
- 304 pagine
- Italian
- ePUB (disponibile sull'app)
- Disponibile su iOS e Android
eBook - ePub
Il quartiere
Informazioni su questo libro
C'è Valerio che nel 1932, quando inizia a raccontare, ha quindici anni e porta i calzoni corti. Il cuore gli batte per Luciana, ma è difficile dirlo a lei. Poi ci sono Giorgio, buono e coraggioso, Maria, che per leggerezza rischierà di perderlo, Marisa e Carlo, che molto avrà da farsi perdonare, Olga, bella e docile, Arrigo e infine Gino, con il suo grumo nero nel cuore. Sono giovani e poveri, ma uniti: nati e cresciuti a Santa Croce, Firenze. "Nulla sapevamo - dice Valerio - non volevamo sapere forse. Ci promettevamo oneste gioie. La nostra vita erano le strade e piazze del Quartiere." Ma la realtà, quella città aliena con i suoi bei caffè e le orchestrine, non si accontenterà a lungo di restare fuori a guardare. Farà irruzione nelle loro vite con la prepotenza del regime, delle guerre, della miseria. Distruggerà le loro case, li sparpaglierà nel mondo, li chiamerà chi alle armi, chi in carcere, chi nella lotta politica. Ma non potrà mai derubarli dell'eredità più preziosa del Quartiere, quell'incrollabile fede nell'uomo e nel valore della solidarietà.
Domande frequenti
Sì, puoi annullare l'abbonamento in qualsiasi momento dalla sezione Abbonamento nelle impostazioni del tuo account sul sito web di Perlego. L'abbonamento rimarrà attivo fino alla fine del periodo di fatturazione in corso. Scopri come annullare l'abbonamento.
Al momento è possibile scaricare tramite l'app tutti i nostri libri ePub mobile-friendly. Anche la maggior parte dei nostri PDF è scaricabile e stiamo lavorando per rendere disponibile quanto prima il download di tutti gli altri file. Per maggiori informazioni, clicca qui.
Perlego offre due piani: Base e Completo
- Base è ideale per studenti e professionisti che amano esplorare un’ampia varietà di argomenti. Accedi alla Biblioteca Base con oltre 800.000 titoli affidabili e best-seller in business, crescita personale e discipline umanistiche. Include tempo di lettura illimitato e voce Read Aloud standard.
- Completo: Perfetto per studenti avanzati e ricercatori che necessitano di accesso completo e senza restrizioni. Sblocca oltre 1,4 milioni di libri in centinaia di argomenti, inclusi titoli accademici e specializzati. Il piano Completo include anche funzionalità avanzate come Premium Read Aloud e Research Assistant.
Perlego è un servizio di abbonamento a testi accademici, che ti permette di accedere a un'intera libreria online a un prezzo inferiore rispetto a quello che pagheresti per acquistare un singolo libro al mese. Con oltre 1 milione di testi suddivisi in più di 1.000 categorie, troverai sicuramente ciò che fa per te! Per maggiori informazioni, clicca qui.
Cerca l'icona Sintesi vocale nel prossimo libro che leggerai per verificare se è possibile riprodurre l'audio. Questo strumento permette di leggere il testo a voce alta, evidenziandolo man mano che la lettura procede. Puoi aumentare o diminuire la velocità della sintesi vocale, oppure sospendere la riproduzione. Per maggiori informazioni, clicca qui.
Sì! Puoi usare l’app Perlego sia su dispositivi iOS che Android per leggere in qualsiasi momento, in qualsiasi luogo — anche offline. Perfetta per i tragitti o quando sei in movimento.
Nota che non possiamo supportare dispositivi con iOS 13 o Android 7 o versioni precedenti. Scopri di più sull’utilizzo dell’app.
Nota che non possiamo supportare dispositivi con iOS 13 o Android 7 o versioni precedenti. Scopri di più sull’utilizzo dell’app.
Sì, puoi accedere a Il quartiere di Vasco Pratolini in formato PDF e/o ePub, così come ad altri libri molto apprezzati nelle sezioni relative a Letteratura e Letteratura generale. Scopri oltre 1 milione di libri disponibili nel nostro catalogo.
