L'ultimo gregario
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L'ultimo gregario

Il romanzo di Fausto Coppi

  1. 300 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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L'ultimo gregario

Il romanzo di Fausto Coppi

Informazioni su questo libro

Ci sono incontri casuali che ti trascinano in un altro mondo. È quello che accade ad Antonio e Andrea, padre separato e figlio alle soglie dell'adolescenza, un sabato qualunque, mentre vanno in visita all'anziana nonna nell'Alessandrino. Entrando in un bar anonimo, Antonio rimane colpito da un omone in canottiera blu e pantaloncini, solo un po' ricurvo per l'età avanzata. È come se l'avesse già visto in tanti anni passati a fare il giornalista sportivo. Ma certo: è Sandro Torino, grande gregario di Fausto Coppi, anche lui di quelle colline. Basta un breve scambio di battute per capire che è un'occasione irripetibile per tutti: per il vecchio gregario di regalare a due menti entusiaste la storia preziosa di un'amicizia lunga una vita, per Antonio e, specialmente, per Andrea di immergersi nel mito più emozionante del ciclismo. In una serie di incontri sulle sedie di plastica del bar, fra spuma nera e calici di bianco, Sandro evoca l'epopea di Coppi, dalla prima bici — la Trifusì — al Giro del '40 vinto quando ancora era gregario di Bartali, dalla leggendaria Milano-Sanremo del '46, in cui staccò inesorabilmente tutti, agli anni mirabili 1949 e 1952 delle doppiette Giro e Tour, alla romantica, scandalosa follia della Dama Bianca… E dalle belle storie d'un tempo nascono altre belle storie d'oggi che parlano di poesie nascoste sotto un sellino, di un amore che sboccia, di corridori-ragazzini e di alberi felici.

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2011
Print ISBN
9788817036962
eBook ISBN
9788858622186

1

La cassiera ha lunghi capelli fulvi e lo sguardo stanco di chi ha battuto centinaia di mozzarelle in offerta, di caffè macinato nei pacchetti sottovuoto, di chi ha già chiesto centinaia di volte: «Ha la Fidaty?».
Antonio Donelli guarda il carrello, conta mentalmente i pezzi, immagina l’incidenza delle bottiglie di Amarone e di Gewurztraminer, e spara: “Ottantacinque euro e settanta centesimi”. Ci ripensa subito, ma ormai il prezzo è fatto. Non torna mai sul primo numero che i neuroni dell’istinto, abituati a scommettere su tutto, hanno già definito.
Davanti c’è una vecchietta magra come un cane randagio. Sul nastro ha messo una crescenza, un bricco di Tavernello, un pacco di riso primo prezzo e una baguette di pane scongelato e passato rapidamente al forno. Nella mano sinistra ha un sacchetto riciclato e un biglietto da dieci euro. Il budget.
Antonio studia i movimenti meccanici della cassiera. Nota che è un po’ appesantita, ma si sforza di ritrovarne l’antica bellezza. “Ha un figlio e un marito geometra,” pensa “vive in fondo a viale Zara in un trilocale affittato, arredato coi mobili dell’Ikea. Il cassettone bianco e rovere impiallacciato sta benissimo, ma il fondo dei cassetti non regge il peso delle magliette.”
«Sono ottantasette e venti… Ha la Fidaty?»
“Ottantasette e venti! Ho sbagliato di un euro e mezzo. Un euro e mezzo… meno del due per cento. Ci sta.”
Sono circa quarant’anni che Antonio si impegna nel giochino del prezzo. Lo faceva per il carrello della mamma. Lo faceva soprattutto con la ex moglie Margherita. Lei ci scherzava, ma lui ci credeva, prendeva il gioco, come tutti i giochi, terribilmente sul serio. Al supermercato come al ristorante. Lì però era più facile: pizze, birre e gelati… Ci azzeccava spesso. Era sempre una cifra compresa nell’intervallo tra i venticinque e i trenta euro.
«Ma come fai?» diceva divertita, senza vera convinzione, Margherita. Per Antonio era poco più di un sorriso compiaciuto. Un modo come un altro per assecondare qualche antico bisogno. Una via qualsiasi per trovare le linee perimetrali. I confini della vita.
«Quanti sacchetti vuole? Bancomat o carta?»
«Bancopaz, grazie. Preferisco così perché i soldi spariscono subito dal conto. La carta invece arriva dopo un mese come una brutta notizia che non ti aspetti.»
Antonio guarda la cassiera con più attenzione e non riesce a contenere la domanda: «Scusi se sono inopportuno… quanti figli ha?».
La cassiera prende tempo, stacca il lungo biglietto del conto, si rimpettisce e sogghigna. Gli occhi si accendono e cercano quelli di Antonio. Gli occhi dicono: “Ma che domande fa?”.
«Due, ho due figli.»
Nooo. Questa volta l’errore è più grave.
«Sono gemelli. Due maschietti che faccio ancora fatica a distinguere.»
Riscatto in zona Cesarini. Cosa poteva far pensare ai gemelli? Quali caratteristiche contraddistinguono i genitori dei gemelli? Ecco la domanda.
Nella tasca destra vibra il telefonino. Sul display compare la m puntata. È Margherita.
«Ciaaao. Come va? Quando arrivi? Lo sai che Andrea ti aspetta, già vestito, da un’ora?»
«Ma avevamo detto intorno alle dieci… sono le dieci adesso. Porto a casa la spesa e arrivo.»
«Va bene. Ah, se non avete programmi potreste andare a trovare la nonna. Da quando si è trasferita a Pozzolo ha pochissime occasioni di stare con Andrea. Non lo vede da Natale. Cosa dici?»
«Deciderò con lui. Non ti assicuro nulla perché la mia voglia di vedere tua madre è pari a zero-virgola, ma non sarò io a condizionare Andrea. Lasceremo libero spazio alla fantasia.»

