IL BUIO
Non so se sia stato più penoso per me sapere che non avete mai smesso di cercarmi, e sentire la vostra sofferenza.
Non so se sia stato più penoso per me non sapere come fare per aiutarvi a comprendere, a farvene una ragione.
Non so se sia più penoso per me non aver vissuto neanche fino alla maggiore età, non aver provato emozione per il compimento del mio diciottesimo anno. E non aver potuto condividere questa emozione con voi.
Non so se sia stato più penoso per me sentire il mio nome, da lontano, senza potervi rispondere.
Non so se sia stato più penoso per me vivere nella terra degli scomparsi, senza potervi baciare, te cara mamma, e te caro papà, e voi due, Gildo e Luciano, i miei fratelli adorati.
O se sia più penoso per me sapere che la mia foto ha camminato sugli schermi durante i notiziari dei telegiornali, ed è stata pubblicata sulle pagine dei quotidiani. Senza che nessuno abbia capito davvero di me, il mio dolore,
per il fatto che sono stata strappata via,
agli affetti,
a voi,
alla vita.
Senza che nessuno abbia ancora capito come e quando sono stata lasciata lì, sola, abbandonata, in un angolo.
Senza che nessuno sappia cosa è successo veramente.
E chi è che si è tenuto dentro questo segreto.
. . .
Io so.
12 SETTEMBRE 1993
È domenica. Il giorno della messa. Sono circa le undici. Ed è l’ora dello struscio: è l’ora della passeggiata per il corso della città.
E oggi c’è anche una mostra. Una ditta che vende stereo per auto ha fatto arrivare a Potenza alcune Cinquecento d’epoca. Sono buffe: sanno di vecchio, anche se sono state tirate a lucido e apparecchiate con quegli aggeggi nuovi e metallici che trasmettono musica a tutto volume.
Elisa ha sedici anni; è una ragazza castana, carina ma non appariscente. Studia, è affettuosa con i suoi genitori, e ha due fratelli più grandi, Gildo e Luciano. Anche con loro ha un buon rapporto; la considerano la piccola di casa, e la proteggono non si sa bene da cosa, visto che in quella città di provincia non succede mai niente.
Quel giorno, quella domenica, Elisa si deve vedere con la sua amica Eliana, e con lei andare a messa. Poi, insieme, andranno fuori città, a Tito, che è a pochi chilometri da Potenza, per pranzare con la famiglia di Elisa, nella loro casa di campagna.
Eliana, l’amica di Elisa, ha lunghi capelli crespi, di colore rosso mogano, porta gli occhiali, ed è piena di brufoli. Eliana non è bella, non è neanche particolarmente simpatica: è una ragazza un po’ chiusa.
Eliana non va mai a pranzo a casa delle amiche. Ma questa volta ha insistito con la sua famiglia per ottenere il permesso. Ha insistito molto, più del normale.
La messa sta per iniziare. Le due ragazze devono affrettarsi, anche se non ci vuole molto per arrivare in chiesa. Elisa prende le cose che le servono. E si appresta a uscire con la sua amica.
Il fratello Gildo rimane a casa, ad aspettarle; la mamma, il papà e l’altro fratello, Luciano, sono già partiti per Tito. Sono andati avanti a preparare per il pranzo.
Elisa apre la porta di casa. Saluta il fratello. Scende le scale parlando con Eliana.
Gildo si mette a studiare e sente il rumore del portone sbattuto.
Un rumore familiare.
Che è stato l’ultimo rumore di Elisa.
Quel giorno Gildo non sa che sarà l’ultimo.
L’ultimo segno della presenza di Elisa.
Domenica.
Ore 11.20.
Il portone sbattuto.
Gildo non la rivedrà più.
Elisa quel giorno non torna a casa.
Non tornerà mai più.
Elisa scompare.
Nel nulla.
Di domenica. Di giorno. In pieno centro.
Le lancette dell’orologio di Elisa si fermano alle ore 11.30 del 12 settembre 1993.
IL GIORNO PRIMA, QUANDO
ANCORA SI SORRIDEVA
Il giorno prima che scomparisse Elisa, mia sorella, era un sabato: sabato 11 settembre 1993. Ricordo che alle quattro del pomeriggio un tuono più forte degli altri mi aveva fatto sobbalzare; la pioggia sferzante graffiava i vetri delle verande. Fuori, come un nero presagio, era diventato buio. Lo squillo acuto del telefono aveva rotto il silenzio che era seguito al boato del tuono.
Avevo sentito Elisa rispondere all’apparecchio, pochi monosillabi, un grazie appena bisbigliato, un nome, Danilo, poi un lungo silenzio e infine solo: «Va bene, a domani», con un tono di irritazione a stento celata.
Non so perché ma quando torno indietro con la memoria, inconsciamente vado col pensiero a quel pomeriggio, a quando la mia vita e quella dei miei cari stava per cambiare repentinamente precipitando in un abisso che sarebbe durato anni e in cui, mentre scrivo, ci dibattiamo ancora.
