBook ISBN
9788858630785

INTRODUZIONE

«Questa è la storia di S. in quanto Soggetto della sua esperienza scolastica: come fu fatto, e disfatto, da quella versione della cultura riflessa italiana che si trasmetteva nelle scuole.» Così diceva nel 1976 la bandella (d’autore, io sospetto) della prima edizione di Fiori italiani. Meneghello aveva già pubblicato Libera nos a malo, nel 1963 (con Feltrinelli in prima edizione, poi Rizzoli), che alcuni vogliono considerare il suo capolavoro, e Pomo pero nel 1974: tutti e due sono rivisitazioni del mondo infantile e dialettale, di una cultura radicata in un luogo circoscritto, prescolastica e sì e no alfabetizzata, trasmessa e vissuta come se fosse immediata e irriflessa, a Malo come in cento, mille altri luoghi d’Italia. E non solo d’Italia, si dirà, e in parte è giusto, ma rispetto al salto dal tupì al portoghese brasiliano o dall’arabo maghrebino al classico quel digradare e intrecciarsi di parlate dialettali locali e sovralocali urbane tutte ben radicate, alcune con secolari letterature, e varietà cittadine e presuntivamente nazionali, magari linguisticamente prossime ma, insieme, socialmente separate, quell’intrico insomma che si trovava e ancora si trova in Italia ha sue caratteristiche speciali, che in buona parte sono sostanza della storia di S., e della nostra, come si cercherà di dire qui di seguito.
Due considerazioni incidentali, a margine dell’appena detto. Meneghello è un maestro nel portarci a capire in tutti e con tutti i suoi scritti che cultura è un sostantivo irregolare, di forma singolare ma di significato plurale. Malo o Gratteri o Cori hanno una cultura loro, che, se appena non è ignota a se medesima, si sente e vive come naturale e però, direbbe il Leopardi e fa capire il Meneghello, naturale non è. E, forse proprio per questa sua virtù magistrale, Meneghello è assai attento all’essere e al proporsi di quelle forme di cultura riflessa, fondamentalmente intellettuale, che si presentano come la Cultura. E, anche grazie al suo lungo dispatrio britannico, è attento in particolare a ciò che in Italia si è inteso e preteso di intendere come la Cultura. Ma con ciò dai margini già il discorso scivola verso il centro di questo libro.
All’altro estremo del Bildungsroman che Meneghello è andato delineando a segmenti si collocavano già nel 1964 i Piccoli maestri, anche questo edito dapprima da Feltrinelli, poi da Rizzoli. Qui la materia era fornita dall’esperienza della Resistenza, rivisitata, come è stato osservato, in una chiave antieroica. L’occhio era attento al ruolo di prova e di occasione formativa delle capacità umane e civili di chi, giovane, fu tratto a uscire dall’atmosfera avvolgente del fascismo e a parteciparvi. Nel narrarla, nel narrarne un momento drammatico, affiora il tema accennato a inizio dei Fiori. Lo racconta Meneghello stesso:
Ho pensato per la prima volta a questo libro [Fiori italiani ] nell’estate del 1944, sdraiato per terra davanti all’imboccatura di una grotta in Valsugana, guardando le coste del Grappa lì di fronte. Ero convinto che nel rastrellamento i miei compagni ci avessero rimesso le penne, e avvertivo con una sorta di pigrizia intelligente che questa veniva ad essere la conclusione dell’educazione che avevamo ricevuto: in generale, ma soprattutto in senso stretto, a scuola.
Vent’anni dopo raccontando del nostro rastrellamento del 10 giugno e come ne venni fuori [I piccoli maestri], anch’io un po’ spennacchiato ma molto vivo, mi ritrovai di nuovo sulla bocca di quella grotta, con gli stessi pensieri, e interrompendo il racconto mi misi a scriverli su una pagina nuova, cominciando: "Che cos’è un’educazione?". Avevo il senso di sapere soltanto il negativo della risposta, che cos’è una diseducazione. Scrissi un centinaio di fogli sul mio schooling che conservo ancora. Sono appassionati e ignoranti, e anche per questo li tenni fuori del libro che stavo scrivendo. Ho però continuato a ripensare all’argomento, con un senso di decrescente ignoranza, e ora ho deciso di riprovare a svolgerlo. Mi troverò a tirar fuori storie di banchi di scuola, di studentelli, di materie di studio. Sono fiori italiani che nel vaso dove stanno cominciano a morire. Devo trapiantarli.
