Cuori sanguinanti
Tutte le mattine e un pomeriggio sì e uno no, Rose Fabrizio, una ragazza messicana che veniva dall’Ovest, lavorava in un esclusivo collegio femminile come segretaria della direttrice, una certa signorina Talmadge: aveva una voce dolce, che restava tale anche mentre dettava una protesta sentita nei confronti della lavanderia, che aveva bistrattato i copriletti della scuola e i centrini per i comò; e anche quando spiegava il valore dell’educazione fisica a un’alunna recalcitrante che aveva dichiarato di odiare la pallavolo. Tutti i giorni al suo arrivo, poco dopo che Rose aveva aperto l’ufficio e scoperto la macchina da scrivere, la signorina Talmadge lanciava due volte il suo «Buongiorno!» e poi chiedeva con cadenza melodiosa: «Come sta la nostra ragazza dell’Ovest? Si è ambientata? Ha scoperto il fascino del New England, sia dentro che fuori?». Quindi entrava a passo rapido nel suo ufficio e faceva un gran baccano con gli archivi, spalancava con violenza la finestra, qualunque temperatura segnasse il termometro, e si metteva al lavoro come un turbine. All’inizio Rose, ventun anni e una sensibilità fuori dal comune, si adombrava per quel saluto, che secondo lei conteneva una sottile derisione; ma adesso, trascorsi due mesi, sapeva che dietro alle parole non c’era alcun sentimento; nello stesso modo rapido e gentile, e indifferente alla risposta, la signorina Talmadge si informava sul fidanzato della cameriera, sul ricamo dell’insegnante di francese e sulla serra del fratello del maestro di equitazione. Ma quell’accenno alle sue origini (doveva essersene fatta un’idea, per quanto vaga, perché, ammesso che immaginasse qualcosa, probabilmente immaginava indiani come quelli davanti alle tabaccherie e cespugli di salvia) ogni tanto le provocava un formicolio sottocutaneo e la distraeva dalla sua stenografia, perciò a volte se n’era uscita con risposte senza capo né coda.
A parte la presenza vocale della signorina Talmadge, in realtà Rose si era acclimatata e trovava che il New England fosse davvero affascinante, anche se non era sicura che lo fosse sia dentro che fuori, perché non aveva la più pallida idea di cosa intendesse dire la direttrice. Godeva dell’abbondanza di alberi imponenti, dello stile pulito delle case e delle chiese, dei cimiteri venerabili e dei negozi discreti. Non ci si accorgeva neppure dei quartieri industriali, o della ferrovia, o delle stazioni di servizio, o delle torri dell’acquedotto e delle centrali elettriche. Nella sua città , giù all’Ovest, non c’erano alberi neppure nelle vicinanze, e quei pochi che si vedevano erano gracili e spelacchiati. La strada principale consisteva in una fila di soglie sudice che davano su interni ancor più sudici di sale da biliardo, drugstore dove perfino il banco delle bibite gassate aveva un’aria moscia, e ristorantini e birrerie e alberghi le cui finestre talvolta erano decorate con i tralci delle patate dolci che uscivano da barattoli di marmellata dipinti di rosso, o con picconi da cercatore d’oro e pepite false o, a volte, semplicemente con la leggenda allettante, ma poco credibile, che fosse gradita la presenza delle signore o che ci fossero separé riservati a loro. Lì, in quella dignitosa cittadina del New England, le persone, per quanto malandate fossero, indossavano guanti e cappello a tutte le ore del giorno e tutti i giorni, e avevano un’aria virtuosa, controllata, pulita e istruita. La popolazione della cittadina da cui veniva lei era per la maggior parte messicana e, per tale motivo, impegnata a fasi alterne in risse violente o completamente inebetita, al punto che, quando non si menavano a vicenda, fissavano lo spazio polveroso o ciondolavano in atteggiamento comatoso contro le proprietà comuni sulla strada principale: i pali del telefono, gli idranti e le staccionate. Avevano la carnagione scura e nel complesso erano piuttosto grassi, e amavano indossare colori sgargianti e giovanili. Rose ripudiava tutto ciò e ammirava profondamente il pallore delle persone del luogo, gli abiti marroni o grigi e il loro accento, tanto che un semplice addetto a spillare bibite sembrava uscito da Harvard.