Era stato un giorno come gli altri, per quanto velato dalla malinconia che accompagna il momento in cui senti che l’estate sta per cedere il posto all’autunno: l’aria si fa più fresca, arrivano le prime piogge. Da appena due giorni Elisa aveva sostenuto gli esami di riparazione, li aveva superati e ormai mancava poco all’inizio della scuola. Anch’io avevo ripreso da qualche giorno a studiare, mi mancavano tre esami alla laurea, calcolavo che se tutto fosse andato bene avrei potuto farcela per l’estate successiva; avrei avuto ventiquattro anni. E poi bisognava tener duro ancora un po’. Ero deciso a fare il concorso in magistratura, era quello il sogno che coltivavo allora.
La sera era scesa quasi all’improvviso, la pioggia era cessata lasciando nell’aria l’odore pungente dell’erba bagnata dopo settimane di caldo torrido. Non avevo voglia di uscire, in soggiorno Elisa era incollata al televisore, guardava per l’ennesima volta Ghost con gli occhi rapiti dell’adolescente che immagina di poter vivere l’amore vero, quello così assoluto da sopravvivere oltre la vita. Ricordo in modo maniacale ogni piccolo dettaglio di quelle ore, forse per una larvata inquietudine che s’era fatta strada in me o forse più semplicemente perché sono gli ultimi flashback di lei, del suo sorriso, della sua gioia di vivere, della scintilla che accendeva i suoi occhi e che ti contagiava.
Poco dopo Elisa decise di uscire. Era arrivata Sonia, una sua amica, che era venuta a chiamarla. Mi schioccò un bacio distratto dicendomi che sarebbe tornata nel giro di un’ora, a mamma l’avrei detto io quando di lì a poco sarebbe rientrata insieme a mio padre.
Più tardi cenammo tutti insieme e prendemmo accordi per il giorno dopo: mamma e papà, con mio fratello Luciano, sarebbero andati via di primo mattino, s’era pensato di pranzare in campagna. Avevamo una casetta a pochi chilometri da Potenza. Dopo il terremoto dell’80, per circa due anni eravamo rimasti senza casa, come molti del resto in città, facendo l’esperienza poco piacevole delle roulotte prima e dei container poi. Per questo mamma e papà, con molti sacrifici, si erano decisi a costruirla. Io avevo da studiare ed Elisa aveva deciso di raggiungere il resto della famiglia con me; avrebbe approfittato della mattinata per vedersi con le amiche e andare a messa, e poi non si sarebbe dovuta alzare di buon’ora, la qual cosa certo non le dispiaceva, visto che era capace di dormire finché qualcuno di noi non la tirava giù dal letto.
Quella domenica fui svegliato dal tonfo della porta che si chiudeva, guardai l’orologio, quasi le otto: i miei erano appena usciti, evidentemente. Oziai ancora qualche minuto nel letto e poi mi tirai su, mi preparai il caffè e tornai nella mia stanza, dove, ad aspettarmi minacciosi sulla scrivania, c’erano i tre tomi di diritto amministrativo. Elisa dormiva ancora alla grande, cercai di non fare rumore, pensai che di lì a qualche giorno sarebbe ricominciata la scuola ed era giusto che si godesse gli ultimi scampoli di vacanze estive.
Passate le dieci decisi di svegliarla, poco più di un’ora dopo sarebbe passata a chiamarla Eliana. La sera prima Elisa mi aveva detto che l’amica sarebbe venuta a pranzo con noi in campagna. Sarebbero andate insieme alla messa, io le avrei aspettate a casa, e poi saremmo partiti intorno a mezzogiorno.
Nella penombra della stanza la intravedevo appena, mi accostai al bordo del letto e cominciai a chiamarla. In risposta ricevetti una serie di mugugni e un «lasciami dormire» che suonava come un appello disperato. Alzai risoluto la tapparella e la stanza fu inondata da uno splendido sole che sapeva d’estate, la pioggia del giorno prima era solo un lontano ricordo. Lei aprì gli occhi, mi vide e lanciò un cuscino urlandomi di sparire, lo raccolsi e glielo tirai indietro. La sua risata è il ricordo più nitido e bello che ho di lei.
Tornai alla scrivania, m’immersi di nuovo nelle pieghe della pubblica amministrazione, dei ricorsi al Tar e al Consiglio di Stato; in sottofondo sentivo lo scrosciare dell’acqua nella doccia e le note di Strada facendo. Baglioni lo ascoltava ogni giorno, quella poi era la sua canzone preferita. La porta del bagno che si apriva e me la trovai davanti già vestita e pronta per uscire. Pantaloni blu, sandali aperti dello stesso colore e una maglia bianca fatta ai ferri.
Gli stessi abiti la cui descrizione di lì a qualche giorno sarebbe finita sui volantini affissi in città, sui tg e sui giornali. Gli stessi che diciassette anni dopo avremmo dovuto riconoscere in una stanza del primo piano della questura, ormai lisi dal tempo, privi di luce e di colore, con l’odore di morte che traspirava a dispetto del cellophane in cui erano chiusi; grigi reperti contrassegnati da un numero, e la certezza lancinante che i miseri resti trovati in quella chiesa erano proprio quelli della mia sorellina.
Il suono del citofono annunciò l’arrivo di Eliana. Elisa ingurgitò la brioche che aveva ...