1
Mi alzai molto presto quella mattina, ma il sole era già sorto da un pezzo. Ero di umore funereo e dopo una rapida doccia e un caffè lungo, accesi la prima sigaretta della giornata. Poco dopo le otto, indossai un completo blu di gabardine appena recuperato dalla lavanderia. Mi cadeva sulle spalle rendendomi simile a uno spaventapasseri: purtroppo avevo perso sei chili nell’inverno precedente, quando militavo tra i partigiani della brigata Malatesta nell’Alto Veneto.
Uscii in fretta, e mi avviai verso la mia vecchia Lancia Ardea posteggiata all’angolo tra via Piemonte e via Boncompagni. Era un’afosa giornata di metà luglio del 1945, due mesi dopo il mio ritorno a Roma dal Nord, dove mi ero recato nel febbraio dell’anno prima per una breve missione a Venezia affidatami da un facoltoso cliente, il commendator Giuseppe Baglioni Garlaschi. La missione si era rivelata tutt’altro che breve e mi aveva coinvolto per settimane in una serie di intrighi e delitti la cui soluzione infastidì a tal punto le autorità naziste da indurmi alla clandestinità e al conseguente passaggio nelle file della Resistenza.
Da qualche settimana avevo riaperto la mia agenzia di investigazioni al numero civico 22 di via Piemonte, ma data la situazione caotica ancora esistente a Roma, le opportunità di lavoro erano pressoché ridotte a zero. I mariti traditi, i negozianti truffati, i genitori di figlie minorenni scappate di casa erano inclini a risolvere i loro problemi da soli, senza ricorrere alla collaborazione di un poliziotto privato. E di conseguenza il mio portafoglio languiva.
Quel giovedì alle ore nove ero stato convocato dall’Alta Corte di Giustizia, che era stata istituita dal governo al fine di procedere all’epurazione degli esponenti della pubblica amministrazione, della burocrazia e della cultura che si erano compromessi con il fascismo o che dal fascismo avevano ricevuto prebende e vantaggi illeciti. L’Alta Corte aveva la sua sede presso il ministero dell’Interno in via del Viminale. In calendario c’era l’udienza che avrebbe deciso sul ricorso presentato dal commissario Vito Patanè, che al momento della liberazione di Roma era stato estromesso dai ruoli della Pubblica Sicurezza a tempo indeterminato, con l’accusa di collaborazionismo e per i suoi trascorsi di prevaricatore fascista. E io dovevo deporre in qualità di testimone.
Mentre percorrevo in auto via del Tritone in direzione di via Nazionale, riflettevo sul mio immediato futuro, che si prospettava tutt’altro che roseo.
Avevo delle cambiali da pagare, tre mesi di affitto arretrato, alcune riparazioni della Lancia ancora insolute e una compagna, Elena, che sul momento era priva di risorse.
Guardandomi attorno, mi rendevo conto di quanto la città fosse cambiata in quel convulso dopoguerra. Le macerie, gli abiti lisi e rattoppati, i risparmi azzerati dall’inflazione, la carenza di beni di consumo erano lì a testimoniare ai romani i peggiori anni della loro vita. Tornavano sporchi e laceri, i reduci dalla prigionia in India o nelle lontane lande del Texas, non ritornavano quelli dalla Russia invano attesi dai familiari. Ma a tutto questo squallore si sovrapponeva una febbre di vivere e un’ansia di benessere che sul momento si traducevano in tutto ciò che proveniva dall’America, il Paese del benessere per eccellenza.
I soldati Usa avevano importato un nuovo scatenato ballo: il boogie-woogie, che stava ottenendo un successo strepitoso tra i giovani. Le sigarette Camel e Lucky Strike, le gomme da masticare, i film di Hollywood scandivano la nuova vita di Roma città libera, la sua new way of life. Ma tutto ciò aveva il suo risvolto negativo: la città pullulava di segnorine, come venivano chiamate le ragazze, prostitute e non, che allietavano la vita dei militari Usa, e di sciuscià, adolescenti senza casa e famiglia che si arrangiavano con i paisà in modo più o meno lecito. La cronaca nera registrava quasi ogni giorno un numero crescente di furti, rapine, estorsioni, risse per motivi futili.