In quell’atmosfera di buone maniere e maturità , Rose era felice metà del tempo, e l’altra metà profondamente depressa, per l’invidia che provava nei confronti di quella gente nata lì da onesti piccolo borghesi e allevata con una compita posatezza. E, benché fosse adulta e avesse una laurea in materie umanistiche (certo non era andata alla Radcliffe e il suo corso di studi era stato una faccenda piuttosto scialba e poco interessante), il più grande desiderio di Rose era essere adottata da un abitante del New England. Certe volte quel desiderio, insieme al suo senso di solitudine – e il fatto che la città non fosse ospitale non lo faceva diminuire, semmai il contrario – la logorava così tanto che non riusciva neppure a leggere o a fare un solitario e se ne stava seduta con le mani in mano, infelice, nel suo soggiorno-camera da letto in cui il vento scendeva dal camino come una voce flebile e ogni tanto faceva muovere lo scaldino per il letto con il manico lungo appeso al gancio, che scampanava contro il muro di mattoni.
Aveva anche scelto la persona che voleva diventasse il suo padre adottivo, un uomo sulla sessantina che vedeva il martedì, il giovedì e il sabato pomeriggio in biblioteca, un edificio assurdamente moderno, dedicato alla memoria di Samuel Sewell. Lì Rose leggeva libri di psicologia in una stanza affacciata a occidente, dove il sole entrava in abbondanza dalle finestre; in quella stanza, accanto a lei, era sempre seduto un signore pensieroso, con al collo una sciarpa di seta giallo limone e un sobrio completo blu. La sciarpa da sola sarebbe bastata a qualificarlo come persona di una certa importanza, perché nessuno che non fosse importante, ragionava Rose, avrebbe potuto permettersi di essere così coraggiosamente eccentrico. Non sapeva cosa leggesse con quegli occhiali da erudito oxfordiano che calzavano alla perfezione sul suo naso imponente ed erano ancorati al risvolto della giacca da un nastro nero che terminava con un bottone argentato. I libri erano massicci, Rose sapeva solo quello, e le copertine erano di un ordinario marrone. Non prendeva mai appunti (mentre lei, essendosi laureata da poco, non faceva che scrivere) e leggeva con una certa lentezza. Non si muoveva per tutto il pomeriggio, salvo alle tre e mezzo, quando usciva e si fermava in piedi sui gradini a fumare una sigaretta; lei lo vedeva benissimo dalla finestra accanto alla quale era seduta a leggere del remissivo cane di Pavlov. A volte stava immobile, appoggiato al mezzo pilastro della facciata mezzo ionica, con gli occhi chiusi e le labbra che si muovevano appena, altre volte faceva il giro del piccolo cortile triangolare, la testa canuta e priva di cappello spinta all’indietro in una posa nobile. Di tanto in tanto si fermava sotto un albero e lì, le caviglie affondate nelle foglie morte dell’olmo, restava grandiosamente immerso nelle sue speculazioni. Rose pensava che potesse essere un matematico o uno scrittore di romanzi. Quando tornava dentro, portando con sé un residuo di aria autunnale, spesso guardava in direzione di Rose, attraverso i tavoli, e le rivolgeva un amichevole e formale cenno del capo, come se fosse il suo impiegato affaccendato che attraversava l’ufficio pieno di dipendenti. Una volta le disse qualcosa, ma a voce talmente bassa e con un’espressione così evasiva che Rose non capì e non poté fare altro che sorridere.
Nonostante la sua lunga tradizione a seguire gli impulsi irrefrenabili e a esporsi prima che le fosse lanciato il segnale, Rose non mosse un passo per approfondire la conoscenza dell’uomo, anzi, si fece scrupolo di non vederlo mai fuori da quel contesto. Se ne andava sempre dalla biblioteca prima di lui, in modo da non avere la tentazione di scoprire cosa stesse leggendo, perché questo le avrebbe fornito un indizio sulla sua professione, e per non scoprire la direzione che avrebbe preso per andare a casa. In precedenza, in autunno, prima di rendersi conto che i suoi orari alla biblioteca coincidevano con quelli di lui, e prima di voler essere adottata da lui, le piaceva passeggiare nei boschi e per le colline e lungo il fiume. La domenica andava sempre al cimitero più grande e più antico e lì, su una cresta rocciosa che sovrastava le piccole e nude pietre tombali, si leggeva da cima a fondo il supplemento letterario del «New York Times» e considerava distratta la siepe di crespino che cresceva disordinatamente lungo un piccolo corso d’acqua. Le piaceva immaginare com’erano arredate le case che intravedeva di fronte e chiedersi se i rampolli delle famiglie della Mayflower vivessero dentro quelle case e fossero sul punto di ordinare il tè. Ma adesso di domenica restava nella sua stanza, per quanto la giornata le sembrasse lunga, perché certo non avrebbe giovato ai suoi piani, pensava ragionevolmente, essere colta a spiare l’uomo della biblioteca, nel caso fosse arrivato a porgere i suoi rispetti alle ossa di qualcuno, di sua moglie, magari, o di una figlia adorata morta nel fiore degli anni.