In effetti, proprio così comincia Fiori italiani: «Che cos’è un’educazione?». E il libro si presenta come una risposta, lo svolgimento di un tema. Era un tema che non aveva mai abbandonato Meneghello. Dopo I piccoli maestri lo troviamo esplicito in una lunga «carta» del 1974, Materiali per un saggio sull’educazione scolastica di un italiano, dove S. si scioglie in Saverio (Le Carte, II, pp. 103-124). Fiori italiani è questo e, ovviamente, anche altro. Come Meneghello stesso percepisce e dichiara negli appunti delle Carte (Lettera a Vittorio, II, pp. 336-338), il libro ammette, anzi sollecita letture diverse e intrecciate. Questo vale a cominciare dal titolo. Fiori sono certamente le memorie e riflessioni di S.-Saverio-Meneghello. Ma fiori sono anche le persone e coscienze sbocciate (o forse intristite) dal terreno educativo delle scuole e specialmente dei licei italiani. E che i fiori siano loro, persone, ingegni, coscienze, è interpretazione autorizzata dal resoconto che apre il libro, prima risposta della difficile domanda iniziale. È il resoconto di un molto accademico dibattito organizzato dall’università britannica, Reading, dove S. infine si era ritrovato a insegnare e a dirigere quello che per molti anni è stato il più importante e vivace centro di italianistica fuori di Italia. A un panel di professori, racconta Meneghello, fu affidato un tema: l’education sotto il profilo della specialization. Il resoconto è troppo sapido per lasciarsi riassumere. Lo evoco qui per ricordare che, teste Meneghello, dopo un dibattito in cui con educata contraddittorietà fu detto tutto e il contrario di tutto e soltanto degli studenti (che assistevano muti a centinaia) si parlò poco o niente, alla fine
si alzò tra l’uditorio un ragazzotto dai capelli rossi, malinconico e cortese, che si mise a rimproverare il panel per aver trascurato l’aspetto più importante dell’educazione, quello floreale. «Noi siamo vasi di fiori» disse. «Voi dovreste coltivarci delicatamente, farci fiorire.»
A quanto pare il ragazzetto malinconico e cortese ha avuto parte nel suggerire a Meneghello tanti anni dopo l’immagine del titolo come metafora delle individualità coltivate sul terreno della nostra scuola. Di questo snodo, di questo lungo e complicato snodo che dalle culture dei diversi luoghi cerca di portare parecchi e porta almeno alcuni verso la Cultura, di questo percorso educativo e di come S. e i suoi compagni lo traversarono tratta Fiori italiani. Che dunque per la materia che espone fa da raccordo tra Libera nos a malo e I piccoli maestri, tra il mondo della prima scuola e la fase dell’educazione universitaria e dei suoi risultati.
Il centro della narrazione si colloca all’altezza del percorso medio inferiore e superiore, liceale. Ma nel ricostruire la storia di S. e dei suoi Fiori Meneghello parte dall’impatto di S. con la quarta elementare, col Libro della IV elementare, libro unico, allora, negli anni Trenta del Novecento, in tutt’Italia. Questo guardare alla IV e V elementare può forse stupire il lettore di oggi. Fa parte dell’attuale rimosso collettivo la tormentata storia della nostra alfabetizzazione. Non si deve sapere chi eravamo, non solo negli anni Trenta, quando comincia il cammino di S., ma ancora trent’anni dopo, ancora nei meno remoti anni Cinquanta in cui il 60% (sei ogni dieci persone) della popolazione italiana era ancora privo della licenza elementare. Questa cifra non è un astratto numero. Fosse tale, forse non sarebbe accuratamente rimossa dalla attuale classe dei colti, colleghi universitari ed elzeviristi che piangono sulla decadenza della Cultura e rimpiangono un felice tempo andato, che esiste solo nelle loro malumorose fantasie, non sarebbe rimosso dagli onesti cronisti che a sentire quel numero chiedono sempre: «Ma professore è proprio sicuro? Ma professore dove trova questi numeri?». E la risposta («Si trovano nell’annuario dell’ISTAT») li lascia perplessi. Citare l’annuario ISTAT è come citare il Talmud o le iscrizioni di Ebla. Subito dopo i quattro Vangeli e la Costituzione l’annuario ISTAT è il libro più sconosciuto in Italia. Ed è un bene. L’industria editoriale e quella fiorente di molte agenzie di «sondaggi» entrerebbero in crisi produttiva, innumerevoli articoli e molta saggistica non vedrebbero più la luce se qualcuno desse o sapesse dare un’occhiata ai dati che l’ISTAT allinea