Fra le braccia del vento
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Fra le braccia del vento

  1. 210 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Fra le braccia del vento

Informazioni su questo libro

Dalle numerose lettere che da tempo mi inviano i lettori, mi sono reso conto che fra tante passioni quella per il mare è tra le più forti e profonde. Leggendo le testimonianze della gente si intraprende un viaggio senza fine che ci porta in paesi lontani al di là del mare, per scegliere la rotta che ci porterà in salvo dalle tempeste della vita. Il mare è protagonista di questo libro dove si narra la storia di un uomo che si salva quando tutto pareva ormai finito. Carol Wilson, un londinese cui è stato diagnosticato un male incurabile, decide di finire i suoi giorni nel mare che ama. Parte con il suo veliero e si affida al vento che portandolo di isola in isola lo condurrà attraverso incontri con persone straordinarie, a ripensare alla sua vita e a riconciliarsi con essa, gli farà ritrovare la salute, la serenità e conoscere il vero amore. La storia dell'avventuroso viaggio pieno di sorprese, di prodigi, in un continuo dialogo con gli abitanti e la natura dei luoghi, è quella che Carol rivela a un giovane amico incontrato nel paese di Portovenere dove è giunto insieme a Sanja, la ragazza che lo ama e che, appassionata di lettura, aveva avuto notizia, nella sua terra lontana, di questo paese d'amore e di poesia. In appendice ho voluto ringraziare i lettori che mi scrivono dei loro amori, dei loro drammi e mi fanno così partecipe delle loro vite, riportando alcune delle mail che da anni ogni giorno mi arrivano. Questo racconto di un lungo viaggio per mare che rappresenta la resurrezione di un uomo è dedicato a tutti loro. R.B.

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2012
Print ISBN
9788817054805
eBook ISBN
9788858623794
Fra le braccia del vento
Le cose andarono così: da una semplice coincidenza nacque una storia che non dimenticherò mai.
Accadde un giorno quando un vecchio veliero, battente bandiera inglese, entrò nel porticciolo della baia di Portovenere al riparo dal vento di libeccio che da una intera settimana flagellava la costa.
L’imbarcazione faticò un po’ a trovare uno spazio per l’ormeggio e si fermò a pochi metri dalla caletta. Cercai di dare una mano all’anziano marinaio e lo aiutai ad ormeggiare e a scendere a terra. C’era con lui una ragazza dai capelli neri e gli occhi a mandorla luminosamente azzurri.
Dopo un lungo viaggio avevano raggiunto Portovenere, un paese di poche anime che, per la sua bellezza e conservazione, è stato proclamato dall’UNESCO patrimonio dell’umanità.
Il nome del borgo, abitato per lo più da pescatori, deriva da un tempio, dedicato alla dea Venere, che sorgeva nel luogo in cui ora s’innalza la chiesa di San Pietro. Il tempio era dedicato alla dea dell’amore che, secondo la tradizione, era nata dalla spuma del mare come quella prodotta dalle onde che si infrangono proprio sotto quel faraglione.
Il paese, frequentato da turisti di tutto il mondo, sorge sulla sponda occidentale del golfo di La Spezia. Davanti ci sono tre piccole isole: Palmaria, Tino e Tinetto. Il profumo delle erbe selvatiche, che vi nascono, arriva con la brezza sino all’abitato.
La storia che vi racconto incominciò quel giorno di tanti anni fa. Era marzo, un forte libeccio stava flagellando tutta la zona. Anche Portovenere era in balìa delle folate gelide.
Ero seduto come ogni giorno a un tavolo della trattoria “Il gabbiano”, luogo frequentato da pescatori e uomini di mare che passavano le ore a parlare di avventure e a bere il vino bianco assieme alla gassosa. Fu proprio lì che il navigatore mi raccontò la sua storia.
Diventammo amici. Gli dissi di chiamarmi Eugenio, di essere appassionato del mare e di aver fatto qualche piccolo viaggio nell’arcipelago Toscano. A quel tempo avevo venticinque anni e per mantenermi agli studi, ogni notte facevo il guardiano del faro all’isola del Tino.