E prima ancora Rose era andata a cena un paio di volte alla settimana in una locanda un chilometro e mezzo fuori città , in una stradina secondaria. Sfoggiava il marchio di Henry Ford, perciò c’erano avventori che discutevano sulla rivoluzione americana e che lanciavano esclamazioni sui pudding divorati in fretta. Il proprietario, un uomo letargico di Bangor, sedeva in un angolo accanto al camino e fumava una pipa d’epoca; si diceva che il cuoco discendesse da re Filippo da parte di madre. Secondo Rose era improbabile che l’uomo con la sciarpa gialla frequentasse un posto come quello, dal momento che l’atmosfera della sua sala da pranzo doveva essere di sicuro ancor più autentica. Ma lei non voleva correre il minimo rischio: come non voleva sapere quali libri leggesse (perché magari avrebbero rivelato che l’uomo stava attraversando una seconda infanzia) e non voleva vederlo deporre fiori sulla tomba della figlia (poteva non essere affatto una figlia ma solo qualche vecchia zia acquisita), allo stesso modo non voleva vederlo mangiare, per non scoprire che seguiva una dieta particolare e perciò soffriva di qualche malattia congenita.
Tutte quelle astensioni e la scontentezza che le accompagnava rendevano le giornate e le serate piuttosto monotone, e la spingevano a notare sempre più gli aspetti negativi della sua camera, che fino a quel momento aveva trovato ideale, almeno se paragonata con la sua stanza a casa, condivisa con due sorelle più piccole entrambe sonnambule, una delle quali digrignava i denti nel sonno. Abitava al pianterreno di una bifamiliare che sorgeva all’angolo di una strada e aveva la forma di un cuneo, così che i due ingressi si trovavano su due vie diverse. La sua stanza al numero otto di Patriot Road corrispondeva, secondo lei, al salotto del numero sei di Faneuil Lane e, attraverso il legno e il cemento, a volte le arrivavano voci soffocate, passi pesanti e le rimostranze indignate di una radio mal sintonizzata. Ma al numero otto non si sentiva mai un rumore. Lei era l’unica inquilina del pianterreno, tuttavia di sopra c’erano diverse figure fantasmatiche e mansuete che incrociava nel corridoio muffoso mentre andava e tornava dal bagno. La proprietaria abitava di fronte all’ingresso di Rose e si vedeva solo il mercoledì sera, quando arrivava a raccogliere i soldi dell’affitto e a portare gli asciugamani puliti. In genere quello scambio avveniva in silenzio e senza un sorriso. Il telefono suonava di rado e il campanello di casa mai. Oltre ad avere un’aria piuttosto sepolcrale, la casa era gelida e l’illuminazione nella stanza di Rose insufficiente.
Il suo stato d’animo sulla quiete del numero otto e sui rumori, per quanto distorti, del sei, passò attraverso vari stadi fra la metà di ottobre e le vacanze del Ringraziamento. Da principio il silenzio della propria abitazione le piaceva perché poteva leggere in piena concentrazione, e il baccano del sei la infastidiva quando era abbastanza forte da intromettersi nelle sue pagine e troppo debole per poterlo identificare. Poi fu turbata e quindi contrariata per il silenzio – lo trovava innaturale – mentre era grata perché attraverso la parete le arrivavano segnali di vita. E, di nuovo, si sentì tesa e irrequieta, in attesa di sentire i rumori e incapace di far buon uso degli interstizi di silenzio fra essi. Non aveva mai visto gli inquilini dell’altra casa, ma si era fatta un’idea di che genere di persone dovessero essere, perché spesso davanti al loro ingresso c’era un’auto elettrica che sembrava un grosso giocattolo abbandonato. Il guidatore, ne era certa, doveva essere una vecchietta energica che non ammetteva sciocchezze, e Rose arrivò a convincersi senza alcuna ragione che di signore simili ce ne fossero due, magari sorelle, o amiche fin dai tempi del collegio a Losanna. Una doveva essere piuttosto corpulenta oppure in qualche modo claudicante, e indossare scarpe speciali, perché diversamente non si sarebbe spiegato il passo pesante che si sentiva di tanto in tanto. Una volta, era domenica pomeriggio, guardando il cielo azzurro e terso Rose si chiese se l’uomo con la sciarpa gialla fosse mai andato in visita al numero sei, ma scacciò il pensiero, disdegnando la possibilità particolarmente orribile che lui potesse trovarsi lì proprio in quel momento.