Informazioni
Il Quartiere
Codesto solo oggi possiamo dirti:
ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.
Eugenio Montale
I
Noi eravamo contenti del nostro Quartiere. Posto al limite del centro della città, il Quartiere si estendeva fino alle prime case della periferia, là dove cominciava la via Aretina, coi suoi orti e la sua strada ferrata, le prime case borghesi, e i villini. Via Pietrapiana era la strada che tagliava diritto il Quartiere, come sezionandolo fra Santa Croce e l’Arno sulla destra, i Giardini e l’Annunziata sulla sinistra. Ma su questo versante era già un luogo signorile, isolato nel silenzio, gravitante verso San Marco e l’Università, disertato dalla gente popolana che lasciava i figli scavallare sulle proprie strade dai nomi d’angeli, di santi e di mestieri, nomi antichi di famiglie “grasse” del Trecento. Via de’ Malcontenti ne era un’arteria e un monito; via dell’Agnolo la suburra, sulla quale immetteva Borgo Allegri ove in un’età lontana un’immagine della Madonna, dipinta da un concittadino immortale, portata in processione, si degnò miracolare in mezzo al popolo, “rallegrandolo”.
Panni alle finestre, donne discinte. Ma anche povertà patita con orgoglio, affetti difesi con i denti. Operai, e più propriamente, falegnami, calzolai, maniscalchi, meccanici, mosaicisti. E bettole, botteghe affumicate e lucenti, caffè novecento.
La strada. Firenze. Quartiere di Santa Croce.
Il fanciullo poteva innocentemente contare le sue palline di terracotta, seduto sul gradino della casa di tolleranza, nel vicolo chiamato via Rosa; il popolano orinare senza rimorso al muro sotto la lapide che ricordava la casa abitata da Giacomo Leopardi; la bella ragazza inorgoglirsi di abitare in via delle Pinzochere, ch’era una delle strade più pulite del nostro Quartiere.
Eravamo creature comuni. Ci bastava un gesto per sollevarci collera o amore. La nostra vita scorreva su quelle strade e piazze come nell’alveo di un fiume; la più pensata delle nostre ribellioni era quale un mulinello che ci portasse a fondo. Non per nulla le carceri della città erano nel cuore del nostro Quartiere. Avevamo imparato a fare un viluppo dei nostri affetti, intrecciati l’uno all’altro da privati rancori, da private dedizioni. Eravamo un’isola nel fiume che comunque andava, fra i carrettini del trippaio e dell’ortolano, il bugigattolo del venditore di castagnaccio, lungo via Pietrapiana. Dall’Arco di San Piero a Porta alla Croce.
Si usciva dal lavoro dopo le sei del pomeriggio; e non esisteva vera vita, società vera, calore, se non quando eravamo nelle nostre strade e piazze. A seguitare il Corso, che appunto sboccava all’Arco di San Piero, avremmo trovato la città col suo centro, i bei caffè e le orchestrine; eppure, per fare quei pochi passi, inconsciamente ogni volta, ci preparavamo a qualcosa di estraneo da affrontare. Creature innocenti, confinate per malinconia, abitudine o amore, per qualcosa di più intimo e rissoso, nel nostro Quartiere. Anche coloro che lavoravano nelle fabbriche della periferia, pedalavano veloci sui viali per raggiungere il Quartiere e godere la serata che gli apparteneva.
Lì era trascorsa l’adolescenza. I fratelli minori ripetevano i nostri gesti giocando di spiccioli e di cartine colorate, a pugni ed abbracci, i giochi che avevamo loro insegnato, inventandone di nuovi che ci parevano peggiori. Se passavamo da via del Fico o da via de’ Macci, o attorno a piazza Santa Croce in attesa della ragazza, i fratelli minori ci costringevano a lasciargli le biciclette: le montavano infilando la gamba framezzo al telaio, per trovare l’altro pedale.