nelle sue pubblicazioni. Ma tomo agli anni Trenta. Solo una piccola parte delle leve giovani arrivava allora alla licenza elementare. Ci fu una turpe ragionevolezza nel decreto fascista degli anni Trenta con cui si faceva retrocedere il «proscioglimento dell’obbligo» dai cinque anni (teorici) del primo Novecento a soli tre anni. Quarta e quinta elementare, insomma, appartenevano già al segmento superiore dell’istruzione scolastica, erano già riservati a una minoranza scremata ed eletta, come Meneghello ci ricorda in sapide pagine sul Balilla Vittorio e su quell’educazione che non era nemmeno indottrinamento fascista specifico e diretto, raccoglieva il meglio, per chiamarlo così, di una pesantemente esclusivista tradizione di educazione miopemente classista, reazionaria nell’intrinseco, fascista ma più antica del fascismo, sopravvissuta a lungo nelle pieghe della scuola nell’età della Repubblica. Poi è stata in gran parte cancellata nella scuola, ma non nelle teste e negli italici ortaggi che oggi sono opinion leaders e policy makers e simili allevati nella scuola ancora inerzialmente ripetitiva degli anni Quaranta, Cinquanta, un bel pezzo di Sessanta, quella di una stupidità conformistica degenerante in blasfemia di È nato Gesù / Cuccurucù e dei Pampini bugiardi catalogati e illustrati da Umberto Eco.
Confermano con ironia e discrezione i Fiori:
La scuola non era, in senso serio, cattolica né fascista. Ciò che vi era dentro di insoddisfacente non aveva bisogno di appoggiarsi al cattolicesimo o al fascismo, se non come ci si appoggia ai vicini sul tram, poco e irregolarmente.
La notazione è importante in sede storica: col tempo mi sono andato convincendo, e un grande storico come Giuseppe Giarrizzo tempo fa mi ha pazientemente ascoltato, che addossare alla Chiesa cattolica le colpe della secolare bassa scolarità nazionale e dell’analfabetismo cronico, non è del tutto corretto, nel senso che la Chiesa era adoperata da miopi classi dirigenti, da un capo all’altro dell’Italia preunitaria, come foglia di fico di scelte che favorivano l’ignoranza di massa. Se colpa ci fu nella Chiesa fu lasciarsi in gran parte adoperare così e non dare spazio a diversi orientamenti di suoi, che pure vi furono dai Calasanziani ai Salesiani, a don Lorenzo Milani.
Già in quarta e quinta elementare chi, come S., ci arrivava subiva una prima esposizione alla lingua di città e di scuola. L’avventura era e restava nelle scuole medie e superiori un’avventura largamente linguistica. Si trattava di cominciare a imparare parole o, meglio, spiega bene Meneghello, il suono, la risonanza delle parole della Cultura e le occasioni socialmente giuste in cui esibirle. Parole irrelate alla vita reale circostante, ce lo mostrano queste pagine di Fiori, lo esplicita Meneghello in Carte:
Le parole del linguaggio scolastico (lezioni, interrogazioni, compiti) non avevano una relazione stretta con quelle usate nella vita ordinaria, nell’ambiente domestico, nei rapporti personali coi compagni, e in ciò che riguardava il lavoro (dei genitori, degli zii) e gli svaghi della gente. Tra la lingua (o le lingue: ce n’era più d’una) della vita e quella "della scuola" non c’era passaggio. (Le Carte, II, p. 107)
Leggiamo in Fiori:
Di questo stato di cose S. non avvertì mai l’assurdità. Era parte dello statuto della cultura che essa venisse esposta come la Sindone, non trattata come un servizio pubblico. La cultura vive, splende e minaccia per conto suo: in senso stretto non c’entra con la gente. La cultura è come la Peste, salvo che è molto più ristretta: è fatta solo per gli appestati, gli altri non contano. Come la Grazia, che non ha una dimensione sociale.
Il suono delle sue parole è, per i pochi che ne godono, il veicolo di accesso a una cultura siffatta e insieme il suo risultato. Non solo traducendo dal latino si sviluppavano nei migliori «skills raffinatissimi»:
si trattava di cucire insieme le formule d’un repertorio, con l’impegno che l’insieme non volesse mai dire qualcosa di comprensibile, altrimenti addio, cascava tutto. [...] Genuina bravura stilistica che riusciva a comporre pagine intere, plausibili in ogni loro membretto stereotipo, ma senza un solo paragrafo a cui si potesse imputare un senso. Scrivere una pagina così con parole inesistenti, come Lewis Carroll, è un gioco: ma scriverla con parole ordinarie, lì è il vero impegno!