Il giorno del Ringraziamento andò a pranzo nella locanda fuori città . L’uomo della biblioteca era là e, nell’istante in cui lo vide, vestito come al solito, Rose seppe che l’aveva segretamente aspettato, perché non provava la benché minima sorpresa. Era seduto al tavolo accanto al caminetto, impegnato in una conversazione con il proprietario mentre leggeva il menu. Nel focolare era acceso un fuoco vivace e la pelle fresca di lui scintillava alla luce come una foglia autunnale dorata, della stessa grana morbida. Sedeva dritto sulla sedia, e mentre aspettava la zuppa chiuse gli occhi e sorrise tranquillo prestando orecchio al proprietario, il quale sembrava stesse raccontando una lunga barzelletta. Pareva in posa per un ritratto, e davvero sarebbe stato un nobile soggetto per un pittore di dipinti somiglianti a presidi di college e medici rinomati, perché il suo viso mostrava ammirevoli qualità di maturità e profondità , pacifica saggezza, ironia e distacco. Non mostrava alcuna fretta. Aspettava il suo piatto con gli occhi chiusi, senza sentirsi costretto a tenersi occupato guardandosi attorno e osservando gli altri ospiti e le stampe di Currier & Ives alle pareti, e tutto il mobilio d’epoca che, volendo, si poteva acquistare. La mente giovane e impaziente di Rose balzò all’istante via da lui e indugiò, in rapida successione, sul gatto striato che senza un motivo al mondo stava in equilibrio sul pilastrino della ringhiera; sul limone nel bovindo, nutrito come un animale domestico perché producesse frutti di dimensioni smisurate; sui bambini dagli occhi castani e dall’espressione tranquilla che sedevano in silenzio al tavolo insieme a due magre donne anziane, che tenevano le mani giunte sulle portate in atteggiamento di preghiera. Fu colpita dal fuggevole pensiero che quelle due potessero essere le sue vicine di casa, e proprio in quel momento, come se una voce l’avesse esortata a farlo, guardò fuori della finestra il lontano viale d’ingresso e vide l’auto elettrica, il tettuccio quadrato brizzolato dal gelo. I bambini dovevano essere stati affidati alle anziane prozie per la giornata, e Rose pensò che doveva essere un piacere molto dubbio per tutti quanti, perché le quattro bocche mute erano piegate in un’espressione indecifrabile.
Rose non guardava il suo padre adottivo, salvo le volte che il suo sguardo cadeva accidentalmente su di lui. Una volta lo colse mentre la scrutava al di sopra di una forchetta carica di cibo, e mentre, sorpreso, lasciava cadere un po’ di ripieno dalla forchetta. Si sentì bruciare ogni centimetro di pelle e le mani le tremarono talmente che per un istante non osò provare a sollevare il bicchiere d’acqua, anche se aveva la bocca secca. Poi, quando l’uomo ricevette la sua insalata, lei lo guardò di nuovo, e lui le strizzò l’occhio in modo inequivocabile mentre mescolava le fette di pomodoro e il crescione. Non era un occhiolino aperto e diretto, e questo la precipitò nell’ansia. Mangiò in fretta per poter lasciare la locanda prima di lui perché, oltre a quella mossa ambigua con gli occhi, Rose aveva una paura inconfessabile che proprio lui, e non le anziane signore, potesse entrare nell’auto elettrica. Lottò duramente contro i suoi sospetti sul suo conto, e sottolineò con vigore a se stessa che quell’aristocratico dal portamento regale viveva in una casa stupenda e che, naturalmente, aveva dato alla governante e alla cuoca la giornata libera e, dal momento che l’aria era pulita e limpida, aveva preferito fare una passeggiata di un chilometro per andare a mangiare. Non poté impedirsi di pensare che era strano che nessuno l’avesse invitato a pranzo, perché di sicuro un uomo nella sua posizione, qualunque fosse, doveva avere degli amici in città . Forse disprezzava la fanfara sentimentale delle feste. L’anno successivo, dopo che l’adozione fosse diventata legale, immaginò che per il Ringraziamento, Natale e Pasqua avrebbero pranzato da soli per poi giocare a backgammon. Ma qui sorgeva un altro problema spinoso: avrebbe dovuto giocare male, per lasciargli il piacere di vincere, o con abilità , in modo che potesse lodarla? Sperava tanto che non avesse un violino e non si dedicasse ad altri passatempi bizzarri come collezionare manufatti della Rivoluzione o all’osservazione degli uccelli.