Le case erano buie, umide e fredde d’inverno. I tavoli dove mangiavamo avevano spacchi verticali di cui ci accorgevamo soltanto le rare volte che scrivevamo una lettera. Ma pulite ed in ordine, le nostre case, curate dalle nostre mamme che avevano i capelli grigi e uno scialle buttato sulle spalle. Nella stanza da pranzo che noi chiamavamo il salotto, c’era un divano, con la trina alla spalliera e i mattoni rossi di cinabrese, le fotografie incastrate ai vetri della credenza, una sveglia. Il canto delle sorelle che più a lungo potevamo udire al mattino della domenica, era una cosa allegra che ringiovaniva le stanze, coloriva di parati le mura gialline.
Facevamo poco conto della casa. Nemmeno ci accorgevamo che le lampadine economiche vi spandessero una luce che rendeva impossibile distinguere da un angolo all’altro delle stanze, né lavarci nell’acquaio era un fatto che potesse deluderci. Il nostro lettino, che aveva un crocifisso o un santo inchiodato da capo, con un ramoscello d’ulivo per traverso, conosceva le nostre speranze, inseguite contando le crepe del soffitto. Un cassetto del comò ci apparteneva: a cominciare da una certa età ne portavamo in tasca la chiave per serbarvi il segreto di alcune fotografie che ci erano dedicate, di una rivoltella. La casa significava i volti che le sue stanze ospitavano, e noi le volevamo bene per questo.
Nulla sapevamo, non volevamo sapere forse. Ci promettevamo oneste gioie: meritare di più nel lavoro, farci capaci; e avere una ragazza, e poi un’altra magari, e infine sposarne una davvero, coricarsi con lei in un letto più grande, amarla per quanti baci sentivamo di poterle dare.
La nostra vita erano le strade e piazze del Quartiere, fiorentini di antica razza, di “antico pelo” dicevamo scherzando. Si stava agli angoli delle vie, sotto la Volta ove fu trafitto Corso Donati, e ci si stava senza alcun sospetto di tutto questo, “popolo minuto” sempre, fatto ignaro ormai, ciompi da se stessi traditi. Sulle antiche vestigia si illuminava la rosticceria il cui banco spandeva attorno odore di polpette di patate, di coniglio arrostito, di verdura fritta.
La città era al di là di questa nostra repubblica, aveva per noi un senso di archeologia e di eldorado insieme: per parteciparvi occorreva che fossimo rasati e avessimo in dosso i vestiti migliori. Dagli altri Quartieri popolari ci divideva un sentimento impreciso eppur vivo, di rivalità ed emulazione; ci riunivano per subito dividerci di nuovo, in rissa, l’Arno d’estate e le partite di calcio alla domenica, la tappa del Giro d’Italia.
Dalla soglia del caffè, ove la radio imperversava inascoltata, guardavamo le ragazze passare, parlavamo, entravamo ai biliardi, ci muovevamo verso via Rosa dopo cena, o curiosi di una motocicletta facevamo a turno, col meccanico che la guidava, un giro per i viali di Circonvallazione. Divisi in più gruppi, secondo le amicizie, le affinità, le occasioni.
II
Un giorno Arrigo prese a pugni Carlo perché aveva detto che Maria gli piaceva. Maria era sorella di Arrigo. In quel tempo essa lavorava in una modisteria del centro. Si dava il rossetto sulle labbra togliendoselo con le dita, per le scale, prima di rincasare. Era una fanciulla ormai sbocciata: aveva una voce bassa e calda, parlava come se ad ogni parola attribuisse un peccato. Si era comperata una borsetta che spesso apriva camminando per guardarsi nello specchietto.
«È una vanesia» disse Giorgio. «E per una vanesia non conviene battersi.»
Anche Arrigo sembrò condividere questo giudizio. Poi disse:
«Ma è mia sorella. Sapeste come fa dannare la mamma!».
Eravamo in piazza Beccaria, appena usciti dal cinematografo. Ci riconciliò il giocoliere che presentava al pubblico i suoi cani ammaestrati.