In questo clima di esaltazione e sregolatezza della prima estate di pace mi trovavo spaesato, quasi estraneo a ciò che avveniva intorno a me.
Appena giunsi al terzo piano del Viminale – erano le nove esatte – fui introdotto da un maresciallo dei carabinieri in una grande sala d’aspetto, dove avrei dovuto attendere il mio turno per la prevista audizione.
Mi guardai attorno perplesso. Un usciere in uniforme grigia era seduto a una scrivania d’angolo, intento a leggere un settimanale illustrato. Non mi degnò che di un’occhiata distratta. Dopo aver sostato per quasi mezz’ora in un silenzio ovattato, interrotto soltanto da qualche colpo di tosse dell’usciere, mi avvicinai alla scrivania e chiesi educatamente quanto tempo ancora dovessi attendere.
«Dipende» disse stringendosi nelle spalle «da quanto tempo impiegano a prendere il caffè… Sa, glielo portano dal bar.»
Stavo per replicare in malo modo, ma mi bloccai. Il mio sguardo era caduto sul giornale: sulla copertina si leggeva un titolo a caratteri cubitali: VALENTI-FERIDA. TUTTI I RETROSCENA DELLA FUCILAZIONE DEI DUE ATTORI. Sotto, spiccava una grande foto dei cadaveri di Luisa e Osvaldo sul tavolo di marmo dell’obitorio.
Il mio disgusto fu pari alla mia indignazione; da mesi ormai la triste fine della “coppia maledetta” era l’argomento principale su cui lucrava certa stampa scandalistica. Distolsi lo sguardo e mi accesi con mano incerta una sigaretta.
«Mi dispiace» disse laconico l’usciere «ma è vietato fumare.»
Feci appena in tempo a spengere la Camel, che il maresciallo dei carabinieri comparve da una porta e mi fece segno di seguirlo.
Non mi prese che pochi minuti, la deposizione sui trascorsi fascisti dell’ex collega Vito Patanè, resa in persona al presidente degli epuratori, avvocato Mario Berlinguer, un intellettuale sardo dai modi severi e impersonali. Appresi un’ora dopo, non appena ebbi fatto rientro nella mia agenzia di via Piemonte, che il ricorso del Patanè contro la sua epurazione era stato accolto dall’Alta Corte e di conseguenza lo stesso veniva reintegrato a tutti gli effetti nei ruoli della Pubblica Sicurezza con il grado e le funzioni di commissario capo della Squadra Mobile. Compito che aveva sempre svolto con cinismo, scarso acume e totale mancanza di buon senso.
Mi versai un bicchier d’acqua e scossi la testa: erano solo gli onesti a pagare, i furfanti se la cavavano sempre. E io a quel furfante, anche se controvoglia, avevo dato una mano.
Non avevo nulla da fare per il resto della giornata, così accesi la radio e fumai una Camel, la sigaretta americana che nelle mie preferenze aveva sostituito le Macedonia Extra, ormai fuori mercato. Dall’EIAR di Torino trasmettevano una canzonetta messicana di grande successo, cantata da una certa Dea Garbaccio:
Besame, besame mucho
como si fuera esta noche la ultima vez.
Besame, besame mucho
que tengo miedo a perderte perderte después…
La voce sensuale della Garbaccio fu interrotta da un tale che irruppe gesticolando nell’ufficio. Un uomo tozzo, sui cinquanta, che aveva tutta l’aria dello strozzino, e che infatti era uno strozzino: Oreste Mazzone, all’anagrafe.
«Ah, dottò!» esordì il Mazzone con espressione poco rassicurante «è una mesata che vi ho fornito quattro gomme nuove per la macchina. Allora, mi volete saldare le diecimila lire sull’unghia?»
Feci presente con un sorriso garbato che non avevo contante, ma che ero disposto a rilasciargli una cambiale a due mesi. Mi guardò disgustato per quasi un minuto, poi estrasse da un portafoglio rigonfio una cambiale già compilata e me la porse.
«Firmi qui, dottore, e se tra due mesi la manda in protesto, io mando lei all’ospedale. Chiaro?»
«Chiarissimo» risposi firmando la cambiale. «E stia sicuro, pagherò...