Rose non attese il dessert e uscendo lanciò una rapida occhiata ai cappotti appesi all’attaccapanni in ingresso. Riconobbe immediatamente il suo: era nero, con i bordi di castoro, e benché fosse piuttosto liso, aveva un aspetto ancora molto opulento e pratico. C’erano anche la bombetta e una pesante sciarpa scozzese. Temendo la strada lungo la quale l’auto elettrica poteva passare in qualsiasi momento, Rose si avviò attraverso il bosco e si diresse verso casa costeggiando le acque pallide e compatte del fiume. Trovò una monetina e la conchiglia di un mollusco d’acqua dolce, e si imbatté in una canoa tirata a riva, che avvizziva nell’autunno senza pioggia. Superò la scuola femminile e gettò un’occhiata alle finestre del dormitorio con le loro tende a strisce inamidate. Le ragazzine erano andate tutte e casa dai loro padri per le vacanze. Si sentiva molto sola lì, sulla riva del fiume, e cominciò a camminare in fretta, contando i passi per prevenire la malinconia, ma poi rallentò di nuovo rendendosi conto che nella sua stanza sarebbe stata altrettanto sola. Fino a quel momento si era accontentata di vedere l’uomo in biblioteca e si era sentita perfino un po’ orgogliosa, in uno strano modo, che lui avesse una vita segreta, indipendente dai pomeriggi alternati nella sala di lettura, e che quello che faceva lei nell’altro tempo fosse altrettanto inimmaginabile per lui. Ma adesso, sulla riva del fiume triste, aveva quasi paura a pensare a lui, proprio come aveva avuto paura da bambina, quando tutti avevano lasciato la chiesa dopo l’ultima messa e lei si era chiesta cosa sarebbe successo dopo, se i santi di gesso avrebbero preso vita e se Dio in carne e ossa sarebbe uscito dalle ostie custodite nel ciborio.
Finché non fu di nuovo nella sua stanza, piena delle ombre del crepuscolo e con i vecchi rivestimenti ammuffiti delle sedie di vimini deformate, Rose non seppe che c’era un’altra ragione per la quale non avrebbe voluto tornare: adesso si trovava faccia a faccia con la consapevolezza di aver visto l’autista dell’auto elettrica, che era quindi una delle responsabili dei rumori provenienti dalla casa accanto. L’auto era arrivata prima di lei. Nel momento stesso in cui oltrepassò la soglia e mise piede sul tappeto stinto con le sue fangose foglie di quercia, i rumori, vagamente spiacevoli, arrivarono dritti al suo orecchio già in attesa. Non c’erano rumori nuovi, nessuna voce di bimbo.
Per tutto quel pomeriggio, mentre Rose pensava all’uomo seduto nella biblioteca di casa sua (la Samuel Sewell era chiusa quel giorno), in una delle abitazioni bianche rivestite di assicelle di legno in una strada laterale, il sordo fracasso proseguiva dietro la parete. Da principio vi prestò scarsa attenzione; stava pensando alla poltrona rivestita di chinz, con lo schienale alto e i poggiatesta laterali, nella quale forse lui era seduto, con i piedi su un parafuoco d’ottone davanti al camino. E dapprima i suoni non furono invadenti. Ma quando si fece buio diventarono più insistenti e lei sempre più consapevole di essi. Anche se non riusciva a distinguere le parole e non avrebbe saputo dire quali movimenti li provocassero, era vigile con tutta se stessa, nel tentativo di decifrare quel futile mistero. Dopo...