2

Andrea ha dieci anni. Fisicamente ne dimostra di più, intellettualmente anche, ma la sua età emotiva è come il diagramma del Nasdaq al tempo della crisi. Quando è con gli amici fa quello più grande, fa il bulletto, e snocciola parolacce. Quando è con Margherita prova a tornare bambino, rannicchiato in posizione fetale altalenandosi tra le dolcezze e le ire funeste di una mamma senza mezze misure. Diventa rosso per un niente e si mangia le unghie fino al limite. A volte oltre. Quando è con papà è un po’ grande, nelle domande, e un po’ piccolo, nelle richieste. Di attenzione.
Antonio aspetta sotto casa, lì di fronte al parco. Andrea si scapicolla giù dalle scale con lo zainetto rosso Ferrari e gli occhiali da vista appena comprati.
«Papi, qual è il piano?»
«Intanto buongiorno, anzi ciao. Ma lo sai che stai bene con gli occhiali? Stai proprio benissimo.»
«Sì, ma quando sarò più grande mi farò le lenti a contatto. Con gli occhiali non si cucca.»
«Ma cosa dici? A parte che non è vero, o quanto meno non è detto. Papà ha gli occhiali da quando aveva sei anni e non se l’è passata male. E poi ti rivelo un segreto. Con gli occhiali fai selezione, diventi interessante per le ragazze che hanno più sensibilità. Fidati del vecchio papi.»
«Mmm… Allora? Qual è il piano?»
«Ti faccio una proposta indecente che non ammette repliche: si va in gita dalla nonna Rachele.»
«Ma che palle. No, no e no. Io voglio andare all’agriturismo e poi al bowling.»
«Dai che ci divertiamo. Lì c’è un sacco di verde. Possiamo cogliere qualche fico e, se ti comporti bene, sulla via del ritorno facciamo un salto all’outlet. Hai tre paghette arretrate, te le arrotondo a quattro. Venti euro a disposizione.»
«Magari troviamo l’ultimo Cycling Manager e lo special delle Cipolline in Nazionale