Perché il circolo degli spettatori non si facesse troppo a ridosso (dopo ch’egli aveva richiamato gente esibendosi con un bastone in equilibrio sul naso, e contemporaneamente giocando con degli anelli) roteava sulle persone tutt’intorno una palla di cencio legata all’estremità di un lungo spago. La gente arretrava; noi prendevamo a volo il proietto e glielo strappavamo di mano. L’uomo ci gridava insulti; noi usavamo la palla a mulinello contro di lui. I cagnolini, con gli occhietti spersi fra il pelame, si alzavano sulle zampe di dietro abbaiando. La gente, divertita, ci proteggeva. Il giocoliere era un uomo anziano, col volto macilento, una voce da eunuco: implorava, quasi disperato.
«Sempre i soliti» diceva. «Mascalzoni! Mi rovinate il pane!»
La gente rideva. Quando ci eravamo stancati del gioco, gli restituivamo la palla e lo spago. Egli dava inizio alla rappresentazione. Vestiva i cani da pagliaccetti, poi da maghi, mettendo loro in testa, fissato sotto la gola da un elastico, un cono trapunto di stelle. Le bestiole facevano piroette, saltavano dentro il cerchio, camminavano fra le gambe del padrone mentre questi simulava di andarsene indifferente a passeggio. Infine il cane Lolli prendeva in bocca un piatto d’ottone e faceva il giro fra gli spettatori che gli regalavano delle monete.
Pensavamo cosa fare dopo ciò. Gino volle restare per vedere il film ancora una volta; e siccome anche Giorgio ci lasciò perché sua madre aveva bisogno di lui, eravamo rimasti i due avversari pacificati ed io. Parlammo del film, progettammo per la domenica successiva una gita sulle colline, così andando verso San Piero, fermandoci alcuni minuti alla mostra del fioraio ov’era esposta in primo piano, dentro un vaso, una pianticella fiorita che non conoscevamo.
Passò Luciana assieme ad un’amica. Si tenevano a braccetto, e ridevano, eccitate. Esse non ci videro. Noi scorgemmo due giovani in pantaloni lunghi che le seguivano. I miei compagni sapevano che io ero innamorato di Luciana. Ebbi un colpo al petto, umiliato dei miei calzoni corti, del mio volto quindicenne con appena la peluria nera sulle labbra. Dovetti accendermi in volto.
Carlo era il più cattivo fra noi, o soltanto il più triste, come dirò. Il suo precoce cinismo era di costante incoraggiamento alla mia timidezza. Accennò a Luciana. Mi disse:
«Ti tradisce, eh?».
Io mi offesi: il tono della sua voce era maligno; i suoi occhi erano gialli, quasi di gatto. A bocca chiusa irrideva il mio rossore, guardandomi. Risposi:
«Perché? Non sono mica il suo padrone. Lei nemmeno lo sa che io…». Volevo aggiungere: le voglio bene; ma non ci riuscii.
Il cuore mi batteva. Mi ero voltato verso la mostra dei fiori; appannavo il vetro col mio fiato, o forse gli occhi mi si velarono di lacrime. Arrigo mi tirò per un braccio.
«Andiamo» disse. Aggiunse: «Debbo avere ancora una sigaretta. La vuoi?».
Accettavo la sigaretta, quando Carlo me la tolse di mano. Disse:
«Fesso che sei. Seguila. Fermala prima di loro, altrimenti te la rubano».
Arrigo disse:
«Certo, può essere il momento buono».
Mi costrinsero a muovermi, a seguire le fanciulle e i due corteggiatori che gli si avvicinavano. Il cuore mi batteva forte; ero accaldato e stanco come dopo una lunga corsa. Mi ravviai il ciuffo sulla fronte.
Luciana e l’amica (una certa Marisa, la conoscevo, abitava verso il Madonnone; sapevo che aveva avuto diversi fidanzati) avevano raggiunto Porta alla Croce, si salutarono. L’amica prese per via Aretina; Luciana imboccò il viale per tornare verso casa. Anche i due giovanotti si separarono, parve d’intesa, seguendo ciascuno la fanciulla designata.