Ascoltando l’uomo del veliero si capiva che aveva una profonda conoscenza del mare e che sapeva antiche leggende ripetute dalle varie generazioni, che si susseguono come le onde lungo la riva, per averne fatto tesoro nel corso degli anni.
Esistono, infatti, molti racconti di mare nati nelle bettole fumose dei cacciatori di balene, altri provengono dal sud e perfino dal mare del Giappone. Raccontano tutte che l’immensa distesa di acqua conserva ciò che nella vita abbiamo perduto, quello che non abbiamo avuto, tutti i desideri infranti. Il mare, dicono i poeti, appartiene a coloro che credono nella bellezza dei propri sogni. A distanza di migliaia di secoli il mare è ancora lì a testimoniare una verità il cui significato spesso ci sfugge.
Nessuna conoscenza, nessuna sensazione, nessuna esperienza è superiore a quella del mare. I suoi occhi riescono a leggere quello che è scritto nel cuore, scolpito sulle pietre o nascosto fra le onde.
Aver sperimentato questo vuol dire aver scoperto il sogno a cui abbiamo anelato per tutta la vita. La storia del navigatore solitario era quel sogno.
L’uomo, che aveva scelto il mare per morire, dopo un lungo viaggio approdò in questo luogo di poesia dove soggiornarono Lord Byron e il suo amico Shelley appassionati di poesia e d’amore. Sopra la porta di una delle loro case era scritto: In questo golfo la libertà e l’amore non hanno catene. Sulla barca di Byron si leggeva: Navigate, sognate, amate. Cercavano la poesia e l’amore, amavano la vita, ma il destino portò uno a morire in mare durante un forte naufragio a bordo del veliero Ariel che era partito da Livorno, l’altro a morire lontano dalla patria mentre si batteva in difesa dei popoli oppressi.
Erano approdati su questa costa a bordo di imbarcazioni a vela e vi rimasero per anni scrivendo pagine importanti delle loro opere.
Carol Wilson, così si chiamava il navigatore solitario, proveniente da uno dei più popolosi quartieri di Londra, era approdato qui dopo un viaggio fatto per difendersi dai venti e dalle amarezze della sua travagliata esistenza, ma in cui aveva ritrovato la vita e l’amore.
Avrà avuto poco più di cinquant’anni, un corpo slanciato, magro, il viso scavato e i capelli lunghi e grigi come quelli del capitano Achab alla ricerca della Balena Bianca che gli aveva arrecato dolore e sofferenza nel tentativo di togliergli la vita. Raccontava spesso dell’eroe di Melville e del tremendo odio che nutriva per la balena simbolo delle forze del male e della natura maligna. E per questa ragione, con la sua barca, aveva deciso di dare la caccia al cetaceo, nella speranza di poter liberare il mare dalla sua terribile presenza.
La storia di Moby Dick parla del duro rapporto tra uomo e natura, rappresentata dalla balena bianca, che riesce comunque ad avere la meglio sul genere umano personificato dal capitano Achab e dalla sua ciurma: infatti essi finiscono la loro vita nel profondo degli abissi.
Non era possibile sconfiggere il gigante del mare perché secondo gli scritti di Melville, che hanno creato la leggenda, era una creatura misteriosa come la distesa d’acqua in cui viveva, l’immagine dell’inafferrabile fantasma della vita contrapposta a quella della morte. La storia di Achab, in qualche modo, assomigliava a quella di Carol.
Spesso ci sedevamo a un tavolo di quella trattoria, “Il gabbiano”, ritrovo di marinai e di poeti. Gli dissi che anch’io conoscevo tante cose del mare. Lui mi ascoltava, fumava la pipa e di tanto in tanto mi faceva qualche domanda.
Proprio in uno di quei lunghi pomeriggi decise di narrarmi le sue vicende e rivissi, giorno, dopo giorno, tutte le avventure del suo lungo viaggio.
Mi confessò che i medici a Londra gli avevano diagnosticato una grave malattia che lo avrebbe fatto vivere ancora solo pochi mesi. Per questo motivo aveva pensato di andare a morire in mezzo al mare che aveva sempre amato.