Il centro di Milano, il sabato mattina, è come un’arancia svuotata dalla spremitura. Le auto, come goccioline di succo, invertono il senso di marcia: invece di essere attratte dalla Madonnina prendono la via dei Laghi, della Bassa o puntano verso il mare della Liguria. Chi non ha una seconda casa, fosse anche un monolocale comprato a prezzi stracciati nelle aste tv, si sente una pippa.
Scappano da Milano soprattutto quelli che la amano. Arrivano sul lago o nella casa di campagna, si ammazzano di noia e già la domenica mattina non vedono l’ora di tornare in città.
L’Alfa station wagon color della nebbia asseconda i Navigli. Antonio pensa ai favolosi anni Ottanta (sì, quelli dei propri vent’anni sono tutti favolosi) quando si faceva notte ascoltando musica alle Scimmie, si giocava a bocce al Grand Hotel e si faceva Capodanno accanto alla Canottieri ascoltando la musica surreale di Elio e le Storie Tese.
Andrea smanetta sul computer di bordo. La colonna sonora è la playlist auto. Si parte con gli acuti dei Negramaro, Mentre Tutto Scorre, poi Solo3min, e le carezze di Allevi: A Perfect Day. Il navigatore satellitare dà i tempi: novanta chilometri, cinquantanove minuti alla meta. Impostando la scala su dieci chilometri si intuisce anche il tragitto, tra la campagna alberata del Pavese e quella più solitaria e scollinante del Tortonese.
«Papi facciamo il gioco degli alberi felici? Ne ho già visto uno spettacolare.»
«Certo cucciolo. Io guardo a sinistra e tu a destra. Ricordati i parametri.»
«Lo sooooo. Devono avere armonia, devono avere foglie verdi e turgide, un buon equilibrio tra fusto e rami e non devono avere vuoti che sbilanciano. Lo sai che so riconoscere un albero felice. Ho però una domanda: i salici piangenti possono essere felici?»
«Certo, ma devono piangere bene. Non possono lasciarsi andare fino a toccare terra; devono piangere con dignità. Guarda quella betulla. Guarda in fretta. La prima della fila. Lo vedi che il bianco e il nero del tronco sono in proporzione perfetta? Guarda i rami: sembrano lunghe mani aperte. E le foglie quasi argentate? Lo vedi che conferma la nostra regola: gli alberi più felici non sono quasi mai soli. E il primo del gruppo ne diventa il leader.»
«Quando eri piccolo sapevi riconoscere gli alberi felici?»
«Quando ero piccolo mi sembravano tutti felici. Ho incominciato a guardarli in maniera diversa quando avevo intorno ai quindici anni, dopo aver letto Il barone rampante. Il protagonista decide di vivere per sempre sugli alberi, passando da una pianta all’altra. Per un’intera estate ho pensato di imitarlo, almeno per gioco. Mi ero messo a selezionare le piante della campagna di zio Pino in funzione dei rami. Più erano robusti e ben definiti, più le piante mi sembravano rassicuranti. Fino al giorno che sono salito sul ciliegio, il mio preferito. In breve: mi sono ritrovato all’ospedale di Tradate con una doppia frattura al polso sinistro: radio e ulna sbriciolati. Gesso fino al gomito per un mese. Le firme col pennarello di tutti i miei amici, qualche “forza Juve”, e addio sogni da barone rampante.»
«Ma quel ciliegio era felice?»
«Mi sembrava. Ripensandoci adesso direi di no. Intanto era solo, di fronte a una piccola pianta di amarene e a un grande noce. Il ramo che si è spezzato, tre metri sopra al suolo, era malato. Potevo accorgermene perché al centro l’albero aveva molti vuoti. No, non era felice.»
«Guarda lì, nel giardino di quella casa giallo polenta, ci sono due palme. Quella di destra mi sembra felice.»
«Negativo. Ricordati che le palme non possono essere felici per definizione. Intanto hanno fusti altissimi, solitamente storti e alla base del pennacchio ci sono sempre foglie secche. Le palme non c’entrano nulla con queste terre di boschi e di brughiere. Andavano di moda negli anni Trenta, quando l’Italia di Mussolini inseguiva un posto al sole. Magari in Liguria… ma qui scordati che siano felici.»
Antonio rallenta di colpo ché il cartello autostradale segnala il tutor. In fondo alla playlist c’è la voce a grattugia di Vinicio Capossela: «… e dopo al profumo dei fossi / a lui parve / in quegli occhi potere veder / lo stesso dolore che spezza le vene / che lascia sfiniti la sera / la luna altre stelle pregava / che l’alba imperiosa cacciava / a lui restò solo il rancore / per quel breve suo amore / che mai dimenticò».
«Papi, ma tu sei triste?»
«Perché dici così? È per questa canzone? Dai che siamo arrivati, poi mettiamo la tua playlist, quella con She’s Electric e We Will Rock You. No, non è esattamente il miglior momento della mia vita, ma quando sono con te sono contento. Ora dalla nonna ci facciamo quattro risate. Preparati a incassare una bella sgridata perché non ci facciamo mai vedere. Vedrai che ci avrà preparato la parmigiana di melanzane. Ah, piuttosto, non possiamo presentarci a mani vuote. Passiamo dal centro di Pozzolo Formigaro. Mannaggia! Dovevamo pensarci a Milano… Qui sarà tutto chiuso. Magari in un bar troviamo almeno una bottiglia di vino.»