Luciana camminava sul Viale, rasente gli alberi, come evitando di proposito il marciapiede. Era ormai sera e la sua figurina entrava e usciva dai cerchi di luce dei fanali. Pensai di mettermi a correre, di superare il giovanotto, ed incamminarmi con lei; ma così facendo temevo di dispiacerle, di perdere anche la sua amicizia. Il sudore mi gelava sulla fronte, quasi mi cogliesse una improvvisa sfinitezza: e il vento lieve del Viale mi metteva freddo. Costeggiavo il muro dello Sferisterio, sul marciapiede; mi giungevano colpi di tamburello, grida. Passò un tram stridendo alla voltata di via dell’Agnolo.
Il giovinotto aveva raggiunto Luciana, le camminava al fianco. Avrei voluto fuggire, ma temevo che gli amici mi seguissero; mi proibivo di voltarmi e ricevere l’umiliazione di vederli maggiormente irridere alla mia sconfitta. La fanciulla e il giovanotto camminavano adesso più adagio; distinguevo ch’egli fumava. Proseguirono per il Viale fino sul Lungarno. Io li spiavo nascosto dietro la Torre della Zecca, frenando un singhiozzo. Un camion me li tolse dalla vista arrestandosi proprio di fronte: ne scese l’autista che armeggiò attorno al cofano.
Stavo per spostarmi sull’altro lato della Torre, allorché una mano mi agguantò alla spalla, mi voltò di violenza e due schiaffi mi percossero le guance. Dinanzi a me c’era il giocoliere, diabolico sembrava, feroce. La sua voce di eunuco disse:
«Ripròvati, domani».
Aveva a tracolla la cassetta con l’armamentario per il suo spettacolo. Abbassai gli occhi per riprendermi dallo smarrimento, senza volontà alcuna di reagire. I cagnolini mi guardarono col musetto alzato, nemici anche essi.
III
Abitavo al secondo piano di via de’ Pepi 25, nella casa d’angolo con via dell’Ulivo. Su questa strada guardavano le finestre della cucina e del salotto; vi saliva odore di stallaggio, e nella notte scalpitare di cavalli. Al mattino le carrozze erano in fila lungo il marciapiede. Fra uno sbattere di secchi e uno scrosciar d’acqua, il bacalaro Egisto le nettava del fango e della polvere. Se mi affacciavo, Egisto mi diceva: «Nano, dormi eh? Beato te!». Egli era piccolo e tozzo, la testa grossa, la faccia avvinazzata, o perpetuamente infreddolita si sarebbe detto. Aveva sul mento un neo che arricciava fra le dita come un baffo. I fiaccherai facevano capannello sulla porta dello stallaggio: avevano voci chiocce, catarro. Passava il venditore di pane fresco: «Semellaio!» gridando, con la gerla sotto il braccio. Lo precedeva il ronzio della segheria che sarebbe durato tutta la giornata. Poi arrivava la prima diligenza del suburbio, ne scendevano i contadini e i fattori, le massaie che venivano in città per i corredi. Se primavera, fasci di mimose stipavano l’imperiale. Io ero già fuori casa.
Uscivo con mio padre che aveva trovato da impiegarmi come apprendista nell’officina dove lavorava. Mi metteva in canna e così andavamo. Egli beveva una grappa al Bar San Piero; mi faceva prendere il caffè e latte nel quale inzuppavo il pane che la nonna non dimenticava di ripormi in tasca della blusa. Stretto sotto l’ascella, tenevo il pacchetto della colazione per mio padre e per me. Si imboccava Borgo Pinti, entrambi sulla bicicletta; sui viali ci ingruppavamo con gli altri operai ciclisti. Spesso ero ancora insonnolito, e le mani mi si aggricciavano dal freddo sul manubrio.
A volte incontravamo Maria, per via dell’Orivolo. Le passavamo avanti mentre si guardava nello specchietto o era al braccio di un giovanotto sconosciuto. Mio padre diceva:
«Ti fai portar via le ragazze del casamento!».
Mi dava uno scapaccione sulla nuca, ridendo. Io dicevo a mio padre:
«Tu fammi i pantaloni lunghi e poi ve...
Indice dei contenuti
- Cover
- BUR
- Frontespizio
- Prefazione
- Nota biografica
- Riferimenti bibliografici
- Il Quartiere