Carol non aveva rivelato la sua triste verità alla famiglia, li aveva solo informati che intendeva fare una vacanza e partì affidandosi alle braccia del vento e alle correnti impetuose del mare e degli oceani.
Parlando con lui venni a conoscere molti particolari della sua vita. Mi disse che in casa, a Londra, era come un estraneo. Sua moglie era completamente disinteressata a lui e anche suo figlio lo ignorava. Ognuno faceva la propria vita senza occuparsi degli altri.
Una esistenza come la sua, aggiunse Carol, era di una profonda solitudine. A Natale appena un augurio e per le altre ricorrenze nemmeno una parola.
Tutto era finito così per varie incomprensioni e lo strappo non si era più ricucito.
Carol ne parlava con una grande tristezza nel cuore e capiva che la sua vita era stata un fallimento.
Ricordò suo padre, commerciante di sete in Inghilterra. Anche lui sempre in viaggio nei mercati d’Oriente aveva avuto una vita avventurosa, ma senza affetti. La moglie, dopo ripetute liti, lo aveva abbandonato.
L’uomo parlava abbassando ogni tanto la pipa che spesso teneva spenta fra le labbra e in quei momenti restava in silenzio a riflettere.
Lo ascoltavo con attenzione e uno dopo l’altro i pomeriggi, mentre eravamo seduti alla trattoria, si trasformarono in un lungo racconto di dolore, amarezza, rimpianti. Un affresco dai colori densi, carico di luci e ombre.
Lui a Londra lavorava in banca e ogni tanto si concedeva una gita in barca. Il veliero che possedeva era la sua passione. L’aveva comprato di seconda mano e restaurato da solo lavorando nelle ore libere e nei giorni di festa.
Ne era attratto perché gli avevano detto che a bordo aveva navigato per tanti anni un equipaggio leggendario scomparso misteriosamente durante una tempesta.
I marinai di tutti i continenti hanno sempre raccontato che le imbarcazioni abbandonate dai loro equipaggi continuano a vagare da sole, come se avessero un’anima.
Un secolo fa, un veliero americano fu visto avvicinarsi a terra e dirigersi a forte andatura verso gli scogli. All’ultimo momento riuscì ad evitare l’ostacolo ed entrò nella baia fermandosi davanti alla barriera. Alcuni pescatori salirono a bordo e con grande meraviglia si accorsero che non c’era nessuno: il veliero aveva fatto tutto da solo e pensarono che fosse stato guidato da un equipaggio fantasma.
Carol, il giorno della sua partenza, controllò minuziosamente lo scafo da cima a fondo. La sua passione per il mare era talmente grande che lui riusciva a capire l’anima delle imbarcazioni, la loro stabilità, la loro forza. La prua e la poppa erano in ordine, l’asta sulla quale era fissato il timone reggeva bene.
I fianchi del veliero erano solidi e anche gli alberi avevano conservato la loro flessibilità: quello di bompresso, di maestra, di trinchetto, di mezzana e di poppa avrebbero retto alle tempeste. Erano stati mantenuti dritti dalle sartie, le grosse funi ancorate all’imbarcazione. Anche le vele erano in buono stato e gli ornamenti erano intatti. Sotto la polena, raffigurante un angelo, erano ancora incisi due grandi occhi intenti a scrutare l’infinita distesa d’acqua.
Dopo una lunga revisione di mesi il veliero fu pronto per affrontare il mare.
La partenza
«Era l’alba di un mattino di giugno, il sole stava per sorgere, in casa Wilson la moglie e il figlio di Carol dormivano. I gabbiani volavano bassi sul Tamigi, la città si stava risvegliando, una nebbia leggera rendeva il paesaggio ovattato.
«Non dissi niente, feci le stesse cose di tutti i giorni, andai a comprare il pane e diedi da mangiare ai passeri che ogni mattina venivano puntuali sul davanzale della mia finestra. Quel viaggio era un addio alle cose che amavo, a quei pochi amici che mi erano rimasti, apparteneva soltanto a me. Quando salii a bordo mi si strinse il cuore perché lasciavo, forse per sempre, la città dove ero nato e vissuto.