3

Il bar Centrale è appoggiato alla chiesa di San Martino fin dall’epoca del Barbarossa. È il ritrovo dei pozzolesi d’origine controllata e garantita, quelli che guardano agli extracomunitari con gli occhi che Clint Eastwood offriva alla vicina di casa, la vecchia Hmong, in Gran Torino. E anche in questo caso, dietro allo sguardo c’è una primordiale accettazione. Complicità latente tra gente di periferia.
Le donne entrano, bevono un caffè o si fanno preparare una coppetta di gelato, ma escono subito. Gli uomini no. Si fermano e a volte passano il pomeriggio seduti fuori, sulle sedie di plastica stampata, con vista su via Asilo Raggio.
«Se fossi in lei sposterei la macchina. Dopo le dodici c’è il lavaggio strade. Tra poco passa la vigilessa in motorino e pram-pe-te… multa! Oggigiorno è anche salata…»
Antonio e Andrea restano con un piede sul primo gradino ad ascoltare quel consiglio che sa di avvertimento. Arriva da un omone in canottiera blu e pantaloncini corti, appena un po’ ricurvo per gli anni. Tanti anni.
«Entro soltanto a comprare una bottiglia di vino e scappo» risponde Antonio e pensa subito di appiccicargli addosso un’età. “Ottantacinque: mese più, mese meno, è roba da ottantacinque anni ben portati.”
«Allora va bene. Controlliamo noi. La vigilessa è una iena, ma se la sposta subito niente multa. Il camioncino del lavaggio deve ancora passare intorno alla parrocchiale. Ce la può fare.»
Antonio non ascolta più. Osserva. Il volto di quell’omone gli dice qualcosa. Gli occhialoni appoggiati sul naso importante nascondono occhi già visti.
All’interno, il bar ha una personalità trascurata. Sulla destra c’è una vecchia cabina telefonica. L’apparecchio a gettoni è stato sostituito da quello a scheda, ma non si capisce chi possa ancora avventurarsi lì dentro.
«Tiziano mi fai un panino col salame e un bicchiere di rosso?»
Dietro al bancone c’è un uomo così secco da sembrare malato: «Luisin, lo sai che non abbiamo rosso al bicchiere. Qui le macchine vanno solo a bianco: fermo o frizzante. Bianco di Gavi, roba fina…».
Antonio ci prova lo stesso: «Ma da portare via? Si può avere una bottiglia di buon rosso da portare via?».
«Certo. Tutto quello che vuole. A patto che sia piemontese. Linda fai vedere al signore i nostri Barbera e i nostri Barolo… Da due a cinquanta euro abbiamo il meglio del meglio.»
«Ne avete uno del ’99? È una grande annata» chiede Andrea.
«E tu cosa ne sai?»
«Lo so perché è il mio anno di nascita. Papà colleziona i Barolo e i Brunello di Montalcino del ’99 per regalarmeli quando avrò diciott’anni. Ci dicono tutti che è un’ottima annata.»
«E bravo papà. Qui però non teniamo vini così vecchi. Qui diciamo che il vino non deve andare alle scuole elementari…»
Linda si volta e guarda Antonio con occhi nuovi. Nonostante l’età è ancora una bella donna, appena arrotondata da decenni di burro e salumi. Ha capelli lunghi e neri, portati con una coda che appoggia a sinistra su un seno sfacciato.
È lì che cade lo sguardo di Antonio. Poi vira su Tiziano: «Scusi se sono indiscreto, ma quel signore anziano seduto vicino all’ingresso ha qualcosa di familiare. Mi sembra di averlo già visto».
«È Sandro Torino. Forse il nome le dirà poco ma è stato un grande gregario di Fausto Coppi. Coppi, almeno lo conosce? Ecco Sandrino, o Sandrone, come lo chiamiamo noi, è l’ultimo degli angeli custodi del Campionissimo. Farà ottantacinque anni a settembre: è il papà di mia moglie Linda.»
“Ma certo, Sandro Torino!” pensa Antonio “Il passistone della Bianchi, quello che vinceva poco o mai, quello che sublimava il sacrificio dando anima e forma al ruolo del gregario.” Rivede le foto degli anni Cinquanta con quei neri pieni e pochissima profondità di campo. Rivede i filmati d...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. L'ultimo gregario