E ancora:
Al liceo si acquistava un rispetto assurdo per certe parole credute dotte, "contingente" per esempio, che poi in pratica si usava come sinonimo di poco importante, modesto. Ce n’era tutto un repertorio, avulso eteronomo alogico intrinseco sottende trascende dissidio divorzio ricalco antitesi sintesi inutile-sfoggio. Si potrebbero riempire delle pagine. Non che si fosse incoraggiati a servirsene: la prima volta che Adriani volle usare "ricalco" in un’interrogazione, si confuse sul merito (che cosa importa il merito di fronte a una parola così?), fu corretto, e dovette ricominciare da capo, cambiò i nomi, ma introdusse di nuovo il "ricalco", e l’insegnante si mise a prenderlo in giro. (Oggi è libero di dire ricalco quando vuole; e può dire inoltre ludico, connofobico ecc.)
Come devono leggersi queste riflessioni? Ah, certo, non come frutto di disprezzo per le parole. Tutti i Fiori stanno a rappresentare ciò che vi si dice a un certo punto incisivamente: «Per capire le cose dobbiamo aspettare le parole che ce le spieghino», anche ricalco, anche, magari, connofobico. Ma le parole devono avere un senso, non solo un suono, devono aiutarci a parlare di cose, a capirle e toccarle, a farcele pensare e sperimentare. Qui l’educazione liceale faceva e fa cilecca.
D’ogni aspetto concreto del mondo importava la ratio, diciamo lo schema della funzione clorofilliana, non la banale realtà, com’erano fatte le foglie dell’ontano (tranne che nelle illustrazioni di un libro: ma queste servivano per distinguere tra illustrazioni, non tra foglie vere o alberi veri), e meno che mai la praxis, potare, innestare.
Quasi solo una volta, da un professore, e poi leggendo da solo il De rerum natura, il giovane S. incontrò quest’altro modo di usare le parole, per capire e far capire cose: Quid lux? Quid imago? Quid umbra?. E soprattutto un professore, il professor Picone di scienze, garantì a S. un anno eccezionale e su un terreno lontano dalla vocazione di S., quello delle scienze naturali. Questo Picone non solo non temeva, ma cercava il legame tra le forme cristallizzate del sapere scientifico e le esperienze comuni (e spiegava per esempio che l’acido solforico non altro è che l’olio ƒumante usato dalle giovinette di campagna per riparare ai danni d’amore) e tra le une e le altre forme fino a schiudere spiragli inediti di sguardi sul reale.
Insegnava in modo superbo [...]. Meridionale, grassottello, occhiali a pinza, era un genio didattico. Pareva una figura comica, parlava affastellando le frasi, faceva pensare a una macchinetta parlante: cominciata una frase doveva portarla a termine in maniera predeterminata, come un disco inciso; anzi, pareva che la puntina fosse programmata per saltare da un solco a un altro e a un altro ancora. Lo sterno degli Uccelli è carenato, non per "tagliar l’aria" come può credere l’ingenua fantasia del popolo, ma per dare attacco ai potentissimi muscoli pettorali... necessari per il volo il quale richiede un lavoro enorme e dunque un grande afflusso di sangue ai muscoli... che è la ragione per cui il metabolismo degli Uccelli è singolarmente rapido, e determina l’altissima temperatura interna degli Uccelli, che è di 41 gradi non 37... [...] Quasi quasi direi che non importerebbe niente se risultasse oggi che i dati e le spiegazioni erano sbagliati: S. sentiva che centravano con assoluta giustezza tutto ciò che voleva sapere, un attimo prima che si accorgesse di voler saperlo... illuminavano.
Non vale solo per le culture dei popoli, vale (può valere) anche per i singoli ciò che a un certo punto Meneghello scrive: «La forza stessa delle nuove prospettive fa da maestra e direttrice didattica». E capire che con le parole ci aiutiamo a capire cosa fu, per il liceale S., una «nuova prospettiva».
Qui possono chiudersi queste brevi riflessioni che i Fiori suscitano: ci dicono che cosa è stata ed è una diseducazione. Ma anche ci dicono qualcosa che più d’una volta abbiamo discusso e forse scritto con un illustre fisico (e grande ammiratore...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Fiori italiani