«Mentre la barca prendeva il largo, mi passavano davanti tutti i ricordi vicini e lontani della mia vita. Rivedevo persone, sentivo le loro voci, riflettevo sui lati bui della mia esistenza, sui rimpianti, su tutto ciò che non avevo realizzato, sulle paure che mi avevano condizionato, sugli errori, sui sentimenti.
«Provavo le stesse sensazioni di quando, a dieci anni, mi nascondevo in una baracca di lamiere che avevo costruito dietro una fabbrica abbandonata. Era un posto segreto dove potevo fantasticare e guardare da vicino i gabbiani che si posavano sui fili dell’alta tensione. Una volta ne vidi uno cadere e morire. Gli altri gabbiani gli si fecero intorno, in cerchio lo sfiorarono con le ali, poi volarono via. Era il loro saluto. Ripensai a quell’episodio perché in esso c’era già il seme del mio futuro. Spesso il destino abita in una capanna nascosta fra le lamiere.
«Via via che il veliero si allontanava dalla terraferma, quello stato di tristezza e di abbandono cedeva alla calma del mare e al senso di libertà che si ingrandiva abbracciando l’orizzonte.
«Avevo sempre sognato di fare un lungo viaggio nell’oceano affrontando i venti e le onde e provando quelle emozioni che avevo ininterrottamente immaginato.
«Sapevo tante cose del mare, avevo letto decine di libri, consultato carte nautiche, studiato l’andamento dei venti e delle maree. L’occasione di un lungo viaggio per mare finalmente era arrivata anche se per un evento triste.
«Il giorno della mia partenza» proseguì Carol dopo una breve interruzione «il cielo di Londra era grigio e un leggero vento spirava da nord. Forse avrei dovuto aspettare qualche giorno per maggior sicurezza, ma il mare era calmo e non c’erano minacce di temporali. Oltretutto il vento avrebbe spinto le vele anche se sotto i ponti del Tamigi c’è l’obbligo di abbassare gli alberi per poter proseguire. Conoscevo bene quel tragitto: lo avevo percorso tante volte per raggiungere il mare.
«In casa, qualche tempo prima, avevo detto che mi sarei concesso una vacanza facendo un viaggio per mare con la mia barca. Mentii sul mio stato di salute per non essere compassionato o non creduto. Era già accaduto altre volte di dover chiedere aiuto, ma tanto mia moglie che mio figlio non avevano mai fatto niente per me.
«A che cosa sarebbe servito rimanere solo e malato in quell’inferno per morire senza una parola di consolazione? Salii a bordo della barca alle ore nove del quindici giugno 1963 ed issai le vele.
«Quando si parte per mare, ogni colpo di vento ha il rumore di un cuore che batte per l’emozione. Navigando ci allontaniamo dalla fonte del male, che ci ha resi vulnerabili, lasciandoci alle spalle i rovi e le catene.
«Chissà dove mi avrebbero portato i venti e le correnti, in quale luogo sarebbe giunta l’ora estrema della mia vita quando la luce si spegne e si precipita in un buio, senza fine, che segna il passaggio da una dimensione all’altra, oltre il quale si torna a vedere la luce?
«Quella luce è il tutto, il finito e l’infinito, la continuità della vita che arriva dall’eternità e si trasferisce in un’altra eternità. È il segnale del mondo, il più perfetto, il più completo. La terra è luce come il sole, la luna e tutti gli altri pianeti.
«Quando nasci vedi la luce e nella luce ritorni alla fine della vita terrena.
«Questi erano in quel momento i miei pensieri mentre la barca percorreva il Tamigi, il fiume a cui è legata la storia di Londra. Rivedevo i palazzi, le antiche costruzioni che si affacciano sull’acqua per oltre trecento chilometri. Mi apparivano uno dopo l’altro i porti dove andavo a giocare da ragazzo, i tratti di acqua bassa dove le grosse navi devono aspettare l’alta marea per entrare in città.
«Era un addio al fiume della memoria che non avrei visto più. Era la vita che, come l’acqua, correva verso il mare perdendosi nell’immensità. Sapevo che co...

Indice dei contenuti

  1. Cover
  2. Frontespizio
  3. Fra le braccia del vento
  4. Il Mondo Dei Miei Lettori
  5. Romano Battaglia in ebook